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“In trasparenza l’anima” di Beatrice Sciarrillo, recensione a cura di Nadia Delsedime

“La malattia mi ha fatto diventare bugiarda…
Dove loro vedono le ossa, io vedo la carne, una carne viva e pesante. …vedo un coagulo di sensi di colpa. Vedo tutto, non vedo la malattia. Non oso neanche nominarla. Non si nomina ciò che è sacro” (Beatrice Sciarrillo)

 
Quando qualcuno trova la propria voce, lo si sente. Quando qualcuno trova la propria voce, sa nominare le cose. Può nominare le cose. Perché le riconosce, ne ha coscienza e ne ha il coraggio. E quando le cose vengono nominate, prendono vita. Diventano concrete.
Quando si trova la propria voce, si può rendere testimonianza. Diventare testimonianza. E magari essere d’ispirazione e dare conforto.
Nessuno è solo nelle esperienze che fa, perché – benché ciascuno sia unico in se stesso- le esperienze di malattia sono molto simili fra loro; e la fregatura è che nella malattia, proprio in quella malattia che dovrebbe esplicitare la propria “unicità”, si diventa tutti uguali.
Rendere testimonianza significa condividere una esperienza, significa affermare che nessuno è solo in ciò che vive, prova, subisce.
Questo libro- romanzo, piccolo saggio romanzato di diagnosi e cura dei DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare) – è importante in quanto testimonianza viva e scomoda di un’esperienza di vita sofferente, di un’esperienza di una fragilità anche importante e della possibilità di superarla.
Nominare, farsi voce, condividere, queste le parole chiave del percorso di cura e di crescita/ miglioramento, poiché guarigione è parola troppo impegnativa e definitiva che spaventa.
In fondo se – come mi piace pensare – la malattia è un viaggio omerico all’interno dei propri abissi e si conclude scoprendo di sé qualcosa di nuovo e di più vero, non è proprio corretto parlare di “guarigione”, perché non si guarisce mai da se stessi. Ci si trasforma, si evolve, si scoprono nuove parti di sé e si approda a nuovi porti.
Quindi migliorare non significa solo avere meno sintomi, un peso più vicino alla norma, meno sbalzi d’umore o meno attacchi di panico, ma soprattutto sentirsi più autentici, meno incollati all’immagine affibbiata da altri e più adesi ad un sentimento profondo di sé che fa sentire più a proprio agio con se stessi. Meno stranieri a se stessi.
Partorire un’identità, ecco a mio avviso il profondo significato di una esperienza di malattia e di cura. Un’identità non più fittizia ma reale. Un’identità non troppo camaleontica, una identità dissonante dalla norma (non normalità, parola orrenda e violenta) magari, ma propria.
Anita è tante cose; studentessa modello, avida lettrice, figlia incompresa, sorella amata, malata di anoressia, compagna di malattia, paziente ricoverata in un reparto.
Anita è tante emozioni, sente molto; colpa, rabbia, vergogna, paura, incredulità, sfiducia, indegnità. Anita è un pieno di emozioni che non riconosce o che seppellisce sotto miliardi di parole lette e studiate, milioni di passi camminati, infinite calorie non consumate o bruciate.
Anita è un pieno che vuole diventare vuoto, che vuole farsi assenza, che vuole sparire, per non sentire più, per non deludere più, per non combattere più con la vita. Combattere con la vita nel senso di accettare il distacco diventando adulti, accettare di non piacere, combattere i pregiudizi, scontrarsi, alzare la voce, cambiare, andarsene.
Anita si fa ghiaccio per non essere fuoco. Si fa ossa per non essere carne. Rincorre la morte per non vivere. Soffre, si mortifica, si dilania, perché pensa di non essere degna di qualcosa di bello e buono, del piacere, di desiderare. Anita è una Santa Anoressica moderna, persa nel suo intelletto, tutta spirito e quasi più nessun corpo.
Il corpo, questo grande rimosso, questo protagonista in filigrana di tutto il libro, un corpo nascosto, affamato, scavato, martoriato, un corpo che nelle sue funzioni vitali spaventa… il sangue, il sudore, gli odori, che fanno scappare dall’adolescenza per rifugiarsi in un mondo di ghiaccio che congela il tempo e la vita; si vuole tornare indietro, bambina, corpo da non desiderare, da non vivere.
“Ma il corpo c’è e c’è e c’è”, citando Wislawa Szymborska. E’ il convitato di pietra. C’è e prova a sopravvivere. Ma vivrà solo quando troverà modi di farsi parola, di dare voce a ciò che racchiude e nasconde, a quel grumo di emozioni che si erano bloccate nello stomaco. Quel corpo che si era fatto trasparente, per mostrare il malessere, lascia vedere poco a poco i contorni dell’anima che racchiude, e così facendo può tornare lentamente ad essere più consistente, più caldo, più vivo.
Può permettersi di sentire la carezza di cose piacevoli, le morbidezze di un materasso. Di tornare a desiderare.
Anita in questo viaggio non è sola; ha intorno una famiglia d’origine, fonte di amore e di rabbia, di disagio e di inadeguatezza, ma anche di protezione. Una famiglia dove restare bambina. Una famiglia con delle mancanze e dei conflitti, come tutte. Anche se ogni famiglia è infelice a modo suo. Una famiglia da cui separarsi per poter trovare la propria voce, da lasciare indietro. Poi – come in ogni romanzo di formazione – Anita incontra e si scontra con una famiglia adottiva, la famiglia del reparto ospedaliero dove trascorre un tempo sospeso necessario a riconnetterla con la realtà. Una famiglia fatta di medici, infermieri, assistenti e pazienti; altre ragazze, sorelle adottive, amate e odiate, con cui condivide un pezzo di vita, con cui si crea una rete di connessioni, sane e malate insieme, come un po’ tutte le relazioni. Invidie, competizione, pietas, tradimenti e abbracci, empatia data dal linguaggio comune della malattia, comunità chiusa e orgogliosa, quella dei DCA. Una comunità a cui però Anita non desidera aderire. Lei vuol essere speciale. E in qualche modo lo sarà.
Speciale è anche il personaggio di Flavia, che simbolicamente racchiude in sé le figure tragiche della Malattia, della Morte, della Speranza. Lei, quella più malata, quella che fa paura, è l’unica a toccare Anita nel profondo, fino a diventarne un alter ego, l’Ombra, o la Luce forse. Quel resto di forza vitale che serve per opporsi alla distruzione della malattia. Flavia è insieme yin e yang. Complessità. Come complessi sono i DCA per definizione. Patologie complesse.
Nello stesso ambiente convivono gruppi diversi, come in una savana; gazzelle e leoni. Equipe di cura e pazienti, impegnati a convivere in un delicato equilibrio, dove le forze della Cura e della Malattia si sfidano continuamente e strenuamente, fra sgambetti e bugie, fra sorrisi e rimproveri, fra verità urlate e rifiuti gridati, fra cadute e mani tese per rialzare, mani che medicano e che accarezzano, parole che feriscono e che scavano, che devono aprire un varco e lasciare un segno. Ci si rincorre, tentando di fermare un movimento incessante concretizzazione di una angoscia ossessiva che si autoalimenta. Non è facile; come in ogni famiglia si vivono momenti di forte rabbia e frustrazione da entrambe le parti. Non sempre le cose vanno bene. Ma si prova, si fa del proprio meglio. Chi nel cercare di “guarire”, chi nel cercare di curare.
Il reparto è un contenitore, che contiene e limita, contiene le angosce e prova a mettere un limite al sintomo; limite che magari nella vita fuori è difficile dare perché fa paura dire di no, dire basta, si teme l’odio dei figli, la ribellione violenta o la sola minaccia. Ma i limiti sono necessari per crescere. In reparto tutto è nutrizione, alimentazione; non si nutre solo con le calorie del cibo o dell’integratore, ma soprattutto attraverso il calore della relazione, che è incontro e scontro. Che è fiducia reciproca e abbraccio in cui ci si deve lasciare andare. Mollare il controllo. La cosa più difficile del mondo per chi pensa che sia l’unico controllo possibile, l’unica forza possibile. L’unica vita possibile. Ma l’unica cura possibile passa per la nutrizione, con la N maiuscola, per fortificare il corpo e far emergere la parola. La parola di vita. La parola di libertà, laddove la malattia è prigione.
Alla fine del viaggio, nelle ultime pagine del libro, emerge il corpo concreto, prende forma. Prende calore. Prende spazio. Si riaffaccia timidamente alla dimensione del piacere. Lo si può toccare. Un corpo, una pancia “che rivendica il suo diritto a essere riempita”. “Come se parlare mi facesse ritornare la fame”. La parola svuota di ricordi, traumi, emozioni e lascia spazio alla vita, alla possibilità di vita, alla possibilità di nutrirsi. Svuotandosi della malattia, ci si può riempire di altro.
Nei DCA e nell’Anoressia Nervosa in particolare, la malattia si fa religione con i suoi riti e adepti, una religione che rende speciali, che nutre e dà senso. Che dà forza e identità. Che consola e che fa da madre. Questo è ciò che dovremmo tenere tutti presente quando ci approcciamo come curanti a questa patologia; o che devono tenere presenti i familiari, quando vorrebbero solo veder estirpato questo seme maligno dal/dalla proprio/a figlio/a. Guarire e in fretta è la richiesta. Riparare un danno. Combattere. Tornare come prima. Ma a quale prima? Non si può parlare in termini militari di una malattia e di una cura. La cura è approdare laddove non si è mai stati prima. Ci vuole coraggio ad affrontare una terapia, a mettersi in gioco, a cambiare e questo tutti lo devono avere ben presente. Ci vuole coraggio anche ad ammalarsi, perché significa iniziare già a cambiare qualcosa dello status quo. Significa già esprimersi. Questo coraggio va sempre rispettato.
Beatrice Sciarrillo, che ha trovato la propria voce per il tramite di Anita, ce lo ricorda bene.
“Questa forza interiore, che gli altri vogliono chiamare malattia, è l’unica cosa veramente mia, l’unica che mi fa sentire speciale e io non permetterò a nessuno di rubarmela.
… Ora è la forza che ho dentro a farmi da madre, e se anche questa mi abbandona resterò orfana per una seconda volta. … E l’abbandono non è forse la cosa più spaventosa al mondo?”

