di Nadia Delsedime e Michela Marzano
Queste riflessioni in forma di dialogo fra la dr. ssa Nadia Delsedime (in seguito N.D.), medico psichiatra esperta in DCA, e la Prof.ssa Michela Marzano (in seguito M.M.), nota autrice di saggi e docente di Filosofia Morale all’Università R. Descartes di Parigi, vogliono sfiorare temi nucleari riguardanti la genesi, lo sviluppo e il mantenimento dei Disturbi Alimentari (DA). Il corpo, il femminile, l’età evolutiva e i suoi disagi; sono riflessioni che intendono aprire al desiderio di approfondire, sono accenni che intendono stimolare un dibattito e un pensiero, una conoscenza sul tema. Dietro al fenomeno dei DA sta un mondo complesso che non può essere ignorato né tantomeno esaurito nel sintomo e nella cura dello stesso; un mondo fatto di relazioni, emozioni, interiorità e rapporti con la società contemporanea.
IL CORPO COME LINGUAGGIO
N.D. Le malattie del corpo – dai disturbi psicosomatici ai disturbi del comportamento alimentare – sono, in tutte le età della vita, un vero e proprio linguaggio, atto a esprimere emozioni, sentimenti, bisogni, richieste. Il corpo ha un suo linguaggio e si fa linguaggio, che richiede di venire ascoltato. “Noi siamo un colloquio” per citare Eugenio Borgna che a sua volta cita un verso di Hoelderlin.
Nell’ambito delle funzioni di cura pertanto, l’ASCOLTO diventa strumento fondamentale, se inserito all’interno di una relazione, non solo terapeutica, ma primariamente fra individui.
La CURA intesa come terapia è fondata sull’ATTENZIONE. Attenzione nel senso di vedere, ascoltare, comprendere utilizzando i sensi, l’empatia, il linguaggio non verbale (del corpo, ancora una volta).
“Curare una malattia” quindi non dovrebbe essere solo l’atto di estirpare uno o più sintomi, riparare un guasto, e di conseguenza soffocare un linguaggio, bensì dovrebbe sottintendere un “prendersi cura” a tutto tondo dell’individuo che presenta quei particolari sintomi, che hanno un significato e comprenderne tale significato.
M.M. Mi piace molto la frase in cui Borgna riprende Hoelderlin e scrive: “Noi siamo un colloquio”. Non solo perché è bella ed evocativa, ma anche e soprattutto perché permette di capire come mai, a un certo punto della vita, può accadere che il corpo diventi “sintomo”. Quando il colloquio con noi stessi si interrompe, il corpo trova il modo di dire ciò che le parole non riescono più a nominare. È per questo che anch’io sono convinta che l’ascolto sia la chiave di volta quando si vuole aiutare una persona che soffre di disturbi alimentari. È d’altronde proprio l’ascolto, nel senso lato del termine – essere visti, essere percepiti, essere riconosciuti – che, a un certo punto, è venuto meno: non si è stati né visti né ascoltati per ciò che si è; si è stati cancellati da un‘immagine ideale e idealizzata alla quale si è cercato poi disperatamente di corrispondere.
Il problema è che, a forza di cercare di conformarsi a ciò che è “altro” da sé, prima o poi si arriva a quello che a me piace definire il “punto di rottura”; il sintono, in fondo, non è altro che un modo per dire “basta”, soprattutto quando mancano le parole per dirlo in altro modo.
Da questo punto di vista, “guarire” non significa tanto smettere di focalizzarsi sul cibo – che probabilmente resterà per sempre un punto di fragilità, ciò cui si ricorre quando si è stanchi, stressati, malinconici, delusi o nuovamente prigionieri dello sguardo altrui – ma imparare ad ascoltarsi: mettersi su “pausa”; darsi tempo e pazienza; accettare che il presente possa a volte arrotolarsi su stesso, addirittura riavvolgersi e ripiegarsi sul passato, prima di ripartire. Anche perché non c’è nulla da riparare.
Ogni persona ha le proprie fratture e le proprie fragilità. E, spesso, sono proprio queste fratture che ci permettono di essere le persone uniche che siamo, senza che qualcuno cerchi di cancellarle e di normalizzarci.
