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La violenza sulle donne: comprenderne i meccanismi per proporre un cambiamento

Il fenomeno della violenza contro le donne, nel corso del tempo, ha acquisito una rilevanza sempre maggiore ed è stato delineato attraverso termini differenti, che hanno tentato di coglierne i vari aspetti ed evidenziarne l’immensa complessità. Esso comprende una vasta gamma di violenze, maltrattamenti e abusi attuati dal partner che non sempre si manifestano sottoforma di danno prettamente fisico, la cui origine risiede, spesso, nelle diseguaglianze di genere e nella storica disparità di ruolo e di potere tra uomini e donne che connota la società umana da sempre. In tal senso, all’interno della Dichiarazione per l’Eliminazione della Violenza sulle Donne, emanata dalle Nazioni Unite nel 1993 (ONU, 1993), il termine “violenza di genere” viene impiegato per definire “qualunque atto di violenza sessista che produca o possa produrre danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche, ivi compresa la minaccia di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che nella vita privata” (Petruccelli, Simonelli & Grilli, 2014; Arcidiacono & Napoli, 2012; Marzi, Mancini, Molinari, & Palombo, 2013). Tale definizione fa riferimento alla dimensione relazionale e sessuata della violenza e ai meccanismi sociali, a causa dei quali il genere diventa il primo terreno di scontro in cui si manifesta il potere (Ulivieri, 2013).

Rispetto al tema della violenza si è osservata una certa ciclicità, che ha portato L. Walker (1979) a definire un vero e proprio ciclo della violenza, inteso in termini di “progressivo e rovinoso vortice in cui la donna viene inghiottita dalla violenza continuativa, sistematica, e quindi ciclica, da parte del partner” (Walker, 2001). Questo processo è articolato in tre fasi, quali crescita della tensione, maltrattamento vero e proprio e luna di miele, che si susseguono con un’intensità e una frequenza sempre maggiore. Durante la prima fase il partner assume atteggiamenti ostili e scontrosi e la vittima, al fine di prevenire l’escalation, pone in secondo piano i propri bisogni dedicandosi completamente a quelli dell’altro. Nel corso della seconda, il partner agisce comportamenti violenti di diversa natura. L’ultima fase è connotata da sensi di colpa e tentativi di scusa da parte del partner accompagnati da promesse volte al cambiamento e da tentativi di porre le responsabilità al di fuori della coppia o comunque della propria persona. Con il susseguirsi di tali fasi il legame tra i due individui subisce importanti modificazioni, tramutandosi in una relazione traumatica e distruttiva, in cui le persone coinvolte occupano sempre di più posizioni rigide e asimmetriche, definite su uno squilibrio di potere. Inoltre, l’alternanza protratta di comportamenti abusanti e affettuosi, tipica di queste dinamiche, conduce all’instaurazione di una condizione relazionale patologica spesso connotata da una modalità di comunicazione ambigua e contraddittoria e da cui risulta estremamente complesso uscire se non attraverso l’ausilio di supporti esterni (familiari, istituzionali, sociali…).

Sulla base di quanto detto, è evidente l’importanza e la necessità di un cambiamento e di un lavoro che coinvolga l’intera società, in modo particolare di una forma di sensibilizzazione affettiva, relazionale e sessuale che avvenga lungo tutto l’arco della vita, che vada al di là delle definizioni stereotipate di “buono/a” e “cattivo/a”, di “vittima” e “carnefice”, che stimoli una riflessione più ampia che coinvolga tutti, che metta al centro il rispetto per sé stessi e per l’altro, fatto di confini inviolabili, e alimenti l’attenzione verso il monitoraggio e la cura della salute mentale e relazionale.

BIBLIOGRAFIA

Arcidiacono, C., Di Napoli, I. (2012). Introduzione. Violenza e asimmetria di genere. In Arcidiacono, C., Di Napoli, I. (a cura di), Sono caduta dalle scale… I luoghi e gli autori della violenza di genere. . Milano: Franco Angeli.