CORSO DI FORMAZIONE TEORICO-CLINICO SUI DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE

Il centro CPF-FIDA Torino propone un corso di formazione teorico-clinico specifico per il trattamento dei disturbi del comportamento alimentare.

Finalità del Corso di Perfezionamento
Il corso si terrà a Torino presso la sede di CPF-Fida in Via Lamarmora 67, a partire da Maggio 2024 fino a Novembre 2024.

Il corso ha la finalità di formare gli “operatori”, seguendo un percorso didattico sulla teoria e tecnica della cura dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione. Il confronto tra i vari approcci teorici e clinici vuole esplorare le modalità più efficaci finalizzate a modificare l’organizzazione psichica del mondo interno dei pazienti affetti da queste problematiche.
Il corso sarà articolato in 5 sessioni tematiche che si svolgeranno il sabato per un totale di 40 ore di formazione. Le sessioni tematiche prevedono approfondimenti dei diversi ambiti della teoria e della tecnica: partendo dai criteri diagnostici più accreditati per i disturbi dell’alimentazione e della nutrizione si proseguirà esplorando gli approcci terapeutici nell’infanzia e nell’adolescenza, il lavoro con le famiglie, l’approccio psicodinamico alla comprensione e al trattamento, l’esposizione di un modello di intervento multidisciplinare integrato e i percorsi terapeutici possibili.