IL CORPO COME SIMBOLO DEL FEMMINILE
N.D. Da sempre la donna viene vista e giudicata attraverso il suo corpo, il vestito di carne che indossa. Il corpo diventa oggetto, feticcio, “pezzo d’arte” da ammirare o denigrare, diventa biglietto da visita per molte donne, che sono le prime a essere inflessibili verso il proprio corpo. Lo tiranneggiano. Lo maltrattano. Lo modificano. Lo costruiscono. Alla ricerca di una perfezione impossibile.
La maggior parte delle ragazze e donne è insoddisfatta del proprio corpo, lo vorrebbe diverso, ne cambierebbe alcune parti. Molte arrivano a vergognarsene. Ed ecco nascere concetti quali il body shaming, non solo legato al fat shaming (vergogna del grasso corporeo), ma in senso lato vergogna per come si è, per ciò che si è.
Il corpo come rappresentazione del Femminile diventa quindi anche IDENTITÀ. Modo per trovare una sicurezza, fonte di autostima. Il controllo sul corpo diventa imprescindibile per placare ansia e senso di vuoto o per curare una forma depressiva. Modellare il corpo (attraverso una dieta, l’attività fisica, gli interventi estetici) diventa quindi forma di autocura. Che non significa però sapersi prendere cura…
Questo di fatto è il nucleo centrale di molti Disturbi Alimentari.
M.M. Il corpo è “tangibile”, nel senso che è l’oggetto su cui, immediatamente, si può leggere la propria capacità o incapacità di controllo. Al di là dell’estetica, io credo che l’attenzione ossessiva al corpo sia la conseguenza inevitabile di quel controllo eccessivo che si cerca di esercitare su se stessi. Un po’ come quando si decide di mettere ordine in casa, di fare le pulizie, di “prendersi cura” dello spazio nel quale si vive, spesso nel tentativo di riprendere una qualche forma di controllo su di sé.
Per certi aspetti, tutto dipende dalla “misura”: “where to draw the line”, come si dice in inglese. Ossia dalla modalità che si riesce a trovare per evitare che la cura di sé smetta di essere “cura” e diventi un ennesimo volto dell’ossessione.
Se dico questo, è perché sono stanca di sentir ripetere sui social o in televisione che i DA sarebbero la semplice conseguenza di un modello ideale di corpo, e che quindi è sulle immagini del corpo che ci si dovrebbe concentrare. La questione dei DA è ben più profonda, viene da lontano, e spesso non ha nulla a che vedere con la bellezza o l’estetica.
Certo, l’anoressia si manifesta in persone che cercano la “perfezione”, ma è una perfezione in senso lato. Si tratta di persone che cercano di andare al di là dei propri limiti. Che cercano di perfezionarsi e che, se non ci riescono, si sentono in colpa. La chiave per capire cosa c’è dietro i DA è quel senso di colpa onnipresente, quel non sentirsi mai “abbastanza”. Abbastanza bella o abbastanza buona. Abbastanza intelligente o abbastanza sensibile. Abbastanza forte o abbastanza amata.
DISTURBI ALIMENTARI ED ETA’ EVOLUTIVA
N.D. I Disturbi Alimentari nell’infanzia e nell’adolescenza sono in rapida espansione, soprattutto in questi tempi critici legati alla pandemia. L’età d’esordio è scesa a 8-9 anni. Di pari passo con il diffondersi dell’utilizzo delle nuove tecnologie e dei social network a fasce di età sempre più basse, aumenta il pericolo di accesso a siti “pro ANA” e “pro MIA”, o di confronto con coetanee/coetanei o di challanges riguardanti il corpo. Il bullismo sui social o il solo diffondersi di commenti denigratori, è una ferita che può colpire gravemente l’autostima in formazione.
