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2 Giugno 2023 World Eating Disorders Action Day

Il 2 giugno è il World Eating Disorders Action Day. Quest’anno, l’attenzione si concentra sul tema della guarigione: #RealPeople, #RealRecovery. Per quanto si tratti di psicopatologie complesse, guarire dai Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) è possibile, ma solo attraverso un approccio alla cura integrato e multidisciplinare, che rifletta una visione unitaria e totale della persona e del contesto familiare e psicosociale in cui è inserita.
A tal proposito, negli ultimi anni il gruppo clinico dell’Associazione Gapp si è interrogato e ha iniziato a ripensare al proprio modello psicodinamico di presa in carico dei e delle pazienti con Disturbi del Comportamento Alimentare. Ne sono nati alcuni progetti terapeutici che fanno della pluralità di sguardi professionali e dell’integrazione i loro ingredienti fondamentali. I progetti CuidArte e NutriMente, rivolti a preadolescenti e adolescenti, prevedono proposte laboratoriali (individuali e in piccolo gruppo) che vanno a completare i percorsi psicoterapeutici individuali e che, oltre alla parola, lasciano spazio al corpo, al movimento e ad altre modalità artistico-espressive.
Nel trattare problematiche psichiche legate alla relazione corpo-mente quali anoressia, bulimia, obesità, solo per citare le più conosciute, non si può pensare, infatti, di lasciare “fuori” il corpo. Il corpo di cui ci prendiamo cura attraverso proposte quali il laboratorio psicocorporeo, nell’ambito del progetto NutriMente, è un corpo che può essere considerato non solo in termini di parametri fisici, di peso, forme e numeri, ma anche in termini di sensazione, percezione e immagine, di ricerca di significato rispetto ai quesiti “che cosa vuol dire abitare questo mio corpo?” e “che cosa racconto di me attraverso il corpo?”. Prendersi cura della relazione corpo-mente significa ascoltare il corpo e farlo muovere, esplorando le sue diverse potenzialità, acquisendone consapevolezza e, ancora prima, permettendo di prendere confidenza con la corporeità, dimensione spesso dissociata dai pazienti con DCA.
Per guarire davvero, per un #RealRecovery, i corpi dei pazienti devono essere, innanzitutto, legittimati a sentire, a muoversi, a essere all’interno dei nostri spazi di cura a loro dedicati.

Esercizi di fantasia, di Elisa Talentino

Giornata Mondiale della Salute

La pandemia ha posto – nuovamente – l’accento sul valore della salute: i progressi della scienza e della medicina ci avevano indotto a pensare fosse un bene scontato e consolidato, inattaccabile.

In parallelo la pandemia ha, anche, necessariamente imposto una riflessione su quanto l’intervento dell’uomo sull’ambiente, spesso in modo sconsiderato, abbia determinato questo esito.

Ne scaturisce una rappresentazione di un Essere Umano che, miope e noncurante delle conseguenze, ha perseguito, talvolta pervaso da un delirio di onnipotenza, la gratificazione derivata dal soddisfacimento immediato e vorace dei propri piaceri. Non consapevole che, nel contempo, stava attaccando la parte più connaturata alla sua sopravvivenza, la premessa alla sua esistenza: l’ambiente, il pianeta. Nella semeiotica clinica ciò si definisce autolesionismo. Che è oggi il sintomo più frequentemente osservato nelle richieste di aiuto a cui cerchiamo di dare risposta quotidianamente: corpi che divengono oggetto di attacchi e ferite.

Oggi abbiamo il compito – urgente – di dipingere un altro quadro e di recuperare la capacità di prenderci cura: del pianeta, dell’ambiente, della nostra relazione con essi, di noi stessi.

Prendiamoci cura delle storie soggettive per migliorare le cifre totali

Una riflessione sulle richieste d’aiuto pervenute al Centro GAPP nell’ultimo triennio

Statistiche, percentuali, grafici, commenti che si rincorrono sulle cifre in aumento o in decrescita. Dallo scorso Marzo 2020, tutti noi, a livello mondiale, sperimentiamo anche gli effetti socio-culturali della pandemia da Covid-19: immagini, video, news, interviste. L’emergenza sanitaria si è così duplicata nel suo corrispettivo mediatico: difficile distinguere l’informazione dalla distorsione della notizia. Tale situazione ha permesso al GAPP di riflettere sul particolare momento presente – nel quale persino i bisogni e le richieste d’aiuto hanno rapidamente modificato il proprio andamento – attraverso un confronto sui dati dell’ultimo triennio del Centro. Si è così aperta una riflessione sul futuro che si prospetta a breve e medio termine, nonché una valutazione sugli strumenti più adatti per affrontare le nuove richieste d’intervento post-Covid, pur nel rispetto di una modalità sinergica di lavoro, integrata con la rete territoriale, in modo da valorizzare ogni risorsa e far emergere eventuali criticità o lacune. 

Lo studio della letteratura scientifica più recente, i costanti confronti in équipe, lo scambio di riflessioni con i colleghi sulla pratica clinica ci hanno permesso di provare a sintonizzarci sulla nuova frequenza dell’emergenza sanitaria, cercando di intercettare alcune tra le molteplici sfaccettature della nuova situazione, fatta di diverse forme di fragilità, sia dal punto di vista economico-sociale che emotivo-relazionale.

Le ricerche Istat ed il Rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità delineano un anno 2020 tristemente caratterizzato dall’aumento dei casi di povertà assoluta. Circa metà delle famiglie italiane ha infatti subìto una riduzione delle risorse economiche, alle quali si sono aggiunti gli effetti da Covid sulla salute, sulle abitudini sociali, sulle dimensioni psico-affettive. 