Accreditamento ECM
La partecipazione al corso assegna crediti formativi  alle seguenti figure professionali: Medico, Dietista, Psicologo, Educatore, Infermiere, Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica.
Il rilascio della certificazione è subordinato alla partecipazione effettiva dell’intera sessione e alla verifica dell’apprendimento.

Per informazioni e iscrizioni scrivere a Segreteria CPF-Fida Email: [email protected]

Il Costo del corso è di 500 euro (esente IVA art.10) con ECM e 400 euro senza ECM.  

Vigoressia: la realtà che si nasconde dietro un corpo apparentemente sano

L’etimologia della parola vigoressia deriva dal latino “vigor” (vigore, forza) e “orexis” (appetito), tale termine può così essere tradotto con l’espressione: “fame di grandezza”.

La vigoressia, detta anche anoressia riversa, bigoressia o complesso di Adone, è una forma di dismorfismo muscolare, ovvero un disturbo legato alla percezione della propria immagine corporea.

La persona è ossessionata dalla propria massa muscolare, fa intensi ed eccessivi allenamenti fisici e spesso segue una dieta ipocalorica ed iperproteica.

A differenza dell’anoressia nervosa in cui si persegue un’eccessiva magrezza, nella vigoressia si aspira ad un gigantismo muscolare (Benedictis & Giuliani, 2014).

A soffrire di tale disturbo è solitamente il genere maschile, in quanto quello femminile è più attratto dall’ideale esile di magrezza. L’uomo tende così a percepirsi come gracile, minuto e secco anche quando il suo corpo appare in realtà tonico e muscoloso.

Il comportamento ossessivo nei confronti della propria immagine corporea risulta così guidato da un intenso desiderio nel voler aumentare la propria massa muscolare, portando la persona a trascorrere gran parte del proprio tempo in palestra.

Attraverso questo atteggiamento, l’individuo inizierà a far dipendere la percezione che ha della propria mascolinità con la grandezza della propria forma fisica, arrivando in questo modo ad essere tanto maschile quanto più è muscoloso (Spinetta, 2015).

Partendo da questo presupposto, colui che soffre di vigoressia è terrorizzato dall’idea di poter perdere la propria massa muscolare e dunque la propria mascolinità e credibilità personale.

Si tratta quindi di un disturbo in cui il concetto di autostima sembra rivestire un ruolo di fondamentale importanza. Coloro che soffrono di tale disturbo provano un’intensa insoddisfazione di sé e della propria forma fisica, questo li porta a focalizzare tutta la loro attenzione sulla propria forma corporea, così da riuscire a migliorare anche la propria immagine interiore.

Le cause di tale disturbo possono essere ricondotte ad un insieme di fattori sociali, biologici e psicologici.

Il comportamento di chi soffre di vigoressia è spesso accompagnato anche da atteggiamenti autopunitivi. La persona segue allenamenti intesi che possono portarla a veri e propri infortuni a cui però non dà ascolto, continuando così ad allenarsi lì dove in realtà sarebbe consigliato un riposo completo, in modo da permettere al corpo di guarire (Betti, 2017).

Chi soffre di bigoressia tende a seguire anche diete molto rigide, arrivando al punto di rinunciare alle occasioni sociali per dedicarsi interamente all’allenamento fisico o per evitare di dover per forza “sgarrare” dalle proprie abitudini alimentari. Tutto questo può però condurre a forti stati d’ansia e disturbi dell’umore (come la depressione) fino ad arrivare alla formulazione di veri e propri pensieri suicidi (Dalla Ragione & Scopetta, 2009).

Per chi soffre di tale disturbo, le uniche persone considerate “degne” di attenzione e stima sono coloro che vivono seguendo le loro stesse abitudini o che magari hanno un corpo migliore del loro e che dunque stimolano il desiderio di voler raggiungere quella prestanza fisica ad ogni costo.

La vigoressia è dunque considerata un disturbo sottostimato perché coloro che ne soffrono non si rendono conto di avere un visone distorta della propria fisicità, per questo effettuarne una diagnosi risulta essere molto complesso. Spesso, infatti, quando osserviamo qualcuno con una fisicità molto tonica e muscolosa tendiamo ad associare quel modello al concetto di salute e benessere e, raramente, ci viene da pensare che quell’immagine possa nascondere invece un disagio molto più profondo.

Per chi soffre di vigoressia è importante divenire consapevole di tale disturbo e di come esso vada ad intaccare ogni dimensione della propria vita, compresa quella sociale e lavorativa. In tale cornice è ovviamente di fondamentale aiuto il supporto di parenti ed amici, affiancato ad un percorso di psicoterapia capace in questo modo di aiutare il paziente a riconoscere quali siano i pensieri distorti, nonché i comportamenti errati, così da poterli individuare e trasformare in schemi di azione più sani ed efficaci (Betti, 2017).

E’ importante ricordarsi come la percezione che si ha della propria immagine corporea non è data unicamente dalla somma delle differenti parti isolate del corpo, né unicamente dall’insieme degli aspetti fisiologici percepiti, ma è data anche dall’esperienza che il soggetto ha del mondo e di conseguenza dall’esperienza che ha del proprio corpo. Tutto questo va così a costruire la cosiddetta “identità corporea”.

Come afferma George Downing: “né l’anatomia, né la fisiologia, né la biologia, né la chimica possono rendere ragione di ciò che comunemente chiamiamo identità corporea. Una cosa è l’aspetto tangibile e funzionale del mio corpo altro è l’esperienza che traggo dall’abitare nella mia dimora corporea, l’esperienza cioè di un corpo che ha un’interiorità, una soggettività, un senso di essere capace d’azione” (Downing, 1995).

Dott.ssa Rossella Ottaviani

Le relazioni interpersonali nei Disturbi del Comportamento Alimentare.

L’anoressia, la bulimia, il binge eating e le altre forme di disturbo del comportamento alimentare (DCA) sono sintomo di un disagio interiore che trova espressione attraverso il corpo. Le condotte alimentari disfunzionali si configurano come manifestazione di vissuti di sofferenza e soluzioni al malessere interiore individuale.

