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Adolescenza e (in)dipendenza

“Perché bevi?” chiese il Piccolo Principe. “Per dimenticare”, rispose l’ubriacone. “Per dimenticare che cosa?”, s’informò il Piccolo Principe che cominciava già a compiangerlo.”Per dimenticare che ho vergogna”, confessò l’ubriacone abbassando la testa. “Vergogna di che?”, “Vergogna di bere”. – Il Piccolo Principe, Saint-Exupéry

Non possiamo non dirci dipendenti. La relazione e la dipendenza caratterizzano la condizione umana sin dalla vita prenatale e perdurano per tutta la vita in modalità peculiari per ciascun individuo, determinate da molti fattori che porteranno a infinite possibili variazioni.

La rivoluzione postmoderna ha profondamente mutato le relazioni e quindi le patologie e le dipendenze patologiche, sempre più ambigue e complesse, così come gli strumenti con i quali sono perpetrate. Considerata da molti l’attuale disagio della civiltà, l’addiction si declina in molteplici forme, come la dipendenza da gioco d’azzardo, da internet, shopping compulsivo, sex addiction, dipendenze comportamentali connesse alla condotta alimentare (come il binge eating disorder, l’ortoressia e il digiuno controllato), la dipendenza da lavoro, da esercizio fisico, e la dipendenza affettiva.

Il fenomeno pandemico dell’addiction si situa all’interno di un contesto culturale che promuove la politica del consumismo sfrenato, dove il limite è svanito, tutto è a portata di click e realizzabile nell’immediato, e il senso di frustrazione non è più tollerato. In ogni individuo prevale la fantasia illusoria di bastare a sé: così l’uomo paga la propria indipendenza attraverso la dipendenza compulsiva dalla sostanza che aiuta ad evitare le difficoltà e a fronteggiare la mancanza e l’angoscia da separazione. Lo scopo dell’agito nell’addiction è portare la persona lontano dal luogo in cui si trova – che può essere intollerabile a causa della noia, del dolore fisico, della paura o del conflitto – ad un rifugio della mente che permetta di sentirsi ‘fuso’, inconsapevole, eccitato, allucinato. Le caratteristiche specifiche della nuova dimensione non sono determinanti, e neppure il veicolo che li conduce, ma piuttosto il significato che la dipendenza assume nella vita del soggetto.

È possibile rintracciare al di là dei diversi comportamenti patologici un file rouge, che è rappresentato dall’esigenza di placare sentimenti di perdita, di paura o di vuoto. La realtà angosciosa talvolta viene evacuata, come in alcuni disturbi alimentari, talvolta dissimulata, come nella tossicomania, altre elusa attraverso la costruzione di avatar e pseudo identità virtuali. Infatti spesso si assiste alla compresenza di diverse forme di dipendenza nello stesso individuo, come dimostrano le correlazioni tra l’uso di sostanze e gioco d’azzardo.

La complessità dell’adolescenza fa sì che questa fase di sviluppo si configuri come periodo particolarmente a rischio: la forte spinta alla conquista dell’indipendenza con la parallela paura del fallimento, espone i ragazzi al pericolo di interiorizzare oggetti difettosi. L’insicurezza legata ai grandi cambiamenti della fase adolescenziale, come la sperimentazione dei nuovi rapporti sociali e i profondi mutamenti psico-fisici e sessuali, fa sì che sostanze come l’alcol fungano da banco di prova con una grande attrattiva, rappresentando in alcuni casi solo un breve passaggio, in altri generando future dipendenze.

Si osserva un sempre maggior consumo di alcol nelle fasce giovanili. Le sostanze psicoattive come l’alcol generano l’illusione di controllo sulle fisiologiche insicurezze, aumentando momentaneamente il livello di autostima e rendendo il soggetto più brillante nella relazione.

Il  gruppo dei pari, rifugio e luogo dei valori condivisi in cui spesso si cerca di recuperare sicurezza, ha anche il  compito di coniugare le esperienze personali con i modelli culturalmente accettati: il diritto all’azione può essere facilmente scambiato con il dovere al consumo.

La cultura contemporanea attenua nell’immaginario collettivo la consapevolezza dei danni provocati dall’abuso di alcol: il desiderio di affiliazione congiunto al piacere conviviale e alla raggiunta legalità nella circolazione degli alcolici, hanno contribuito al dilagare di forme di alcolismo sempre più frequenti. Tra le cause del consumo di alcol è sottovalutato il ruolo dell’ambiente, della cultura e della famiglia; numerose ricerche infatti hanno evidenziato come anche i genitori forniscano informazioni rilevanti per quanto riguarda la rappresentazione, il significato e le motivazioni che spingono a bere.