La stessa economia mondiale è stata significativamente colpita, e così l’andamento della vita sociale e culturale. La pandemia ha cambiato radicalmente i nostri orizzonti di senso, portando ad un malessere psichico senza precedenti. “Il Covid-19 ha determinato – più o meno direttamente – un incremento generalizzato delle diverse forme di disagio giovanile”, ha commentato Stefano Vicari sulle colonne del Sole24Ore, evidenziando “un +30% di disturbi alimentari e un +30% di ricoveri in NPI per atti anticonservativi con insorgenza più precoce”. 

La crescita di queste percentuali tratteggia un quadro di disagio che i giovani stanno ampiamente sperimentando, tanto da manifestare sintomi-messaggi di malessere rivolti agli adulti ed alle istituzioni. Proprio dalla valutazione dei dati e dal considerevole aumento delle richieste che sono arrivate al nostro Centro, sono emersi interrogativi ai quali vorremmo provare a cercare una risposta. Il primo fra tutti: come possiamo esser-ci per gli adolescenti che hanno sperimentato la brusca e prolungata interruzione dell’esperienza di socializzazione e di confronto con i propri coetanei? “Forse il Covid ci ha insegnato che la scuola non è soltanto didattica, anzi, è molto di più: è un’esperienza formativa per tutti”, ha aggiunto Stefano Vicari, precisando che “Chiudere ai ragazzi la possibilità di sperimentare relazioni tra pari, li ha lasciati soli e privi di strumenti per compensare le proprie ansie, soprattutto se consideriamo che l’adolescenza è l’età della vita che privilegia il compagno di banco, piuttosto che un familiare, come depositario delle confidenze”.

C’è un’altra domanda urgente: come possiamo dare sostegno alle famiglie che, in una condizione di sempre più marcata fragilità, si trovano ad affrontare da sole situazioni di grave disagio? Rispondere a queste richieste d’aiuto sembra essere tutt’altro che semplice per i Servizi e gli Enti del territorio nazionale, nei quali si evidenziano alcune criticità nel riuscire ad accogliere, in modo concreto e tempestivo, le richieste di cura delle diverse forme attraverso le quali si declina la sofferenza psichica. 

In linea con i dati nazionali del Ministero della Salute, e di quelli ad ampio raggio di Save The Children, anche il Piemonte registra sia una difficoltà ad intercettare la morbilità psichiatrica all’esordio, sia una carenza di servizi e dispositivi terapeutici adeguati a fronteggiare il malessere dei minori e delle famiglie. Grazie al lavoro di rete con i Servizi pubblici del territorio alessandrino, e attraverso un costante confronto con diverse professionalità socio-sanitarie, abbiamo indubbiamente ravvisato una certa fatica ad accogliere le numerose richieste di cura che arrivano nei Centri di Salute Mentale e nella Neuropsichiatria Infantile: c’è mancanza di personale specializzato e, conseguentemente,  scarsa disponibilità di risorse e di posti letto.

Nella specificità del nostro gruppo clinico multidisciplinare, analizzando le domande arrivate al Centro GAPP, abbiamo osservato un importante incremento delle forme di disagio nei preadolescenti (con un’anticipazione dell’insorgenza del malessere) e nei giovani adulti. Soprattutto per quest’ultima fascia d’età (18-25 anni) stiamo registrando criticità sempre più importanti. Alle soglie della maggiore età i giovani si trovano in una sorta di area di transizione, resa ancora più aleatoria per il continuo rimbalzo tra i Servizi, rimanendo così in “standby”, se non addirittura dimenticati, del tutto privati dei dispositivi terapeutici e delle strutture di contenimento adeguati ai propri bisogni.

Nell’ultimo triennio 2019-2021 si registra un aumento della domanda del +20% nel 2020, con un raddoppio (+50%) nel mese di ottobre rispetto agli altri mesi. La richiesta sale oltre il +40% nell’anno 2021, con un raddoppio nei mesi di febbraio, aprile e maggio, evidenziando bene, con l’ausilio della rappresentazione grafica, una richiesta senza fluttuazione fra le dodici mensilità, soprattutto se confrontata con l’andamento mensile del 2019.

Dal nostro piccolo Osservatorio si conferma dunque l’incremento consistente delle richieste di presa in carico per chi soffre di Disturbi dell’Alimentazione. Un incremento in linea con quanto già rilevato dai Servizi Pubblici e dalle Neuropsichiatrie Infantili del territorio nazionale. Come équipe ci interroghiamo su ciò che sta dietro a questi numeri e ci chiediamo: la sola pandemia può spiegare un incremento così importante del malessere psichico che si esprime attraverso i disturbi alimentari? Che cosa ha reso manifesto l’inedita situazione provocata dal Covid-19? 

Ciò che emerge è il rilevante incremento dei casi arrivati all’attenzione degli specialisti e dei servizi tale da creare un allarme sociale che ci porta a riflettere su come la pandemia abbia, in qualche modo, consentito un aumento della domanda di cura delle diverse forme di sofferenza psichica forse proprio perché le ha rese più facilmente comprensibili ed evidenti.

La fisionomia di queste richieste traccia i contorni di un vero e proprio ritratto psico-sociale: pazienti sempre più giovani, nuclei familiari in crisi, giovani adulti con sofferenze sempre più marcate, genitori che “vorrebbero delegare” la cura dei figli agli esperti del settore. 

Questa delega rinvia a quella che Lancini definisce “fragilità degli adulti contemporanei sulla quale è indispensabile lavorare”. Non è proprio anche questa una difficoltà che la pandemia ha messo in luce? Una connessione quindi tra la crisi degli adolescenti e il disorientamento delle figure genitoriali e, degli adulti in generale, a svolgere la propria funzione.

Come possiamo dunque utilizzare i numeri che rimandano al bisogno di cura e di risposte imminenti? 

Prima di tutto andando oltre i numeri per rintracciare l’unicità di ciascun soggetto e della propria storia. Non progetti o percorsi standardizzati, ma risposte mirate che possano accogliere la singolarità di ogni  situazione.