Le cause che possono portare all’insorgenza di un disturbo del comportamento alimentare sono sempre multifattoriali.

I vissuti emotivi che accompagnano le persone con un DCA sono variegati: senso di colpa, senso di inadeguatezza, solitudine, senso di vuoto, paura, dolore, rabbia, insicurezze, perdita di speranza. I pazienti affetti da disturbi alimentari mostrano marcate difficoltà relazionali: faticano a regolare la giusta distanza interpersonale, pertanto possono manifestare una dipendenza adesiva nei confronti dell’altro oppure tendere a respingere in toto il legame, temendo di esserne inglobati. L’incapacità di tenere in considerazione i confini relazionali può comportare un ritiro dalle relazioni sociali e una forte chiusura in se stessi. Il contatto con l’altro è temuto perché implica l’esposizione al giudizio e allo sguardo altrui. Allo stesso tempo, il sintomo può diventare simbolicamente un rifugio difficilmente abbandonabile.

Immersi in questa confusione emotiva i genitori e le persone affettivamente vicine si ritrovano di fronte ad una situazione che accresce il senso di impotenza e spesso sono proprio loro che si rivolgono ai curanti nella speranza di ottenere aiuto. In questi casi è essenziale essere a conoscenza di alcuni campanelli di allarme come cambiamenti evidenti delle abitudini alimentari (iperselettività, modifiche degli orari di assunzione del cibo, predilezione a consumare i pasti fuori casa), attenzione marcata alla propria immagine corporea e evidenti modifiche dell’atteggiamento.

Dal punto di vista psicologico si possono notare vissuti di ansia intensa, insicurezza, scarsa autostima, idee svalutanti e sintomi depressivi. Tutti questi segnali sono fondamentali per riuscire ad individuare il disturbo tempestivamente: solo attraverso una diagnosi precoce è possibile cercare di evitare compromissioni gravi dello stato di salute. Intervenire sui disturbi del comportamento alimentare è estremamente complesso e richiede un’equipe multidisciplinare.

É bene ricordare che ogni intervento deve essere adattato e cucito addosso alla singola persona e non si può pensare ad un tipo di intervento generalizzato e standardizzato per tutti i casi.

Chiunque sperimenti una simile situazione, sebbene possa presentare sintomi comuni legati al tipo di disturbo, porta con sé la propria soggettività e vissuto personale. Questi ultimi non possono essere trascurati in alcun modo in quanto fondamentali per la comprensione dell’insorgenza del sintomo e di conseguenza per decidere il tipo di intervento da attuare.

Accade di frequente che i figli si oppongano ad un percorso di cura, in questi casi è importante che la prima richiesta di aiuto provenga dalla famiglia. È utile che i genitori si rivolgano ad un professionista per intraprendere un percorso di sostegno genitoriale, in modo da riflettere sulle dinamiche interne al sistema familiare; ricordiamo, infatti, che quando ad ammalarsi è un componente della famiglia, di riflesso la patologia coinvolge l’intero nucleo familiare. Questo movimento da parte della coppia genitoriale può favorire la consapevolezza nel figlio della propria sofferenza, portandolo alla decisione di cominciare un iter terapeutico. Quello che le famiglie possono fare è quindi mettersi in una posizione d’ascolto rispetto ai bisogni emotivi dei propri figli, accogliendo e non giudicando il dolore e le paure manifestate, non colpevolizzandoli e non colpevolizzandosi. Come suggerisce la Dott.ssa Marcassa, psicologa e psicoterapeuta dell’età evolutiva, “per accogliere e creare un clima di ascolto i genitori stessi si possono avvalere del supporto di una grande rete di professionisti che li sostenga in un momento in cui tutta la famiglia risulta essere destabilizzata, questo sarà propedeutico anche per la creazione di strumenti adeguati per sostenere il figlio nel proprio percorso di crescita”.

Infine è importante tenere a mente che il coinvolgimento della rete affettiva del paziente è un fattore predittivo della riuscita del trattamento. Il sintomo alimentare nasce come tentativo di autocura, allo scopo di lenire una sofferenza ed è per questo motivo che il soggetto faticherà ad abbandonarlo. Specialmente in adolescenza si verifica una forte identificazione con il sintomo, per cui la patologia diventa un modo per costruirsi una propria identità. In quest’ottica l’eliminazione repentina del sintomo potrebbe generare un senso di smarrimento e disorientamento. Compito dello psicoterapeuta è quello di accompagnare la persona, tramite la creazione di una relazione di cura basata sullo scambio affettivo e su una solida alleanza terapeutica, nel trovare nuove modalità per affrontare il dolore. A quel punto sarà il paziente a decidere liberamente di abbandonare il sintomo, come spesso avviene.

Dott.ssa Angela Mangiacasale,

Dott.ssa Virginia Moratto,

Dott.ssa Marta Murgia,

Dott.ssa Smilla Rizza,

Dott.ssa Giulia Sanvido.

Pe(n)sa differente: festival dell’espressione creativa e della bellezza autentica.