Gli adulti di riferimento possono svolgere una funzione protettiva rispetto a comportamenti di dipendenza patologica. In molti casi infatti il comportamento dipendente o abusante del figlio può essere un’indiretta richiesta al genitore di dargli un limite, come un bambino che piange disperato per non separarsi dalla madre. Tentare di creare canali di comunicazione alternativi con i ragazzi, per capire quali possano essere le motivazioni e i bisogni che li spingono ad assumere condotte di abuso, potrebbe essere una strada per far sì che esprimano le proprie difficoltà con modalità differenti. Una maggior fiducia e apertura nelle relazioni può aiutare i giovani a sperimentare in modo più sicuro il mondo esterno, allontanandoli dal rischio di cadere in circuiti illusoriamente compensatori. È auspicabile inoltre ristabilire il piacere conviviale dove sia la parola, al posto della sostanza, a circolare nelle relazioni.

Dott.ssa Clara Bergia
Dott.ssa Romina Cardaci

L’ossessione per le diete: le nuove forme del disagio alimentare

Nell’epoca del botulino, il silicone e la magrezza, il corpo e le sue trasformazioni diventano luogo privilegiato di espressione dell’identità. Accanto ai disturbi alimentari più noti, come l’anoressia e la bulimia, si assiste ad un aumento di nuove forme di disagio, non ancora riconosciute dal punto di vista diagnostico come patologie vere e proprie ma sempre più diffuse.

Ci proponiamo qui di inserire una riflessione circa un fenomeno sempre più dilagante e dibattuto da molti punti di vista: l’ossessione per le diete e l’alimentazione. Ne è un esempio lampante l’ortoressia – dal greco “orthos” che significa corretto e “orexis” appetito – caratterizzata dall’ossessione per gli alimenti considerati puri e sani. A differenza dell’anoressia, che si organizza secondo una restrizione della quantità di cibo, la condotta ortoressica è incentrata sulla sua qualità. Il regime alimentare diviene via via sempre più rigido, così come la programmazione dei pasti e degli alimenti, e l’evitamento fobico di situazioni che non ne permettano il controllo, porta ad una compromissione della vita sociale e affettiva della persona, che metterà sistematicamente la questione alimentare al centro della sua esistenza. In casi estremi la possibilità di frequentare ambienti e momenti sociali di condivisione è limitata drasticamente. La dieta è controllata in modo pressoché inflessibile e ad ogni piccola deviazione si accompagnano sensi di colpa profondi. Spesso questo desiderio di “salute a tutti i costi” è legato ad altre forme di controllo che si riflettono nella paura verso cibo non ritenuto idoneo, ipocondria, ossessione per il fitness, le cure estetiche e la pulizia. Come mostra la cronaca, il comportamento ortoressico o limitante rispetto ad alcuni alimenti all’interno della famiglia si riflette sui figli, che adottando passivamente la dieta intrapresa dai genitori possono incorrere in disagi sociali oltre che fisici, anche di una certa entità.

Un altro fenomeno che riguarda il comportamento alimentare contemporaneo è la massiccia diffusione delle cosiddette diete “senza”. Promossi da un mondo digitale di foodblogger che ne decantano gli effetti benefici e dubbiamente supportati da teorie scientifiche, questi nuovi mantra alimentari si moltiplicano, così come certe (auto)diagnosi di intolleranze. Senza carne rossa, senza lattosio, senza glutine o carboidrati: l’esclusione diviene il fulcro dell’alimentazione, che ricerca ossessivamente purezza e non-contaminazione allo scopo di controllare la forma fisica. Ponendosi da modello per molti, attrici e fashion blogger promuovono sul web e riviste femminili le diete più disparate; queste però, quando autoprescritte e interpretate, possono essere pericolose per la salute. Nel caso del gluten free, la scelta di eliminare la proteina del grano è spesso portata avanti anche in assenza di intolleranze mediche che la prevedano. La tendenza totalizzante di queste diete “sane” si configura quasi come una nuova religione contemporanea, di cui il corpo diviene l’oggetto sacro.