Marzi, G., Mancini, E., Molinari, F., Palombo, S. (2013, Aprile 17). Femminicidio e violenza di genere: dal sommerso alla presa di coscienza. Tratto da Psicoanalisi e scienza: https://www.psicoanalisi.it/osservatorio/1287/

Organizzazione delle Nazioni Unite. (1993, Dicembre 20). Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne. Adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con risoluzione 48/104.

Petruccelli, I., Simonelli, C., Grilli, S. (2014). La violenza di genere. In Schimmenti, V., Capraro, G. (a cura di) Violenza sulle donne. Aspetti psicologici, psicopatologici e sociali. Milano: Franco Angeli.

Ulivieri, S. (2013). Femminicidio e violenza di genere. Tratto da: https://www.siped.it/wp-content/uploads/2013/12/Pagine-da-pedagogia_oggi_2-2013-26092013-9.pdf

Walker, L. (2001). The battered woman syndrome. 2nd edition. Springer Publishing Company

La storia di Eleonora

Di Eleonora Nale

La mia è la storia di una bambina perfezionista ed ansiosa, cresciuta con il terrore di non essere abbastanza, con l’ossessione di dover eccellere in tutto e con la certezza di non essere mai all’altezza delle situazioni e delle aspettative altrui. È una storia di affetto e fiducia riposti in persone che non sono state in grado di amarla come avrebbe meritato. Di sguardi aridi, cattivi, incapaci di farla mai sentire nel posto giusto al momento giusto. E quegli sguardi, negli anni, sono diventati il suo sguardo, la sua voce. Una voce crudele, insaziabile, che non conosce limiti o pietà, che non permette il minimo sgarro, che non legittima la fatica, la fame, la sete. Tutto ciò che è umano ha imparato a spegnerlo, perché inaccettabile, orrendo, impronunciabile. Sporco. Una bambina, poi ragazza e poi donna che di terreno non doveva e non poteva avere nulla, il cui sogno, forse, era quello di riuscire a liberarsi dei suoi pesi per staccarsi da terra. E così iniziavano i digiuni, l’attività fisica, le compensazioni, e si accorgeva che più perdeva peso e più le sembrava di riuscire finalmente a respirare. Nella morte progressiva del corpo aveva finalmente trovato un po’ di vita, sebbene comandata da regole e paure. Poi però una realizzazione: era rimasta sola. Le persone che amava si erano allontanate, o meglio: le aveva allontanate. Perché affetto significa compagnia e compagnia significa, spesso, cibo. E lei di cibo non voleva sentir nemmeno parlare. La solitudine: forse un prezzo un po’ alto per poter respirare. Allora la terapia, i ricoveri, i farmaci, le innumerevoli visite. Una luce aveva imparato timidamente a farsi spazio nella sua mente: la magrezza non era l’unica ricetta per poter esistere. Questa luce ha un nome: Guarigione. E quella bambina ha un nome: Eleonora.

“E a noi, chi ci pensa?”

Riflessioni cliniche sull’impatto psicologico della pandemia sui bambini affetti da disturbi alimentari.
Intervista alla Dott.ssa Alessia Marcassa, psicologa e psicoterapeuta dell’età evolutiva.

La pandemia ha avuto, in qualche modo, un impatto sulla salute mentale dei bambini?
La recente pandemia ha reso necessario confinare le famiglie nelle loro case mettendo alla prova le capacità di adattamento del singolo, non solo per la limitazione della libertà personale ma anche per la riorganizzazione della vita domestica. Per quanto riguarda la popolazione pediatrica sembra che i bambini siano stati i soggetti meno vulnerabili agli effetti del virus a livello fisico, ma hanno subito un grande impatto a livello emotivo e psicologico. In questi ultimi anni i vari lockdown, la didattica a distanza (DAD) e lo smartworking hanno comportato una differenza di abitudini alimentari nelle famiglie, di conseguenza bambini con pregresse difficoltà sulla sfera alimentare hanno avuto un peggioramento nel quadro sintomatologico e si è rilevata una maggiore incidenza d’esordio di disturbi alimentari.