Sarebbe fondamentale provare ad utilizzare le risorse già esistenti attraverso una reale e concreta integrazione e sinergia tra i Servizi Pubblici territoriali e gli Enti del Terzo Settore, affinché si creino delle buone prassi di cura, ampliando i dispositivi terapeutici necessariamente dinamici, in modo da accogliere anche le più recenti forme di malessere. Ci riferiamo a spazi e strumenti vicini al linguaggio dei giovani, indispensabili per entrare in contatto anche con quelli che si trovano a vivere in situazioni di grave povertà e di esclusione sociale. C’è bisogno di risposte urgenti: non è pensabile attendere la costituzione di nuovi servizi dedicati che, sebbene importanti, richiedono tempi lunghi di realizzazione.

Solo con il lavoro sinergico di una rete di servizi si può provare ad intercettare la domanda d’aiuto, che si esprime attraverso i sintomi alimentari. Sarà proprio seguendo il filo d’Arianna dei segni e dei messaggi del corpo che potremo incontrare la più preziosa delle significazioni psicologiche. 

Ufficio Stampa – Centro GAPP

Lo stigma del corpo ‘non conforme’ e la difficoltà di riconoscere la persona nel paziente obeso

In occasione del World Obesity Day, vi presentiamo NutriMente, il progetto del GAPP per l’integrazione psico-corporea in un’ottica multidisciplinare.

Il mio corpo è un macigno. Non sono il mio corpo. Questo corpo mi ingabbia”. Quante volte i professionisti della salute si sono trovati ad ascoltare queste affermazioni da parte dei pazienti obesi. I problemi di sovrappeso in generale, e l’obesità in particolare, ad ora non trovano un’adeguata risposta. I dati dell’Istituto Superiore di Sanità parlano chiaro: un’indagine condotta nel 2019, su un campione di cinquanta mila bambini di terza elementare, rivela che il 20,4% è in sovrappeso, il 9,4% obeso ed il 2,4% gravemente obeso. L’Italia rimane dunque uno dei paesi d’Europa con il più alto tasso di obesità infantile.

Si tratta di una costellazione di complessità in un cielo buio, quello della nerezza esistenziale dei giovani – anche giovanissimi – che hanno il cibo come compagno, sempre a portata di bocca, ingurgitato fino a deformare l’intera figura, fino a deformarne i contorni. 

NutriMente nasce proprio da qui: da quel troppo del corpo obeso, che mette fortemente a rischio la propria salute, e che produce angoscia nell’altro. Pensando proprio a quel “troppo” che nasconde un “vuoto di tutto”, il Centro GAPP FIDA, impegnato da vent’anni nella cura dei disturbi alimentari, ha pensato ad un progetto terapeutico in ottica psicodinamica, rivolto a bambini, preadolescenti, adolescenti con problemi di sovrappeso e obesità, finalizzato non solo a cogliere, ma soprattutto ad intervenire, tanto sugli aspetti psicologici, quanto su quelli medici e dietologici, prendendo in considerazione i diversi aspetti del giovane paziente obeso: psichici, fisici, familiari e sociali nella loro complessa totalità. 

La vision di NutriMente concepisce una presa in carico multidisciplinare, un percorso intensivo trimestrale, ma prolungabile, che si avvale dello strumento del gruppo di piccole dimensioni – con un gruppo di parola e con laboratori espressivo-creativi e psico-corporei – capace di rendere più compatto l’intervento, anche con la condivisione dei punti di fragilità, ed attraverso la socializzazione. Condividere e socializzare sono fondamentali quando si parla di obesità in età evolutiva: due cardini intorno ai quali ruota la possibilità del cambiamento, attraverso un’integrazione a più dimensioni, fra movimento e terapia di parola, fra esperienza individuale e gruppale.

L’opportunità di raccontarsi – imparando a conoscersi in una dimensione gruppale, libera dal giudizio – permette di portare alla luce vissuti ed esperienze personali che, proprio attraverso la condivisione ed il confronto, consentono di sentirsi gradualmente più accettati e meno soli. “La proposta di un laboratorio come intervento terapeutico nasce anche dall’esigenza di avvicinarsi al bambino, e al preadolescente, con un linguaggio che sia vicino al suo modo di esprimersi, offrendogli la possibilità di comunicare il suo malessere anche attraverso la proiezione di parti di sé in storie, narrazioni, attraverso gli stimoli creativi offerti proprio dal laboratorio”, spiega Elena Mietto, psicologa del Centro GAPP, riferendosi in particolare agli stimoli creativi che animeranno i laboratori, “Ad esempio varie immagini, dadi contastorie, disegni e giochi emotivi, con i quali i partecipanti avranno la possibilità di scoprirsi e di scoprire l’altro, uscendo, con i propri tempi, da quella corazza difensiva che caratterizza la persona obesa”.

Spesso ci si trova a lavorare con ragazzini obesi che non esprimono il loro disagio, perché lo tengono rigorosamente sotto chiave: la vergogna li porta, infatti, ad acquisire uno stile relazionale a volte totalmente compiacente, altre volte aggressivo. Il loro è un tentativo di farsi accettare, e di sentirsi accettati. “La vergogna verso il proprio corpo ed il vissuto di inadeguatezza rendono spesso difficile l’esporsi agli altri, e ciò li porta a sentirsi soli, ritrovando nel cibo quello strumento-oggetto capace di sedare l’ansia non verbalizzata, ma agita, e di colmare così quel vuoto che li investe”, specifica Romina Erica Cardaci, psicologa del Centro GAPP. 