Lo stato dell’arte nella prevenzione, cura e riabilitazione dei disturbi dell’alimentazione e l’obesità

Lecce • 16/17/18 giugno 2022
Polo Bibliomuseale di Lecce

I Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione (DNA) sono patologie psichiatriche emergenti che si stanno diffondendo con notevole rapidità. Riguardano fasce sempre più ampie di popolazione, determinando un impatto economico consistente sul Servizio Sanitario Nazionale. Rappresentano, secondo il Global Burden of Disease (2013), la dodicesima causa di disabilità per le donne di età compresa tra i 15 e 19 anni in Paesi ad alto reddito. Sono disturbi psichiatrici gravi e complessi potendosi verificare in poco tempo condizioni fisiche e psichiche di allarme. Sono caratterizzati da un alto tasso di cronicità, mortalità e recidiva. Comportano danni alla salute psichica e fisica, oltre che al funzionamento psicosociale compromettendo in modo consistente la qualità di vita. È necessario, pertanto, elaborare e coordinare interventi preventivi, diagnostici, terapeutici e riabilitativi in Unità Operative dedicate e specializzate che, all’interno di una rete assistenziale stabile, possano garantire l’unitarietà e la continuità del percorso di cura con intensità crescente.
Così come riportato nelle Linee Guida Internazionali (NICE, APA), nelle Raccomandazioni dell’ISS e del MdS (2013), l’intervento deve essere multidimensionale, interdisciplinare e multiprofessionale integrato negli ambiti di salute fisica e nutrizionale, psicologica e psichiatrica, relazionale, sociale e culturale. Nella cura di queste malattie non si può prescindere da un percorso di integrazione tra competenze capace di affiancare conoscenze e pratiche mobilitate a porsi il problema del disagio in tutta la sua complessità, pratiche con cui dare luogo a un progetto di umanesimo concreto che riflette sulla qualità del vivere.
L’evento scientifico si inserisce nell’ambito di Pe(n)sa differente Festival dell’espressione creativa e della bellezza autentica che ha preso l’avvio nel 2008 all’interno del programma ministeriale nazionale Guadagnare la Salute. Rendere facili le scelte salutari. Il Festival, progettato e organizzato dall’associazione scientifico-culturale ONLUS Salomè e dal laboratorio di comunicazione Big Sur con la direzione scientifica di Caterina Renna, celebra la soggettività che si manifesta come diritto al pensiero critico, alla differenza e alla variazione. Valorizza l’unicità e la novità che ogni persona essenzialmente è, con le sue possibilità espressive e la propria peculiare bellezza. Promuove la cura di sé e vuole essere un invito a un percorso di costruzione personale che passi attraverso la resistenza alle attuali forme di mercificazione e omologazione.
Il titolo scelto per l’edizione 2022, Rinasco al sortilegio con meraviglia con furore, tratto da una poesia di Antonio Leonardo Verri, vuole proporre una riflessione sul “cambiamento”. Il cambiamento che abbiamo mancato dopo la fase più acuta della pandemia, che non ha saputo “far scuola”. Quello frenato dalla pretesa di poter ripartire senza fare i conti con la realtà delle cose, come se niente fosse successo. Quello che non ha considerato una diversa possibilità di ‘volo’. Per provarsi ‘nuovi’ nella difficoltà, per osare strategie rivoluzionarie nel e per il vivere.
E allora due domande: Cosa sperare dopo l’incubo pandemico? Quali leve muovere per tentare di immettere nella vita sociale valori inediti, capaci di riconsiderare l’esistente e l’esistenza in esso?

All’evento parteciperà la Dott.ssa Loriana Murciano del Centro CPF Fida Torino.

E’ possibile leggere il programma completo dell’evento al seguente link: https://www.pensa-differente.it/web/eventiecm.php?event=40

Vigoressia: la realtà che si nasconde dietro un corpo apparentemente sano

L’etimologia della parola vigoressia deriva dal latino “vigor” (vigore, forza) e “orexis” (appetito), tale termine può così essere tradotto con l’espressione: “fame di grandezza”.

La vigoressia, detta anche anoressia riversa, bigoressia o complesso di Adone, è una forma di dismorfismo muscolare, ovvero un disturbo legato alla percezione della propria immagine corporea.

La persona è ossessionata dalla propria massa muscolare, fa intensi ed eccessivi allenamenti fisici e spesso segue una dieta ipocalorica ed iperproteica.

A differenza dell’anoressia nervosa in cui si persegue un’eccessiva magrezza, nella vigoressia si aspira ad un gigantismo muscolare (Benedictis & Giuliani, 2014).

A soffrire di tale disturbo è solitamente il genere maschile, in quanto quello femminile è più attratto dall’ideale esile di magrezza. L’uomo tende così a percepirsi come gracile, minuto e secco anche quando il suo corpo appare in realtà tonico e muscoloso.

Il comportamento ossessivo nei confronti della propria immagine corporea risulta così guidato da un intenso desiderio nel voler aumentare la propria massa muscolare, portando la persona a trascorrere gran parte del proprio tempo in palestra.

Attraverso questo atteggiamento, l’individuo inizierà a far dipendere la percezione che ha della propria mascolinità con la grandezza della propria forma fisica, arrivando in questo modo ad essere tanto maschile quanto più è muscoloso (Spinetta, 2015).

Partendo da questo presupposto, colui che soffre di vigoressia è terrorizzato dall’idea di poter perdere la propria massa muscolare e dunque la propria mascolinità e credibilità personale.

Si tratta quindi di un disturbo in cui il concetto di autostima sembra rivestire un ruolo di fondamentale importanza. Coloro che soffrono di tale disturbo provano un’intensa insoddisfazione di sé e della propria forma fisica, questo li porta a focalizzare tutta la loro attenzione sulla propria forma corporea, così da riuscire a migliorare anche la propria immagine interiore.

Le cause di tale disturbo possono essere ricondotte ad un insieme di fattori sociali, biologici e psicologici.

Il comportamento di chi soffre di vigoressia è spesso accompagnato anche da atteggiamenti autopunitivi. La persona segue allenamenti intesi che possono portarla a veri e propri infortuni a cui però non dà ascolto, continuando così ad allenarsi lì dove in realtà sarebbe consigliato un riposo completo, in modo da permettere al corpo di guarire (Betti, 2017).

Chi soffre di bigoressia tende a seguire anche diete molto rigide, arrivando al punto di rinunciare alle occasioni sociali per dedicarsi interamente all’allenamento fisico o per evitare di dover per forza “sgarrare” dalle proprie abitudini alimentari. Tutto questo può però condurre a forti stati d’ansia e disturbi dell’umore (come la depressione) fino ad arrivare alla formulazione di veri e propri pensieri suicidi (Dalla Ragione & Scopetta, 2009).