Quali sono i possibili fattori di rischio?
Per rispondere a questa domanda ho elaborato alcune riflessioni che nascono dal lavoro clinico con bambini di età compresa dai 6 ai 13 anni che hanno manifestato o un aggravamento sintomatologico o una manifestazione del sintomo. Sono presenti dati di realtà che hanno coinvolto tutti e che i bambini hanno subito di conseguenza: la chiusura di scuole e quindi di tutti i tipi di servizi sociali hanno fatto si che in breve tempo la loro vita, che negli ultimi anni li ha resi molto attivi sia sul piano scolastico passando a scuola molte ore, sia sul piano sportivo, abbia subito un azzeramento di legami esterni alla famiglia.

Una comunicazione deficitaria all’interno del contesto familiare cosa può comportare in bambini con Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA)?
In molte situazioni i bambini sono stati sovraesposti alle informazioni o al contrario sono stati tenuti lontani dalle notizie per il timore di turbare il loro equilibrio. In entrambi i casi sono bambini che non hanno fatto esperienza di adulti in grado di parlare loro con parole comprensibili di ciò che stava avvenendo nel mondo, creando da un lato una preoccupazione totalizzante e dall’altra una scarsa capacità di spiegarsi ciò che stava avvenendo intorno a loro. Spesso nelle famiglie con disturbi alimentari ci sono grandi difficoltà di comunicazione e questo momento di pandemia ha reso il tutto ancora più complesso a causa di adulti molto preoccupati e con vissuti depressivi o ansiogeni legati all’incertezza e alla mancanza di controllo del momento. L’insicurezza e il discontrollo sono vissuti emotivi che si rintracciano chiaramente nei disturbi alimentari di bambini che perdono quella spontaneità e leggerezza legata ai momenti dei pasti.

La pandemia ha stravolto la quotidianità di tutti, questo aspetto come si è manifestato nei bambini con DCA?
Spesso durante la pandemia gli stessi adulti hanno cambiato abitudini alimentari per il timore di perdere il controllo legato all’impossibilità di condurre una vita frenetica e quindi alla difficoltà di gestire non solo i pasti ma anche gli orari annessi. Molto spesso i bambini hanno avuto difficoltà nella gestione del tempo della giornata in quanto gli adulti in primis hanno fatto fatica a mantenere degli orari legati ad una quotidianità che offriva momenti diversificati in cui la giornata trascorreva senza confusione e spaesamento. Per i bambini le abitudini e gli orari sono fondamentali per mantenere intatto un assetto di regolarità che aiuta a incrementare sicurezza e consapevolezza.
In questi anni molte famiglie hanno sperimentato delle giornate in cui tutto ruotava intorno al cibo, a ricette nuove, a un tempo che, mai come in questo momento, è ruotato intorno all’alimentazione. Nel corso della pandemia, infatti, molti genitori hanno sperimentato una maggiore difficoltà nel trovare modi diversi e sempre nuovi di trascorrere il tempo insieme ai propri figli.

Per quanto riguarda l’ambito clinico, ha potuto rilevare qualche cambiamento?
Un importante aspetto che ho riscontrato nella pratica clinica è stato assistere ad un incremento di aspetti regressivi sia in maschi che in femmine, come se la chiusura forzata li avesse autorizzati a perdere quelle autonomie che stavano acquisendo nel percorso di crescita. Questa aspetto legato all’autonomia riguarda anche i pasti perché molti bambini hanno manifestato delle dipendenze affettive significative non legate alla loro età cronologica, ad esempio richiedendo l’attenzione esclusiva di un genitore durante i pasti o manifestando agitazione quando i pasti venivano consumati al di fuori dell’ambiente domestico. Respirando sempre di più un’aria legata a vissuti di insicurezza e incertezza si sono manifestate grandi paure legate all’addormentamento e al mantenimento del sonno, somatizzazioni fisiche sia cutanee che gastrointestinali e timori di stare male o di perdere persone significative. In questo momento ancora più che in altri sarebbe stato importante parlare della morte e della malattia come di qualcosa di cui si poteva e doveva parlare. È stato fondamentale nel lavoro clinico ascoltare ciò che i bambini avevano compreso, le loro paure e i loro pensieri.