L’eccessiva richiesta di cibo sottende un bisogno affettivo-relazionale che ha dato origine a un comportamento non sano, ma funzionale ai bisogni dell’adolescente in difficoltà: ingurgitare per definirsi. Per modificare questa “forsennata risposta al bisogno” è indispensabile guidare il giovane paziente alla comprensione del significato inconscio del suo profondo malessere. “Tanti adolescenti arrivano al nostro Centro con numerose esperienze di diete ripetute negli anni, con scarsi risultati. Questo accade perché si considera l’obesità come un comportamento patologico da modificare, senza riflettere sul significato che la dinamica dell’alimentazione riveste per il soggetto”, commenta Martina Crisman psicologa-psicoterapeuta del Centro GAPP. 

Se nell’anoressia la magrezza del corpo ridotto all’osso si fa strumento di potere – un appello estremo – nell’obesità il corpo si fa scudo, un’armatura per difendersi dal mondo. “Il corpo di cui ci prendiamo cura, attraverso la proposta laboratoriale, è un corpo che può essere considerato non solo in termini di parametri fisici, di peso e centimetri da perdere, di calorie da bruciare – aspetti fondamentali, dei quali si occupa la parte medica dell’équipe multidisciplinare -, ma anche in termini di sensazione e percezione, di ricerca di significato rispetto all’interrogativo ‘che cosa vuol dire abitare questo mio corpo?’. Quello del giovane paziente obeso è un corpo che cerchiamo di legittimare ad essere, a sentire, a muoversi”, spiega Gaia Figini, responsabile del laboratorio psicocorporeo di NutriMente, precisando che “il laboratorio di danza-movimento si terrà una volta a settimana, nella forma del piccolo gruppo, per un totale di 5-6 partecipanti”

Siccome l’obesità manifesta spesso dispercezione corporea, si utilizzerà la danza sia come strumento per mobilitare i processi interiori di significazione e di espressione verso l’esterno, sia come facilitatore di dinamiche di gruppo. “Proprio attraverso l’imitazione, la ripetizione – fermarsi, differenziarsi, avvicinarsi, allontanarsi, velocizzare, rallentare rispetto agli altri  – il movimento e la danza diventano i principali veicoli di comunicazione e di acquisizione di conoscenza”, sintetizza Figini, puntualizzando che “La danza – intesa in questo caso non come tecnica, ma come movimento, come essere-nel-mondo – è al servizio del laboratorio psicocorporeo, al fine di far emergere gli stati interni del paziente, quelli che più difficilmente potrebbero trovare espressione attraverso il linguaggio verbale”.

Oltre ai laboratori sarà fondamentale la presa in carico medico-nutrizionale, nell’ottica di una colleganza integrata, volta al superamento di quel meccanismo disfunzionale che scinde mente e corpo, sia da parte del paziente obeso, sia (troppo spesso) da parte del personale curante.

Non ultimo, per importanza e intensità, il ruolo dei gruppi di parola, non solo pensati per bambini e adolescenti ma, altresì, per i loro genitori, nella convinzione che anche la famiglia sia un prezioso ed indispensabile facilitatore di cambiamento.

Ufficio Stampa GAPP

Intervista alla dott.ssa Ippolito

DISTURBI ALIMENTARI

Anoressia, bulimia e obesità: la pandemia segna +30% di casi

Ecco le parti più salienti dell’intervista alla Dott.ssa Ippolito Marialaura pubblicata su Il Piccolo il 19 marzo 2021 (articolo di Sveva Faldella).

“[…] I DCA sono disturbi psichici, sono dei tentativi di rappresentare, di esprimere attraverso il corpo, un disagio psichico più profondo; ecco perché è molto importante, quando si trattano questi disturbi, non fermarsi solamente alla sintomatologia alimentare. E’ fondamentale infatti riconoscere il problema per dargli significato e senso alla luce della storia personale che è unica e particolare per ogni paziente.

I DCA rispondono a momenti di cambiamento e di passaggio evolutivo complicati. Proprio perché sono patologie multifattoriali è importante che un’équipe multidisciplinare tenga insieme i diversi punti di vista del paziente, creando così una prospettiva condivisa. […]

Il Piccolo – Sezione Salute – 19 Marzo 2021

Gruppo e creatività: percorsi di crescita

A partire dall’esperienza diretta con adolescenti nelle scuole emerge che il gruppo è visto come uno spazio caratterizzato dal conformismo e dall’omologazione, una massa in cui si cerca di essere accettati e inclusi a discapito di una perdita di individualità: “come nelle tifoserie”, dice Francesca (Liceo Linguistico), quasi a soddisfare – secondo Marika (Liceo Scienze Umane) – “un desiderio di scomparire per non focalizzare l’attenzione su di sè”. Alla domanda “chi sono?” però i ragazzi rispondono identificandosi e riconoscendosi negli altri o attraverso gli altri (“mi definirei una punk”, “sono il batterista in una band”, “sono diverso dagli altri, mi riconosco solo negli autori che leggo” dice Matteo), mostrando come l’identificazione di sè come soggetto sia vicariata dal gruppo, e rivelando quanto in realtà la dimensione gruppale sia fondamentale per la definizione di sè, soprattutto nel percorso di crescita adolescenziale. Il gruppo è infatti uno degli indicatori della spinta evolutiva: se fino a pochi anni prima gli spazi di socializzazione coincidevano con quelli offerti dalla famiglia, ora l’adolescente ha bisogno di differenziarsi, uscire dal nucleo primario e me[ersi alla prova, con tu[e le sue difficoltà, all’interno del gruppo dei pari, in cui sperimentare il nuovo sé corporeo, affettivo e sociale.

A fronte di una sempre maggiore possibilità di incontrarsi online, essere costantemente in contatto nei luoghi fluidi e virtuali delle chat e dalla rete, dall’esperienza clinica con i ragazzi si avverte quanto sia carente la diffusione di spazi reali e concreti sul territorio in cui incontrarsi e socializzare. Al di là dell’attenzione alla soggettività del ragazzo, è emerso quanto sia fondamentale offrire spazi “altri” di condivisione di tempo, pensieri, emozioni e socializzazione, che permettano di dare voce a sentimenti altrimenti inespressi.