Per chi soffre di tale disturbo, le uniche persone considerate “degne” di attenzione e stima sono coloro che vivono seguendo le loro stesse abitudini o che magari hanno un corpo migliore del loro e che dunque stimolano il desiderio di voler raggiungere quella prestanza fisica ad ogni costo.

La vigoressia è dunque considerata un disturbo sottostimato perché coloro che ne soffrono non si rendono conto di avere un visone distorta della propria fisicità, per questo effettuarne una diagnosi risulta essere molto complesso. Spesso, infatti, quando osserviamo qualcuno con una fisicità molto tonica e muscolosa tendiamo ad associare quel modello al concetto di salute e benessere e, raramente, ci viene da pensare che quell’immagine possa nascondere invece un disagio molto più profondo.

Per chi soffre di vigoressia è importante divenire consapevole di tale disturbo e di come esso vada ad intaccare ogni dimensione della propria vita, compresa quella sociale e lavorativa. In tale cornice è ovviamente di fondamentale aiuto il supporto di parenti ed amici, affiancato ad un percorso di psicoterapia capace in questo modo di aiutare il paziente a riconoscere quali siano i pensieri distorti, nonché i comportamenti errati, così da poterli individuare e trasformare in schemi di azione più sani ed efficaci (Betti, 2017).

E’ importante ricordarsi come la percezione che si ha della propria immagine corporea non è data unicamente dalla somma delle differenti parti isolate del corpo, né unicamente dall’insieme degli aspetti fisiologici percepiti, ma è data anche dall’esperienza che il soggetto ha del mondo e di conseguenza dall’esperienza che ha del proprio corpo. Tutto questo va così a costruire la cosiddetta “identità corporea”.

Come afferma George Downing: “né l’anatomia, né la fisiologia, né la biologia, né la chimica possono rendere ragione di ciò che comunemente chiamiamo identità corporea. Una cosa è l’aspetto tangibile e funzionale del mio corpo altro è l’esperienza che traggo dall’abitare nella mia dimora corporea, l’esperienza cioè di un corpo che ha un’interiorità, una soggettività, un senso di essere capace d’azione” (Downing, 1995).

Dott.ssa Rossella Ottaviani

DISTURBI ALIMENTARI E USO DEI SOCIAL NEGLI ADOLESCENTI

L’insoddisfazione per le caratteristiche del proprio corpo è un tema ampiamente diffuso nella società moderna, che fornisce costanti input rispetto a specifici canoni di bellezza. In particolare, con l’avvento dei social media, le persone mostrano una versione filtrata e modificata di sé, sempre più vicina agli ideali di perfezione diffusi nel mondo occidentale. Il costante confronto tra la propria immagine corporea e quella altrui, soprattutto in soggetti particolarmente vulnerabili, può portare a sentimenti di sconforto, bassa autostima e svalutazione di se stessi, rendendo possibili delle conseguenze patologiche, come i disturbi dell’alimentazione, che trovano origine e mantenimento, tra i tanti fattori, proprio nella valutazione del corpo, delle sue forme, del peso e nella propria capacità di controllarli (Fairburn,2018). Tra le diverse fasce d’età, appare evidente che l’uso dei social media risulti maggiore tra gli adolescenti. Come sappiamo, l’adolescenza è, di per sé, una fase evolutiva complessa, in cui i soggetti sperimentano vulnerabilità, incertezza, un’identità ancora poco definita e un costante confronto con l’ambiente sociale. In tali condizioni, gli adolescenti che usano i social media, si scontrano con standard di bellezza e accettazione sociale finti e limitanti. I diversi fenomeni virali e diffusi sui social, come i gruppi pro-anoressia/bulimia, il body shaming, le immagini di corpi sempre tonici e magri possono intensificare i propri vissuti interni di angoscia e insoddisfazione corporea (Ballardini e Schumann, 2011). Inoltre, con la pandemia dovuta al Coronavirus e i conseguenti lockdown e didattica a distanza, i giovani sono stati costretti a rimanere a casa, soli con le proprie fragilità e l’unica modalità per interagire con gli altri era, ed è ancora, l’uso di social come Instagram e Tik tok. Questa condizione ha sicuramente facilitato l’esordio di un disturbo alimentare: in un sondaggio su oltre 3500 intervistati durante il lockdown italiano (Di Renzo et al., 2020), più della metà dei partecipanti ha riportato un cambiamento nella percezione della fame e della sazietà. Ovviamente, non bisogna dimenticare che i sintomi dei DCA esprimono una sofferenza interiore che non trova altri canali di comunicazione. È importante sottolineare la natura multifattoriale di questi disordini. Accanto all’insoddisfazione per il proprio corpo e la propria immagine, vanno tenuti in considerazione molti altri fattori di rischio (genere, ambiente sociale e culturale in cui si vive, stile di vita) e il particolare modo in cui si possono inserire nella storia di vita dell’individuo (Ballardini e Schumann, 2011). Nel caso degli adolescenti, il supporto familiare e dei loro pari è fondamentale. E’ importante che parenti e amici abbiano degli strumenti a disposizione per riconoscere i disturbi alimentari e aiutare chi ne soffre. Per questo motivo, sarebbe utile il lavoro di prevenzione, che potrebbe essere utile a contrastare l’esordio di un dca o fornire le informazioni utili alla cura, come i trattamenti integrati multidisciplinari che coinvolgono professionisti con diverse specializzazioni.

Dott.ssa Giordana Macaluso

Bibliografia

Ballardini, D., Schumann, R.,(2011). La riabilitazione psiconutrizionale nei disturbi dell’alimentazione, Edizioni Carocci Roma, 2011.

Di Renzo, L., Gualtieri, P., Pivari, F., Soldati, L., Attinà, A., Cinelli, A., Leggeri, C., Caparello, G., Barrea, F., Scerbo, F., Esposito, F., De Lorenzo, A., Eating habits and lifestyle changes during COVID-19 lockdown: an Italian survey, In J Transl Med. 2020 Jun 8;18(1):229. doi: 10.1186/s12967-020-02399-5.