La chiusura della scuola, luogo fondamentale per la socializzazione, e l’introduzione della DAD che effetto hanno avuto sui minori?
Il fatto che non abbiano potuto andare a scuola ha reso complicato mantenere i legami con i compagni e gli amici, fondamentali nell’età dello sviluppo in quanto segnano i primi momenti di individualizzazione attraverso il contatto emotivo ma anche fisico. Spesso ho ascoltato attraverso le loro parole una grande mancanza della fisicità, di un abbraccio dato al compagno, di una carezza ricevuta dalla maestra come momenti di contatto importante con l’esterno e le loro emozioni. Questa pandemia ci ha portati ad avere il timore di vedere e stare vicino agli altri come se dovessimo costantemente preoccuparci che l’altro non fosse un pericolo, cosa che per noi adulti era comprensibile ma che per i bambini è stato molto complesso da comprendere e accettare.
Hanno fatto molta fatica ad elaborare un concetto di scuola e quindi anche di apprendimento diverso, tramite il video di un pc e non nel contesto di classe con tutte le dinamiche che questo comporta. Hanno manifestato più sintomatologie ansiose legate alle prestazioni e ai voti che hanno avuto delle ripercussioni sul controllo o discontrollo alimentare.

Quando le scuole sono state riaperte, cosa è successo?
Tutte le difficoltà descritte in precedenza hanno fatto sì che anche nei momenti di riapertura i bambini abbiano fatto fatica a riaprirsi al mondo quasi come se facessero fatica a riprendere delle abitudini o delle sicurezze che prima avevano ma che il confinamento ha tolto. Riprendere una vita quotidiana ha significato allontanarsi dall’assetto familiare in cui sono rimasti chiusi per mesi e questo ha riattivato in maniera molto evidente difficoltà di separazione e individuazione legate a questo tipo di patologia.

In questa situazione, i genitori cosa possono fare?
Quello che le famiglie possono fare oggi è mettersi in una posizione d’ascolto rispetto ai bisogni emotivi dei propri figli accogliendo e non giudicando il dolore e le paure manifestate. Si ritiene fondamentale per i genitori non spaventarsi di fronte a tali aperture, che rappresentano il loro modo per chiedere un reale aiuto. Per accogliere e creare un clima di ascolto i genitori stessi si possono avvalere del supporto di un professionista che li sostenga in un momento che in tutta la famiglia risulta essere destabilizzante, questo sarà propedeutico anche per la creazione di strumenti adeguati per sostenere il figlio nel proprio percorso di crescita.

IN UN MONDO DIVERSO di Elena Piovano

Commento a cura di Nadia Delsedime

Questo libro di Elena Piovano e’ un racconto, una lunga favola, che invoglia il lettore a proseguire nella lettura creando un’atmosfera di serenità, pace, ricordo di certi sogni infantili. Un’atmosfera di dolcezza. Proprio come un ritorno all’infanzia ma al contempo come un viaggio iniziatico sembra configuarsi questa storia, dove la protagonista e’ l’adolescente Elena, una ragazzina sveglia e creativa, in parte annoiata nella solitudine estiva, in parte alla ricerca di avventure e di una fuga da casa che le conferisca la dignità di adulta. In sottofondo qualche conflitto familiare, genitori un po’ assenti per lavoro e un pò restii a “vedere” la figlia.

Talvolta per essere visti e’ necessario allontanarsi o compiere un gesto eclatante che faccia aprire gli occhi e crei una mancanza nell’Altro. Qui il gesto e’ la decisione di imbarcarsi sul treno magico che passa una sola volta nella vita e richiede il coraggio di salirvi alla cieca (come non ricordare sullo stesso tema la struggente novella “Il treno ha fischiato” di Luigi Pirandello?). Dal momento in cui sale sul treno Elena incrocia le vite di tanti bambini anch’essi saliti a bordo davanti alle loro case, e di strani adulti rimasti un po’ bambini, vestigia di un mondo scomparso a causa di disastri naturali e non, un mondo ormai ricordato solo nelle storie dei pochi sopravvissuti. Le atmosfere raccontate sono a meta’ fra un film d’animazione di Miyazaki e un episodio di Harry Potter, spesso fa capolino la magia che come sempre serve solo a capire qualcosa in più di se stessi. Tutto è caratterizzato dalla bellezza e dal calore dell’infanzia, talvolta sembra di leggere una fiaba nella fiaba dove i sogni parlano di inclusion, libertà, diritti …una fiaba per adulti alla fine.

