Vigoressia: la realtà che si nasconde dietro un corpo apparentemente sano
L’etimologia della parola vigoressia deriva dal latino “vigor” (vigore, forza) e “orexis” (appetito), tale termine può così essere tradotto con l’espressione: “fame di grandezza”.
La vigoressia, detta anche anoressia riversa, bigoressia o complesso di Adone, è una forma di dismorfismo muscolare, ovvero un disturbo legato alla percezione della propria immagine corporea.
La persona è ossessionata dalla propria massa muscolare, fa intensi ed eccessivi allenamenti fisici e spesso segue una dieta ipocalorica ed iperproteica.
A differenza dell’anoressia nervosa in cui si persegue un’eccessiva magrezza, nella vigoressia si aspira ad un gigantismo muscolare (Benedictis & Giuliani, 2014).
A soffrire di tale disturbo è solitamente il genere maschile, in quanto quello femminile è più attratto dall’ideale esile di magrezza. L’uomo tende così a percepirsi come gracile, minuto e secco anche quando il suo corpo appare in realtà tonico e muscoloso.
Il comportamento ossessivo nei confronti della propria immagine corporea risulta così guidato da un intenso desiderio nel voler aumentare la propria massa muscolare, portando la persona a trascorrere gran parte del proprio tempo in palestra.
Attraverso questo atteggiamento, l’individuo inizierà a far dipendere la percezione che ha della propria mascolinità con la grandezza della propria forma fisica, arrivando in questo modo ad essere tanto maschile quanto più è muscoloso (Spinetta, 2015).
Partendo da questo presupposto, colui che soffre di vigoressia è terrorizzato dall’idea di poter perdere la propria massa muscolare e dunque la propria mascolinità e credibilità personale.
Si tratta quindi di un disturbo in cui il concetto di autostima sembra rivestire un ruolo di fondamentale importanza. Coloro che soffrono di tale disturbo provano un’intensa insoddisfazione di sé e della propria forma fisica, questo li porta a focalizzare tutta la loro attenzione sulla propria forma corporea, così da riuscire a migliorare anche la propria immagine interiore.
Le cause di tale disturbo possono essere ricondotte ad un insieme di fattori sociali, biologici e psicologici.
Il comportamento di chi soffre di vigoressia è spesso accompagnato anche da atteggiamenti autopunitivi. La persona segue allenamenti intesi che possono portarla a veri e propri infortuni a cui però non dà ascolto, continuando così ad allenarsi lì dove in realtà sarebbe consigliato un riposo completo, in modo da permettere al corpo di guarire (Betti, 2017).
Chi soffre di bigoressia tende a seguire anche diete molto rigide, arrivando al punto di rinunciare alle occasioni sociali per dedicarsi interamente all’allenamento fisico o per evitare di dover per forza “sgarrare” dalle proprie abitudini alimentari. Tutto questo può però condurre a forti stati d’ansia e disturbi dell’umore (come la depressione) fino ad arrivare alla formulazione di veri e propri pensieri suicidi (Dalla Ragione & Scopetta, 2009).
Per chi soffre di tale disturbo, le uniche persone considerate “degne” di attenzione e stima sono coloro che vivono seguendo le loro stesse abitudini o che magari hanno un corpo migliore del loro e che dunque stimolano il desiderio di voler raggiungere quella prestanza fisica ad ogni costo.
La vigoressia è dunque considerata un disturbo sottostimato perché coloro che ne soffrono non si rendono conto di avere un visone distorta della propria fisicità, per questo effettuarne una diagnosi risulta essere molto complesso. Spesso, infatti, quando osserviamo qualcuno con una fisicità molto tonica e muscolosa tendiamo ad associare quel modello al concetto di salute e benessere e, raramente, ci viene da pensare che quell’immagine possa nascondere invece un disagio molto più profondo.
Per chi soffre di vigoressia è importante divenire consapevole di tale disturbo e di come esso vada ad intaccare ogni dimensione della propria vita, compresa quella sociale e lavorativa. In tale cornice è ovviamente di fondamentale aiuto il supporto di parenti ed amici, affiancato ad un percorso di psicoterapia capace in questo modo di aiutare il paziente a riconoscere quali siano i pensieri distorti, nonché i comportamenti errati, così da poterli individuare e trasformare in schemi di azione più sani ed efficaci (Betti, 2017).
E’ importante ricordarsi come la percezione che si ha della propria immagine corporea non è data unicamente dalla somma delle differenti parti isolate del corpo, né unicamente dall’insieme degli aspetti fisiologici percepiti, ma è data anche dall’esperienza che il soggetto ha del mondo e di conseguenza dall’esperienza che ha del proprio corpo. Tutto questo va così a costruire la cosiddetta “identità corporea”.
Come afferma George Downing: “né l’anatomia, né la fisiologia, né la biologia, né la chimica possono rendere ragione di ciò che comunemente chiamiamo identità corporea. Una cosa è l’aspetto tangibile e funzionale del mio corpo altro è l’esperienza che traggo dall’abitare nella mia dimora corporea, l’esperienza cioè di un corpo che ha un’interiorità, una soggettività, un senso di essere capace d’azione” (Downing, 1995).
Dott.ssa Rossella Ottaviani