Fairburn, C. G. (2018). La terapia cognitivo comportamentale dei disturbi dell’alimentazione, Edizione italiana a cura di Alessandra Carrozza e Riccardo Dalle Grave, Erikson

SITOGRAFIA

https://www.psicologomolise.it/2019/03/15/evanescenze-digitali-qual-e-il-rapporto-tra-disturbialimentari-e-social-media/

https://www.istitutopsicoterapie.com/il-ruolo-della-societa-e-dei-social-media-nei-disturbidellalimentazione/

LA PREVENZIONE DEI DISTURBI DELLA NUTRIZIONE E DELL’ALIMENTAZIONE

I disturbi della nutrizione e dell’alimentazione sono in costante aumento e mutamento. Essi colpiscono, seppur in forma diversa, ragazze e ragazzi sempre più giovani. Fare prevenzione a disturbi così complessi è un compito che, soprattutto dopo la pandemia da Sars-Cov2, è diventato sempre più urgente. La prevenzione, in questo caso, non si riferisce solo alla riduzione o eliminazione dei fattori di rischio ma, soprattutto, al consolidamento dei fattori protettivi nei soggetti potenzialmente a rischio.

Per quanto riguarda i fattori di rischio, possiamo distinguere i fattori individuali (età, genere, personalità, metabolismo, ormoni ecc.), i fattori familiari (dipendenze, abusi, dinamiche relazionali ecc.) e i fattori socioculturali che necessitano di una riflessione più approfondita. I disturbi alimentari sono molto diffusi nella società occidentale, che ha standard di bellezza che idealizzano corpi magri e tonici. Questo tipo di immagine corporea rimanda all’idea di successo, disciplina, autocontrollo e salute. Tutte le altre caratteristiche, che divergono da questo ideale, sono scorrette e da abolire. La finalità della prevenzione è proprio quella di promuovere l’accettazione della diversità e un’idea di benessere che superi il giudizio estetico.

Tra i fattori di rischio bisogna considerare anche lo sport che, se per molti è un’attività da cui attingere autostima ed energia positiva, per altri diventa un mezzo attraverso cui raggiungere il corpo tonico e muscoloso perfetto.

Un altro fattore riguarda il cibo e le diverse abitudini alimentari. Negli ultimi anni, le industrie alimentari hanno proposto una così vasta diversità di cibo (senza glutine, senza lattosio, senza grassi, senza conservanti ecc), da promuovere l’idea che molti alimenti siano dannosi, causa di intolleranze e malesseri fisici di vario genere e, quindi, da eliminare dalle routine alimentari.

Questi ed altri fattori di rischio contribuiscono a creare gli scenari entro cui i soggetti fragili e vulnerabili possono trovare, nel controllo del cibo e del peso, una consolazione, il riempimento di un vuoto o una punizione per non essere all’altezza delle aspettative della società.

Fare prevenzione diventa, dunque, una lavoro centrato su diversi fattori e sviluppato su diversi piani. Deve agire a livello universale e selettivo, comportamentale e strutturale; deve raggiungere diversi target come i giovani, i genitori, gli insegnanti, i medici, le organizzazioni sportive e giovanili, la scuola, i comuni. In Italia, il compito di prevenzione è lasciato ai clinici e alle associazioni dei familiari. Solitamente, però, chi lavora e vive vicino a chi soffre, è orientato a focalizzare il problema e i fattori di rischio, senza lasciare spazio ad altri orientamenti che promuovano, ad esempio, la prevenzione a tutto campo. Questo succede in diversi Paesi del Nord Europa, dove la prevenzione è affidata a Centri altamenti formati che si occupano solo di questo. Si tratta di Centri nati negli anni 90 per la prevenzione alle dipendenze e che, poi, hanno allargato l’attività anche ai disturbi alimentari, al gioco d’azzardo e alla violenza.

Tratto da: I disturbi della nutrizione e dell’alimentazione: un’epidemia nascosta

Il disturbo selettivo e restrittivo dell’alimentazione (ARFID)

Sempre più spesso capita di incontrare persone che manifestano disinteresse per il cibo o evitano determinati alimenti a causa di specifiche caratteristiche, come il colore o la consistenza. A questi comportamenti può associarsi una forte preoccupazione per le possibili conseguenze negative collegate al mangiare, quali vomito, rischio di soffocamento, dolori allo stomaco ecc. Tutte queste caratteristiche potrebbero rientrare nella definizione di ARFID, definito dal DSM 5 (American Psychiatric Association, 2013) come “ disturbo evitante restrittivo nell’assunzione di cibo”, caratterizzato da una persistente incapacità di soddisfare adeguati bisogni nutrizionali e/o energetici, che portano a conseguenze come perdita di peso, carenze nutrizionali e limitazioni nella vita sociale, scolastica o lavorativa. È importante sottolineare che, alla base delle restrizioni e degli evitamenti alimentari, non ci siano motivi riconducibili alla volontà di perdere peso o all’insoddisfazione per le forme corporee, come succede per altri disturbi alimentari.
Tale disturbo, ancora poco conosciuto, ha esordio prevalentemente nell’infanzia o nella prima adolescenza (alcuni studi indicano che i pazienti con questo disturbo tendono ad essere più giovani rispetto a quelli con anoressia nervosa e bulimia nervosa) ma, in alcuni casi, anche in età adulta. Le cause hanno una natura multifattoriale. Potrebbe trattarsi di esperienze traumatiche legate al cibo, che causano una restrizione o un evitamento dell’assunzione del cibo stesso. Thomas (2017) ipotizzò, invece, un’origine biologica, una predisposizione genetica ad anomalie nella percezione del gusto e nell’appetito. Anche il contesto sociale può avere un ruolo importante: i social permettono la diffusione di contenuti, spesso privi di fondamenta scientifiche, che sostengono l’assunzione di certi alimenti piuttosto che altri, favorendo abitudini alimentari sbagliate.
Qualsiasi sia l’origine di tali disturbi, è importante non sottovalutarne e sminuirne i segnali. Come tutti i disturbi alimentari, la cura richiede uno specifico intervento specialistico e multidisciplinare, che intervenga sulle problematiche psicofisiche ma, anche, sulle possibili comorbilità patologiche. I risultati di alcune ricerche hanno mostrato, infatti, una frequente comorbilità con i disturbi d’ansia e, in alcuni casi, con i disturbi dello spettro autistico e con il disturbo da deficit di attenzione/iperattività.