Come in ogni racconto per adulti – o anche per bambini ma in modo mascherato – sono sempre narrati tutti i dolori umani, ma al loro fianco anche tutte le gioie possibili che si possono incontrare nella vita. In questo caso il personaggio dolente, ferito nel profondo, spezzato, il cigno nero se così si può dire, e’ rappresentato da Robin, una giovane donna che nella vita precedente, nel mondo di prima, ha perso tragicamente la propria figlia di pochi anni.

Questo immenso dolore l’ha profondamente segnata e l’ha trasformata nel personaggio “cattivo” della storia, una sorta di strega dell’Ovest temuta da tutti e allontanata anche dagli adulti del treno, I suoi stessi compagni; in realtà si scopre poi che lei stessa si e’ autoisolata, circondandosi di un’aura funesta, che le permette di stare nella propria solitudine, fatta di rabbia, colpa, dolore, rimpianto.

Solo l’incontro con Elena e con la sua giovane purezza fa ritrovare a Robin la voglia di vivere e di uscire dalla propria solitudine e di ritrovare quella parte di sé ormai dimenticata che riconduce immancabilmente all’amore e successivamente alla salvezza. Il legame di affetto profondo che si crea via via fra lei ed Elena la riporta al vecchio amore per Aurora (l’altra protagonista femminile del racconto), che finalmente corrisposto salverà entrambe.

Leggendo fra le righe si comprende come solo l’affetto e l’attenzione possono trasformare il “cattivo” in buono, come nel caso di Robin, e che l’essere visti corrisponde alla fine all’essere salvati. In più capitoli ritorna il tema dell’essere ascoltati, dell’essere visti, dell’essere presi in considerazione come esseri individuali con i propri desideri e i propri sogni. Questo credo sia il messaggio principale del libro; cosi come nell’infanzia bisogrebbe essere liberi di dare sfogo a fantesie e giochi e sogni, così nell’età adulta bisognerebbe essere liberi di lottare per i propri ideali e desideri e di essere se stessi.

Leggere questo libro mi ha riportato un po’ all’infanzia e mi ha fatto passare dei momenti leggeri e piacevoli; talvolta è bello interrompere il frenetico ritmo quotidiano con tutti i suoi problemi sognando ad occhi aperti e leggendo qualcosa che ci ricordi che un’altra vita e’ possibile, che le difficolta’ possono essere superate, che anche il dolore puo’ trasformarsi in qualcosa di positivo.

Tutti i bambini dovrebbero poter vivere un’infanzia come quella descritta in questa storia, piena di avventure, libertà, sogni realizzati, paure affrontate; perché solo questo tipo di infanzia può dar vita ad un adulto maturo e complete, senza fratture e senza eccessive nevrosi.

Ma questo libro contiene anche un inno dedicato alla lettura, al bisogno di leggere come ricerca di libertà e di verità; leggere rende migliori.

Voglio chiudere citando una frase del libro che ne sintetizza il messaggio piu’ importante: “i problemi sono scuse per giustificare il vuoto che abbiamo in noi e maschera la nostra più grande paura: fare quello che vogliamo davvero. Vogliamo essere diversi per sentirci unici e importanti, ma non facciamo nulla per vivere felici. Accettiamo le cose così come ci vengono date, perché pensiamo che sia l’unica strada ma non e’ cosi”.