Attraverso laboratori espressivi, la circolazione e la narrazione di storie ed emozioni all’interno del piccolo gruppo permette infatti di incontrare in modo autentico parte di sé e dell’altro (non ancora conosciute e che a volte spaventano), sfruttando il potenziale della creatività per mettere in gioco sentimenti complessi, difficili da conoscere ed elaborare. Per mezzo della fotografia, la scrittura creativa, il cinema e il disegno i ragazzi possono sperimentare, in contesti attenti e protetti, emozioni, personaggi e nuove trame, utili nella costruzione della propria identità, in costante conflitto creativo tra bisogni di individuazione come singolo e bisogni di appartenenza.

Da questi laboratori espressivo-creativi con gli adolescenti emerge il gruppo come un’entità unica, globale, diversa dalla somma dei singoli, in cui ogni individuo rappresenta parB e traH appartenenti all’intero gruppo: Gaia (Liceo Scienze Umane) racconta le sue emozioni valorizzando la dimensione del silenzio come “possibilità, momento e modo di sistemare i pensieri”, mentre Barbara (Liceo Linguistico) lo riempie portando nel gruppo tante parole, storie e sensazioni, che riflettono la sua storia di ragazza che ha vissuto e incontrato diverse realtà culturali, che diventano nel qui ed ora del laboratorio patrimonio di tu[o il gruppo. I ragazzi descrivono questi gruppi esperienziali come spazi di “trasformazione”, “crescita”, “equilibrio” e “fiducia”.

Il gruppo espressivo-creativo in adolescenza pare dunque quasi come uno spazio di transizione, intermedio tra il mondo interno ed emotivo dei ragazzi che attraversano la crisi evolutiva della crescita e la realtà sociale esterna, nella quale lentamente si cerca di costruire la propria identità di giovani adulta e far emergere le proprie risorse e peculiarità.

Grazie al cofinanziamento della Fondazione SociAL, l’Associazione Gapp ha potuto realizzare un progetto rivolto ad accogliere il disagio psichico dell’adolescente e della sua famiglia in tempi di crisi economica, introducendo oltre ai percorsi psicoterapeutici individuali, degli spazi di gruppo settimanali, caratterizzati dalla trasversalità (gruppi non monosintomatici), per incontrare i ragazzi nella loro quotidianità e favorire la socializzazione tra pari. Nei laboratori di Mind the Gapp 2.0 gli stimoli creativi ed espressivi sono lo strumento principale di attivazione delle emozioni, che circolano e vengono condivise all’interno del gruppo creando storie, esplorando nuovi sentieri e vie possibili nell’intricato percorso di crescita.

I nomi e i licei sono frutto di fantasia al fine di tutelare la privacy dei ragazzi.

Dott.ssa Clara Bregia – Gapp Alessandria

Relazioni e connessioni: corpi visti e corpi visualizzati

“Se, come è stato dimostrato, l’iperconnettività di oggi plasma il nostro cervello, possiamo pensare, per estensione, che lo faccia anche con il nostro corpo, il quale si modifica e trasforma nella sua concretezza e nelle sue rappresentazioni”

OPINIONI – Che il corpo rappresenta un veicolo fondamentale di comunicazione è ormai dato indiscusso. Che la sua importanza sia sempre più pregnante nella realtà sociale e virtuale è sotto gli occhi di (quasi) tutti, ed eclatante sui display dei nostri smartphone. Se, come è stato dimostrato, l’iperconnettività di oggi plasma il nostro cervello, possiamo pensare, per estensione, che lo faccia anche con il nostro corpo, il quale si modifica e trasforma nella sua concretezza e nelle sue rappresentazioni.

Protagonista di facebook, instagram, snapchat e altri social network, il corpo è iperfotografato e raccontato. Senz’altro magro, muscoloso e sexy, è un corpo continuamente stimolato e stimolante, che si diverte, si allena, si nutre, prova piacere, si abbandona al relax, parla attraverso brand e ambientazioni sia urbane che esotiche. La narrazione con e sul corpo diventa a tutti gli effetti un’autobiografia: servendosi di colori e filtri vintage, il proprio profilo online risulta una raccolta di fotogrammi emozionali, che funge da memoria del sé. Questo nuovo diario permanente, condiviso e in continua evoluzione sembra inoltre rispondere al bisogno di “fermare”, attraverso la fotografia, un tempo sempre più veloce e imperscrutabile, e una realtà in continuo e repentino cambiamento.

L’universo social e il suo modo di raccontare il corpo ha anche un importante impatto culturale. Il mondo sociale virtuale, annullando distanze fisiche e temporali, tende a sfumare i limiti differenzianti. L’assenza di confini crea uno spazio di incontro tra culture, generando nuovi modelli e rappresentazioni estetiche in cui l’interculturalità è giocata attraverso il corpo, sempre più meticciato da traH e stili esotici.

Allo stesso modo le differenze generazionali divengono meno chiare e definite, narrate da corpi di mamme e figlie adolescenti sempre più simili nelle forme, nei gusti e nelle storie. Questa rivoluzione culturale ha effetti più profondi sugli adolescenti, che attraversano un periodo in cui la metamorfosi del corpo e la costruzione della nuova identità sociale sono strettamente correlate. L’universo dei social diventa così un laboratorio antropologico all’interno del quale studiare culture, confrontare, sperimentarsi ed esprimere – in primis attraverso il corpo – i propri conflitti, le proprie modalità relazionali e le proprie appartenenze.