Si parla inoltre dieting, inteso come la ricerca ossessiva di seguire una dieta alimentare rigidamente strutturata e programmata, che diviene questione principale e caratterizzante la vita della persona. Priorità assoluta della quotidianità, il regime alimentare seguito in modo maniacale può diventare rischioso per la salute fisica e psicologica del soggetto, che si tenderà a selezionare scrupolosamente amicizie, frequentazioni e situazioni sociali.

In tutte queste manifestazioni legate al corpo e alla salute, spesso compresenti e correlate tra loro, è molto difficile stabilire la linea di confine tra uno stile di vita sano e la patologia. Ciò che differenzia le due condizioni è la modalità con la quale queste sono perpetrate, ossia i caratteri di rigidità, ossessione, centralità nella vita dei soggetti, e compromissione di altri aspetti importanti, anzitutto quello affettivo e sociale. Nonostante questi regimi alimentari speciali spesso nascondano il desiderio di perdita di peso, il corpo non appare necessariamente malato allo sguardo altrui, come accade invece al corpo anoressico. C’è inoltre il rischio di insorgenza un disturbo alimentare vero e proprio, soprattutto in concomitanza con eventi di vita particolarmente stressanti.

Al di là dell’evidente pressione mediatica rispetto a canoni estetici irraggiungibili e innaturali, è importante comprendere il significato che questi comportamenti hanno nella vita del singolo individuo, che utilizza il cibo e il corpo come palcoscenico di un disagio, magari momentaneo. All’alimentazione sono infatti attribuiti significati che vanno ben oltre al soddisfacimento del bisogno fisiologico. Da un punto di vista psicodinamico il nutrimento è il primo modo in cui entriamo in contatto con l’altro (anzitutto la madre o chi ne fa la funzione), e ad esso sono connesse profonde valenze affettive e culturali. Per questo comportamenti patologici legati all’alimentazione spesso dicono qualcosa rispetto ad una condizione di difficoltà emotiva che, spostata sul corpo, diviene vissuta dal soggetto come illusoriamente controllabile e gestibile in queste modalità che abbiamo visto essere talvolta disfunzionali per la salute.

Date le turbolenze emotive tipiche della crescita e la difficoltà nel separarsi in modo sicuro, l’adolescenza si configura come momento particolarmente a rischio per l’insorgenza di disturbi legati alla sfera del corpo e dell’alimentazione, che presentano infatti un picco d’esordio e una sempre maggiore diffusione. Nel prossimo articolo approfondiremo le nuove forme di disturbo che hanno a che fare con il mondo dello sport, e come, soprattutto durante l’adolescenza anche questo possa essere vissuto in modo disfunzionale e patologico.

Dott.ssa Clara Bergia

Sport addiction: tra benessere e ossessione

Nell’epoca del botulino, il silicone e la magrezza, il corpo e le sue trasformazioni diventano luogo privilegiato di espressione dell’identità. Accanto ai disturbi alimentari più noti, come l’anoressia e la bulimia, si assiste ad un aumento di nuove forme di disagio, non ancora riconosciute dal punto di vista diagnostico come patologie vere e proprie ma sempre più diffuse.

Dopo esserci occupati di Ortoressia, ci proponiamo ora di affrontare altri importanti fenomeni sempre più diffusi ai giorni nostri: la Bigoressia e l’Anoressia Atletica.

Da sempre sport e movimento sono considerati un’ottima abitudine di vita, alleati della salute e della longevità, tuttavia quando si esagera, come nei casi che andremo a descrivere, essi  possono assumere  i contorni, ben più preoccupanti, di una vera e propria dipendenza.

L’etimologia della parola Bigoressia o dismorfofobia muscolare (conosciuta anche come Vigoressia o Complesso di Adone) deriva dall’inglese Big “grande e grosso” e Oressia che si traduce come “senso di appetito”, il tutto inteso come fame di “grossezza”. Essa si manifesta come una continua ossessione per lo sport e la muscolarizzazione e indica la preoccupazione di avere un fisico poco prestante o troppo esile in persone visibilmente muscolose. A tal proposito la bigoressia è stata definita anoressia inversa, proprio per la sua specularità con la condizione dell’anoressia nervosa, che al contrario porta il soggetto a continuare a vedersi grasso nonostante la sua drammatica magrezza. L’attività fisica viene esercitata in maniera estrema al punto tale da trasformarsi in vere e proprie condotte ossessive alla ricerca disperata del “vedersi bene” e non del “sentirsi bene”.