Ma il malessere, il disagio psicologico, i sintomi alimentari o l’autolesionismo, sono anche fasi di passaggio, prove di iniziazione, crisi che sono anche possibilità di crescita e di costruzione di una identità propria. Sono forme di ribellione. Forme di autonomia. Quindi non sempre la “malattia” è da demonizzare. Di nuovo è una forma di linguaggio, che SIGNIFICA QUALCOSA E CHIEDE QUALCOSA. La sfida per genitori, familiari, insegnanti, medici e psicologici, adulti in generale, è saper o voler ascoltare quella richiesta…
M.M. Ogni sintomo, in quanto tale, non ha lo stesso significato per chiunque. Il sintomo può essere lo stesso, ma spesso la storia che ci si porta dentro è diversa. È sempre all’interno di un contesto, d’altronde, che un sintomo assume un significato specifico e unico.
Ciò detto, è vero anche che il sintomo è sempre un segnale, ossia un modo per dire ciò che non si riesce a significare o nominare altrimenti. È per questo che talvolta può anche essere positivo che un sintomo si manifesti precocemente: se un sintomo si manifesta presto, c’è la possibilità, per la famiglia, di interrogarsi sulle dinamiche disfunzionali che hanno portato una figlia o un figlio ad ammalarsi. Il sintomo può allora essere l’occasione, per i genitori, di riflettere non solo sul proprio modo di relazionarsi ai figli, ma pure sulla propria vita di coppia. E magari per fare lo sforzo di modificare qualcosa.
Spesso, la “malattia” non è in chi presenta un sintomo: il sintomo è talvolta solo la punta dell’iceberg di una malattia che è altrove, nel rapporto tra i genitori, nell’ansia di una madre, nei deliri di onnipotenza di un padre, nelle assenze di uno dei due genitori o nella loro presenza invasiva.
Ecco perché, ancora una volta, si torna all’importanza dell’ascolto. E alla capacità che un terapeuta ha (o meno) di decifrare la richiesta esatta che un bambino o una bambina stanno cercando di formulare attraverso i DA.
CONCLUSIONI
In conclusione, ciò che emerge da questo scambio di battute è l’importanza dell’ascolto del sintomo, sintomo in quanto discorso simbolico, in quanto rappresentazione profonda di un disagio o di una fragilità, o anche di una denuncia di qualche ferita subita nel passato.
Il sintomo alimentare significa molte cose diverse e la “cura” quindi non può essere che l’accogliere e il farsi carico di questi significati. Non è solo questione di peso o di corpo inteso come immagine estetica, di insoddisfazione rispetto a canoni imposti da una società in continua trasformazione, di inquietudine adolescenziale…questa è la facciata esterna, l’interpretazione più semplice e forse anche la cosa più visibile e che spaventa di più i familiari di chi da un DA è colpito. La paura della morte, di veder sparire sotto il proprio sguardo un figlio o una figlia, il senso di impotenza e frustrazione che affligge non solo i familiari ma talvolta anche i terapeuti che cercano di “combattere contro” questa malattia, talvolta scordandosi di allearsi con il/la paziente, è uno dei problemi maggiori da affrontare perché impedisce di ascoltare con lucidità la domanda che sta dietro il sintomo. Certamente il sintomo quando mette a rischio la vita va ridimensionato, ne va ridotta la carica esplosiva, ci si deve occupare del corpo da un punto di vista medico, il peso va messo in sicurezza, ma il dialogo e l’ascolto devono essere presenti sempre attraverso ciascuna di queste fasi, allo scopo di creare una vera alleanza terapeutica con il/la paziente e non lasciarlo solo/a nella lotta contro se stesso/a.
Citando Delphine De Vigan dal libro “Giorni senza fame”, il/la paziente deve capire che “non è più sola a combattere contro se stessa”. In questa battaglia condivisa alla fine la cosa importante è affrontare il senso di colpa pervasivo che contraddistingue i DA, colpa di non essere mai abbastanza, per se stessi e per gli altri. La cosa importante è ACCETTARE E ACCETTARSI. O meglio accettarsi attraverso l’essere accettati.
Chiudo citando il finale del libro di Michela Marzano “Volevo essere una farfalla”: “Forse l’unica cosa che ho veramente capito è che nella vita non si può fare altro che accettarsi. Ed essere indulgenti. E perdonarsi.”