Come ogni strumento culturale, anche l’utilizzo di queste piattaforme sociali può esporre a rischi e problematiche. In una generazione in cui il confine tra l’essere “visti” (in senso psicologico) ed essere visualizzati diventa labile e confonde, è possibile talvolta che si instaurino modalità patologiche e disfunzionali. Mai come oggi il giudizio dell’altro è stato chiaro, palese e pubblico. Mi piace o non mi piace: il codice binario del like restituisce un’impietosa valutazione in cui non c’è spazio per le sfumature e il valore sociale diventa conteggiabile numericamente.

Il mondo dei social network nutre il narcisismo dell’“homo digitalis”, alla continua ricerca di autopromozione e conseguente conferma da parte degli altri. In situazioni di particolare fragilità, ad esempio, si può verificare una ricerca ossessiva e dipendente di conferma di sé proprio nell’apparire e nell’essere visti dagli altri. In queste relazioni virtuali l’altro funziona come spettatore piuttosto che autentico interlocutore con cui rapportarsi, e le reazioni del pubblico vengono utilizzate come tasselli per costruire l’immagine di sé.

Nella dimensione del web in cui è centrale la sovraesposizione del corpo e il ragionamento per immagini (più superficiale e carente di spessore emotivo), si può verificare inoltre una sorta di “ossessione per il corpo dell’altro” o dell’altra, continuo metro di confronto nonostante sia soggetto a ritocco o poco corrispondente alla realtà.

Se da una parte i nuovi media contribuiscono quindi alla continua esposizione di un corpo virtuale spesso troppo distante dai corpi reali grazie alle app di ritocco e personalizzazione, dall’altra la rete offre la possibilità di mettersi in gioco in uno spazio intermedio tra realtà e fantasia, una sorta di mondo “transizionale”: il cyberspace diviene in qualche modo un’estensione della propria mente, che riflette gusti, atteggiamenti e modi di essere, ma che consente anche di giocare, conoscersi, modificar(si), come avviene nell’arte o nello spazio del sogno.

Dott.ssa Clara Bergia – Gapp Alessandria

Cosa c’é dietro ai blog Pro-Ana?

La denuncia dello scorso novembre contro l’attività di un blog Pro-Ana, da parte di una madre di Ivrea, aveva acceso i riflettori sull’Anoressia Virtuale e sul pericolo dei consigli offerti da queste blogger, sempre più influencer e divinità venerate e riconosciute dai giovani contemporanei. Così, sull’onda del consueto allarmismo mediatico, era nata la credenza che i siti Pro-Anoressia e Pro-Bulimia fossero diventati la nuova emergenza sociale da contrastare ed eliminare, anche se, in verità, esistono da più di 10 anni in tutto il mondo e sono una realtà che agisce nel virtuale con serie conseguenze per la vita reale.

Ciononostante, ancora oggi, in Italia manca una legge capace di regolamentare e punire la nascita e sempre maggiore diffusione di questi siti dispensatori di suggerimenti e regole per diventare magre, belle e perfette, vincitrici nella battaglia quotidiana con la bilancia. Il progetto di legge, nato solo nel 2008 con firma Lorenzin e diventato decreto legge ad opera di Marzano nel 2014, punirebbe con carcere e sanzioni pesanti chi istiga con qualsiasi mezzo, anche per via telematica, a tenere condotte che possano portare a disturbi del comportamento alimentare. Purtroppo tale decreto legge è ancora parcheggiato in Parlamento in attesa di essere definito, discusso e approvato.

Partendo da questo fatto di cronaca abbiamo cercato di approfondire la questione provando a scoprire e a riflettere su cosa c’è dietro a questo fenomeno virtuale: “Perché le adolescenti si rivolgono sempre più ai blog Pro-Ana e Pro-Mia, affidando la loro vita e la loro “felicità” ai consigli offerti dalla comunità virtuale?” Considerando che gli adolescenti contemporanei sono nativi digitali, millenials che vivono il Web come parte integrante della loro vita, soprattutto nella costruzione dell’identità individuale e sociale, non possiamo non aspettarci che ricerchino anche nel mondo virtuale riferimenti e sostegno reciproco per dare senso e forma alla confusione che spesso si trovano a vivere durante l’adolescenza. Il problema può nascere quando i giovani hanno solo il Web come punto di riferimento, guida normativa che stabilisce regole e limiB e che offre informazioni e aiuto, diventando l’unico spazio di condivisione capace di accompagnare le adolescenti alla loro meta finale: diventare magre e perfette, a qualsiasi costo.

È così che, ai tempi di Internet e con le nuove tecnologie, l’anoressia ha preso spazio e voce anche nei blog Pro-Ana, terreno fertile per rispondere alle fragilità adolescenziali, offrendo supporto e normatività, senso di appartenenza e di adeguatezza, in una dimensione relazionale virtuale indifferenziata ed omogenea. I nostri adolescenti, affamati di amore e di riconoscimento, hanno bisogno di contenimento e regole, che sappiano guidarli nel percorso della vita, e sono alla ricerca continua di ammirazione per il Sé che, non più incanalato nelle regole delle figure genitoriali, supera ogni limite, vive in un’onnipotente libertà e fa di tutto per ottenere l’approvazione altrui. Ed è proprio questa fame di contenimento e riconoscimento che, anche a fronte della mancanza di normatività genitoriale, potrebbe portarli a ricercare nel mondo “social” il riferimento, le regole e il sostegno emotivo di cui necessitano, ritrovando nei siti Pro-Ana un ritratto condiviso in cui riescono a rispecchiarsi.