La bigoressia sembrerebbe nascere quindi da una non accettazione del proprio corpo unita ad una bassa autostima che, a sua volta, condurrebbe a conformarsi a modelli culturali attuali che ricercano ossessivamente la bellezza.

Questa ossessione per la bellezza è incentivata anche dal fatto che nella nostra società ci sia sempre meno spazio per l’accettazione di se stessi e sempre più ricorso a trattamenti di diverso genere per correggere il corpo, considerato ormai molto spesso un oggetto da manipolare in quanto mezzo per raggiungere altri obiettivi. Il soggetto bigoressico investirebbe inizialmente sulla perfezione del proprio corpo per raggiungere scopi più legati a quella che è la sua storia personale, ad esempio l’ostentazione di un fisico degno di ammirazione potrebbe ipercompensare una bassa autostima e un senso di inadeguatezza.Ai problemi di tipo psicologico si aggiungerebbero inoltre problemi fisici derivanti da una dieta sbilanciata, troppo ricca di proteine, e da un uso improprio di anabolizzanti che possono, se prolungati, portare ad alterazioni della funzione renale, problemi ossei ed articolari e impotenza.

Nei primi anni ’90 viene introdotto il concetto di Anoressia Atletica. Questa problematica, che colpisce prevalentemente giovani atlete, si distingue dall’anoressia nervosa orientata ad un fine puramente estetico, l’ideale rappresentato da un corpo magro. Nell’anoressia atletica, invece,ciò che si ricerca, per mezzo della perdita di peso, è una maggiore prestazione sportiva.

Queste ragazze sono ossessionate dall’ottenimento di performance sempre migliori e rivolgono pertanto al proprio corpo un’attenzione estrema cercando di renderlo efficiente come una macchina.

All’ossessione per il fisico spesso si associa quindi un disturbo del comportamento alimentare volto a ridurre la massa corporea al fine di ottenere prestazioni sportive sempre migliori.

L’ideale “dell’essere il migliore”, di eccellere nel proprio sport, spinge il soggetto a manifestare un certo livello di compiacenza alle estenuanti richieste degli altri al fine di migliorare continuamente le proprie prestazioni ed assicurarsi il riconoscimento dell’altro. Tali comportamenti, anche in questo caso, potrebbero essere dovuti ad una bassa autostima del soggetto.

Il moltiplicarsi di queste nuove sindromi testimonia come il cibo e il corpo siano un canale privilegiato per manifestare un disagio, trasmettere messaggi e comunicazioni profonde. L’angoscia per il sentirsi leggeri è l’espressione sintomatologica di un problema interiore che viene trasferito sul corpo e sulla pelle.

Il corpo, mediatore dell’incontro con l’altro, perde l’accezione di luogo della comunicazione e si trasforma in qualcosa da correggere o da distruggere.

Durante il periodo dell’adolescenza avvengono in esso cambiamenti radicali che possono generare un senso di disorientamento e sentimenti di preoccupazione e di incertezza.

Gli adolescenti sono particolarmente vulnerabili alla pressione del contesto in cui vivono e ai valori proposti dalla società e dal gruppo dei pari.

In questa fase, essendo lo sport un’attività educativa riguardante il corpo, il soggetto impara a conoscere il proprio e a valorizzarlo. In un contesto di crescita così delicato, oltre alla famiglia, un ruolo di estrema importanza è pertanto quello degli allenatori sportivi. Questi ultimi, molto competenti dal punto di vista sportivo e focalizzati sul risultato, talvolta trascurano aspetti  nutrizionali, educativi e psicologici, non tenendo conto della complessità dei bisogni dei ragazzi. Risulta pertanto molto importante tenere presente che il ruolo dell’allenatore va ben oltre l’insegnamento del gesto tecnico.

“Allenare” significa, infatti, “educare” e l’allenatore dovrebbe porsi come protagonista attivo di esperienze formative. Così come i famigliari, anche gli allenatori stessi dovrebbero tenere conto del valore della propria parola nella vita dei loro atleti evitando di criticare e disapprovare ragazze e ragazzi in base al corpo e al peso, ma favorendo la costruzione della loro identità e lo sviluppo di una “solida” autostima, ponendo come priorità la crescita della persona come individuo.

Dott.ssa Elena Traversa
Dott.ssa Romina Cardaci

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