Dott.ssa Giordana Macaluso


BIBLIOGRAFIA
American Psychiatric Association. (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (5th ed.) Washington, DC: American Psychiatric Association.
Thomas, J.J., Lawson, E.A., Micali, N., Misra, M., Deckersbach, T. , &. Eddy, K.T. (2017). Avoidant/Restrictive Food Intake Disorder: A Three Di mensional Model of Neurobiology with Implications for Etiology and Treatment. Curr
Psychiatry Rep., 19(8), 54.
SITOGRAFIA
https://www.dottoressacarretta.it/disturbialimentari anore ssia bulimia binge cernusco/disturbi alimentari fascia pediatrica/arfid disturbo evitante restrittivo assunzione del cibo/
https://www.stateofmind.it/2021/10/arfidcause trattamento/
https://www.ipsico.it/news/arfidrestrizione evitamento cibo bambini/

L’equilibrio interrotto: il disturbo del comportamento alimentare nel contesto familiare

I Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) sono delle condizioni psicopatologiche che minacciano di intaccare il contesto relazionale e l’equilibrio familiare.

Di fatti, la famiglia del paziente costituisce la struttura relazionale privilegiata all’interno della quale il soggetto, portatore di disagio, si trova implicato e diviene il luogo in cui il disturbo stesso si manifesta più intensamente e in tutte le sue sfaccettature (Tafà et al., 2017).

Vivere a stretto contatto e prendersi cura di una persona affetta da DCA pare non sia un compito semplice: spesso si associa ad elevati livelli di stress psicologico e scarsa qualità di vita dei genitori (Kyriacou, Treasure e Shmidt, 2008), associato ad un ingente carico emotivo. Oltre all’importanza del funzionamento familiare e delle caratteristiche e qualità delle relazioni tra i membri della famiglia, diversi studi hanno recentemente dimostrato un associazione tra DCA in soggetti adolescenti e rischio psicopatologico dei genitori (es. sintomi ansiosi e depressivi; Tambelli et al. 2015).

Quando il disturbo alimentare irrompe e scardina gli equilibri e i piani della vita familiare, ci si trova a confrontarsi con qualcosa che è difficile da capire, che spesso non si conosce, svalutandone la rilevanza o descrivendo il problema come qualcosa che riguarda solo il paziente (Calabrò et al. 2019). Per cui, il primo approccio al DCA di un congiunto, da parte della famiglia, è tendenzialemente associato all’insorgenza di sentimenti contrastanti quali: senso di colpa, rabbia, delusione, senso di impotenza, disperazione e paura.

Da un lato, le modificazioni delle interazioni familiari e della qualità delle relazioni, conseguenti all’insorgenza del DCA, possono contribuire al mantenimento del sintomo, evidenziando così l’impossibilità di cambiare schemi rigidi e disfunzionali rispetto alla guarigione (Treasure, Sepulvede, MacDonald, Whitaker, Lopez, Zabala et al., 2008). Dall’altro lato però, la famiglia può divenire risorsa, ossia un ponte tra il paziente e il contesto socio-assistenziale, in cui la comprensione profonda da parte dei genitori di quegli aspetti più nascosti rispetto ad altri invece visibili, divengono strumento per la ri-costruzione di una relazione reciprocamente empatica.

Pertanto, è possibile ipotizzare l’esistenza di contesti relazionali che aiutano e che curano e di altri che, invece, creano circuiti viziosi in cui, con l’intento di curare o riparare un equilibrio svanito, si sfocia in alti costi affettivo-emotivi, cognitivi, familiari e sociali.

La particolarità e la complessità dei disturbi del comportamento alimentare, l’abbassamento dell’età di esordio e la gravità delle conseguenze cliniche e psicologico/psichiatriche ad esso correlate, impongono la pianificazione di interventi e percorsi specifici ed efficaci negli ambiti della prevenzione, diagnosi, terapia e riabilitazione, che tengano sempre più in considerazione il contesto familiare.

Dott.ssa Debora La Rubina

Bibliografia:

– Calabrò, A., Beduglio, S., Lupo, R., & Bardone, L. (2019). Valutazione dei bisogni dei genitori di soggetti affetti da Disturbi Alimentari e l’efficacia dell’home treatment (HT): revisione narrativa della letteratura. Evaluation, 1(2), 19-28

– Kyriacou, O., Treasure, J. & Schmidt, U. (2008). Understanding how parents cope with living with someone with anorexia nervosa: modelling the factors that are associated with carer distress. International Journal of Eating Disorders 41: 233-242.

– Tafà, M., Cimino, S., Ballarotto, G., Bracaglia, F., Bottone, C., & Cerniglia, L. (2017). Female adolescents with eating disorders, parental psychopathological risk and family functioning. Journal of Child and Family Studies, 26(1), 28-39.

– Tambelli, R., Cerniglia, L., Cimino, S., & Ballarotto, G. (2015a). Parent-infant interactions in families with women diagnosed with postnatal depression: a longitudinal study on the effects of a psychodynamic treatment. Frontiers in Psychology, 6, 1210.

– Treasure, J., Smith, G. D. & Crane, A. M. (2007). Skills-based Learning for Caring for a Loved One with an Eating Disorder: The New Maudsley Method. London: Routledge.