Le chat online promuovono, infatti, un vero e proprio stile di vita, scandendo tutte le fasi della giornata con comportamenti prestabiliti e dettagliati, capaci di soddisfare i bisogni di controllo e perfezione ossessivamente ricercati dalle anoressiche. Tali forum diventano degli spazi di comunicazione e condivisione di pensieri, linguaggi e azioni in un contesto “gruppale” impegnato nella battaglia per l’affermazione identitaria a cui il progetto anoressico dà forma. In particolare, viene ostentata una scelta di vita e negato il disagio attraverso una sfida: quella del diritto ad essere “anoressica”, sfida lanciata alla società e della quale la rete è il primo rappresentante. Così la comunità online può andare a sostituire le relazioni reali e a “normalizzare” comportamenti autolesionistici e violenti compiuti dalle anoressiche nei confronti del proprio corpo, creando una forma di legame emotivo che può portarle ad affidarsi e a seguire fedelmente i “comandamenti della magrezza” stilati nei siti.

La rigida normatività e il rispecchiamento nell’omogeneità gruppale dei blog Pro-Ana esprimono il desiderio anoressico di una relazione controllabile e poco differenziata e possono condurre a una vera e propria idealizzazione della patologia, vista non come malattia mortale, ma come amica fedele con la quale si crea una relazione inedita e quasi fusionale: “Quando Ana è con me mi sento forte, leggera, meno lontana dai miei obiettivi”. Ana appare, appunto, uno stile e una filosofia di vita, arrivando anche ad assumere le sembianze di una musa, una persona cara che aiuta, sostiene, protegge, richiedendo in cambio sacrificio e devozione; è definita “perfezione” ed è descritta come dea da pregare, come colei che perdona, colei di cui si può essere degne laddove le si offrano le proprie sacrificali condotte quotidiane: “So che lei è il male ma io non vedo vie d’uscita, sto solo cercando di essere felice e Ana è l’unica che può aiutarmi”. In questo spazio virtuale, in cui il corporeo e il mentale si declinano con leggi proprie, va così in scena un’allucinazione condivisa che si esprime in un linguaggio di appartenenza rigidamente controllante e che diventa anche uno scenario dove si sperimentano relazioni, emozioni e visioni, attraverso la barriera protettiva dello schermo digitale.

Da questo quadro il fenomeno Pro-Ana ci appare in tutta la sua complessità, in particolare nell’ambivalenza di un legame con l’Altro che nel virtuale è assente/presente, di un Altro capace di stabilire norme e sanzioni e di offrire riconoscimento e forza, per “aiutare” a realizzare il proprio progetto anoressico. Cercando di esplorare cosa si cela dietro le comunicazioni espresse in questo spazio virtuale, potremmo forse concludere che nei siti Pro-Ana i nostri adolescenti ricerchino amore, ascolto empatico, autorevolezza e riconoscimento, fonti di nutrimento per il proprio Sé, che hanno difficoltà a trovare nell’attuale mondo off-line? Se così fosse, potremmo leggere questo fenomeno come un appello “forte”, rivolto ai genitori e agli adulti autorevoli, a recuperare una funzione normativa e una cultura del limite che sembrano essere “evaporate”.

Dott.ssa Elena Mietto – Gapp Alessandria

La figura del padre nell’ipermodernità: uno sguardo psico-socio-analitico

In occasione della Festa del Papà sul quotidiano on line Alessandria News è stata pubblicata una nostra riflessione sulla figura del padre contemporaneo.

I profondi cambiamenti sociali e culturali del XX secolo, primo tra tutti l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro e la conseguente attenuazione degli stereotipi sessuali, hanno smantellato l’impianto gerarchico della famiglia patriarcale tradizionale, portando ad un cambiamento rivoluzionario della figura paterna e della sua funzione genitoriale, familiare e culturale.

Lo stile di convivenza familiare è sempre meno autoritario e più democratico, caratterizzato dalla propensione a venirsi incontro sensibilmente, anche tra generazioni, contrattando limiti e possibilità. La maggior vicinanza relazionale e la trasmissione di amore più che di regole ha delineato quella che è stata definita l’attuale “famiglia affettiva”, in cui l’obbedienza stessa è basata sull’amore e la fiducia, piuttosto che sul timore delle sanzioni.

La madre è divenuta la figura educativa centrale e la tradizionale funzione genitoriale paterna in questo contesto sembra “impallidire”; il padre appare più incerto rispetto al suo compito, meno normativo ma più conciliante e propenso ad aggirare i conflitti piuttosto che affrontarli con lo scontro. Pare quasi che si sia determinato un ribaltamento che fa sì che la percezione di essere un papà adeguato passi attraverso l’approvazione del figlio.

Con l’arrivo dell’adolescenza la funzione del padre diventa fondamentale quanto complessa: i padri di oggi si sentono più in difficoltà di fronte ai ragazzi più oppositivi, in bilico tra la memoria storica dei propri padri autoritari e una nuova autorevolezza, non ancora ben definita, ma sicuramente più affettiva, creativa, comunicativa.

Nonostante il padre sembri ricoprire una funzione più periferica nella famiglia di oggi, il suo ruolo resta di importanza cruciale: il suo sostegno materiale ed emotivo alla famiglia rimane fondamentale per il funzionamento familiare e lo sviluppo psicosociale del bambino.

Nel nostro contesto sociale, caratterizzato dalla flessibilità dei ruoli all’interno della società e della famiglia, sono sempre più numerosi i padri che si dedicano, oltre che ad attività ludiche e sociali, alla cura e l’assistenza fisica dei figli, e numerosi studi riportano che la loro capacità di fornire cure parentali adeguate migliori lo sviluppo dei bambini e non presenti differenze rispetto a quella materna. Le ricerche concordano nel ritenere le abilità di accudimento indipendenti dal sesso del genitore, ma legate a convenzioni sociali e stereotipi culturalmente appresi.

Inoltre, la figura del padre, soprattutto in momenti critici (come l’adolescenza), può mantenere un’obiettività e una separatezza rispetto alla posizione materna, che è fondamentale per ristabilire un sano equilibrio e permettere la separazione-individuazione fisiologica e necessaria per lo sviluppo dell’identità del figlio.

Il papà di oggi è dunque svincolato da modelli culturali che indicano ruoli educativi rigidi e preconfezionati da seguire, e impara a organizzare e riconoscere la nuova paternità nella sua virilità. L’esperienza terapeutica con i ragazzi mostra il desiderio di un padre che sia per loro guida e compagno di vita.

Dott.ssa Clara Bergia

Adolescenti: identità work in progress

L’adolescente si trova a dover affrontare importanti cambiamenti a livello fisico, emotivo e cognitivo, ma il compito evolutivo che compendia questi diversi aspetti è quello relativo alla costruzione dell’identità, ricercando un significato emotivo che colga la particolarità di ciascuno.

“Chi sono io?” è uno degli interrogativi più frequenti che interessano gli adolescenti.

Preadolescenza e adolescenza si configurano come periodi di grande sensibilità rispetto al corpo. Nel passaggio dalla scuola primaria alla scuola secondaria di primo grado si assiste, spesso, ad un cambiamento nel comportamento di questi non più bambini e non ancora ragazzi, che molte volte appare incoerente e disorientante agli occhi dei genitori e degli adulti più in generale. Uno dei compiti di sviluppo più complessi che caratterizza questo periodo consiste nella mentalizzazione del nuovo sé corporeo, ovvero far proprio un corpo nuovo, diverso da quello dell’infanzia e difficile da riconoscere, soprattutto all’inizio. Cambiano le forme esteriori, le emozioni e contemporaneamente il modo di pensare: la costruzione della propria identità è un percorso che continua per tutta la vita ma durante l’adolescenza accelera e si fa repentino.

Fin da piccoli infatti si possiede un’identità personale che però è fondata principalmente sul parere e sui modelli offerti dagli adulti di riferimento. A partire dai 10-12 anni, invece, i bambini iniziano a diventare sempre più autonomi nella costruzione di se stessi a partire da criteri propri: è in questo periodo che si verifica il passaggio da un’identità completamente riflessa ad un’identità auto-riflessa, dove sono i propri giudizi ad assumere centralità.

L’identità in questo periodo sembra riproporre, ad un livello più complesso, gli interrogativi sull’essere maschi o femmine: le identificazioni con il proprio sesso sono molto più intense rispetto ai periodi precedenti e vengono rielaborate in una nuova versione, sia le esperienze infantili relative al sé, sia quelle degli anni scolari insieme con le identificazioni con i genitori. La distinzione, infatti, tra maschi e femmine si accentua notevolmente, supportata anche dai cambiamenti a livello biologico e corporeo: questi aspetti legati allo sviluppo sessuale si riflettono sulla costruzione del sé e dell’identità di genere.

L’identità di genere, ovvero il sentirsi maschio o femmina, si riferisce ad aspetti psicologici, sociali e culturali della mascolinità e femminilità ed è importante distinguerla da altri aspetti legati all’identità individuale: l’identità sessuale, che fa riferimento a quelle caratteristiche biologiche che ci permettono di identificarci come maschio o femmina, e l’orientamento sessuale, ovvero l’oggetto della propria preferenza sessuale al quale si rivolge il desiderio.

Nel passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza questi aspetti legati all’identità individuale (identità sessuale, di genere, orientamento sessuale e ruolo di genere) assumono una significativa rilevanza nel percorso identitario dell’adolescente, maschio o femmina che sia, e chiamano in causa il rapporto con il proprio corpo. È importante infatti che si esperisca armonia e congruenza tra la propria identità, nelle sue diverse espressioni, e il proprio corpo. Può infatti accadere che la realtà esterna del proprio corpo e la percezione soggettiva del mondo interno – ad esempio il senso della propria mascolinità o femminilità – non coincidano, generando una sensazione di estraniazione all’interno di se stessi. Questi bambini o giovani adulti che presentano identità di genere insolite, da una parte, pongono una grande sfida ai gruppi ed alle società in cui crescono e dall’altra, chiedono che si abbia rispetto e attenzione per loro.

In questo periodo ragazzi e ragazze diventano sempre più consapevoli di propri cambiamenti interiori ed esteriori e cominciano ad elaborare in modo cosciente i significati legati a questa trasformazione. Il corpo, profondamente cambiato rispetto a quello infantile, viene adesso riconosciuto nelle sue forme e nei suoi impulsi. Inizia la vera lotta per l’autonomia psichica che cerca conferma in una maggiore libertà di azione e di scelta, e nascono le prime relazioni sentimentali: ad un minore coinvolgimento nella relazione con i genitori, infatti, corrisponde un maggiore coinvolgimento nelle relazioni con i pari.

In questo percorso di consolidamento della propria identità, affatto lineare e privo di ostacoli, che ricorda i sentieri di montagna tortuosi e dal terreno difficile, la famiglia – qualunque forma essa assuma – rimane un elemento centrale: genitori e figli sono impegnati, infatti, in uno scambio reciproco dove le proprie caratteristiche influenzano, e sono a loro volta influenzate, da quelle altrui.

Come adulti di riferimento è importante, dunque, ascoltare e valorizzare questo particolare momento della vita, cercando di comprendere quali possano essere le difficoltà emotive che alcuni ragazzi o ragazze vivono nell’incontro con i cambiamenti fisici che caratterizzano questo periodo di crescita. Non si tratta di evitare loro esperienze difficili e problemi, ma di supportarli nell’elaborazione di questo nuovo sé e nella conquista della propria autonomia. Rispettare e supportare questa conquista significa apprezzare la loro personalità originale e unica, lasciarli liberi di crescere,  di esprimersi e al tempo stesso rappresentare un punto di riferimento stabile, un porto sicuro sempre aperto e disponibile.

Grazie al sostegno della Fondazione SociAL, attraverso il progetto Mind the Gapp mettiamo a disposizione uno spazio d’ascolto e supporto gratuito rivolto agli adolescenti e ai genitori.

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