E allora qual’e’ questo messaggio in una sola parola? E’ la SPERANZA. Di diventare se stessi, di essere liberi, di superare il dolore, di crescere e realizzare qualcuno dei sogni che hanno nutrito l’infanzia. Ma non da soli. Tutto il racconto e’ basato sulle relazioni fra i vari personaggi, il tessuto e’ fatto di amicizia e di amore, non ci sono azioni soliste ma sempre corali o almeno duali. L’Autrice sembra voler sottolineare che nessuno si salva da solo. Tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci faccia scoprire la nostra parte migliore e ci faccia superare le paure o i momenti difficili.

RIFLESSIONI INTORNO AI DISTURBI ALIMENTARI E NON SOLO

di Nadia Delsedime e Michela Marzano

Queste riflessioni in forma di dialogo fra la dr. ssa Nadia Delsedime (in seguito N.D.), medico psichiatra esperta in DCA, e la Prof.ssa Michela Marzano (in seguito M.M.), nota autrice di saggi e docente di Filosofia Morale all’Università R. Descartes di Parigi, vogliono sfiorare temi nucleari riguardanti la genesi, lo sviluppo e il mantenimento dei Disturbi Alimentari (DA). Il corpo, il femminile, l’età evolutiva e i suoi disagi; sono riflessioni che intendono aprire al desiderio di approfondire, sono accenni che intendono stimolare un dibattito e un pensiero, una conoscenza sul tema. Dietro al fenomeno dei DA sta un mondo complesso che non può essere ignorato né tantomeno esaurito nel sintomo e nella cura dello stesso; un mondo fatto di relazioni, emozioni, interiorità e rapporti con la società contemporanea.

IL CORPO COME LINGUAGGIO

N.D. Le malattie del corpo – dai disturbi psicosomatici ai disturbi del comportamento alimentare – sono, in tutte le età della vita, un vero e proprio linguaggio, atto a esprimere emozioni, sentimenti, bisogni, richieste. Il corpo ha un suo linguaggio e si fa linguaggio, che richiede di venire ascoltato. “Noi siamo un colloquio” per citare Eugenio Borgna che a sua volta cita un verso di Hoelderlin.

Nell’ambito delle funzioni di cura pertanto, l’ASCOLTO diventa strumento fondamentale, se inserito all’interno di una relazione, non solo terapeutica, ma primariamente fra individui.

La CURA intesa come terapia è fondata sull’ATTENZIONE. Attenzione nel senso di vedere, ascoltare, comprendere utilizzando i sensi, l’empatia, il linguaggio non verbale (del corpo, ancora una volta).

“Curare una malattia” quindi non dovrebbe essere solo l’atto di estirpare uno o più sintomi, riparare un guasto, e di conseguenza soffocare un linguaggio, bensì dovrebbe sottintendere un “prendersi cura” a tutto tondo dell’individuo che presenta quei particolari sintomi, che hanno un significato e comprenderne tale significato.

M.M. Mi piace molto la frase in cui Borgna riprende Hoelderlin e scrive: “Noi siamo un colloquio”. Non solo perché è bella ed evocativa, ma anche e soprattutto perché permette di capire come mai, a un certo punto della vita, può accadere che il corpo diventi “sintomo”. Quando il colloquio con noi stessi si interrompe, il corpo trova il modo di dire ciò che le parole non riescono più a nominare. È per questo che anch’io sono convinta che l’ascolto sia la chiave di volta quando si vuole aiutare una persona che soffre di disturbi alimentari. È d’altronde proprio l’ascolto, nel senso lato del termine – essere visti, essere percepiti, essere riconosciuti – che, a un certo punto, è venuto meno: non si è stati né visti né ascoltati per ciò che si è; si è stati cancellati da un‘immagine ideale e idealizzata alla quale si è cercato poi disperatamente di corrispondere.

Il problema è che, a forza di cercare di conformarsi a ciò che è “altro” da sé, prima o poi si arriva a quello che a me piace definire il “punto di rottura”; il sintono, in fondo, non è altro che un modo per dire “basta”, soprattutto quando mancano le parole per dirlo in altro modo.

Da questo punto di vista, “guarire” non significa tanto smettere di focalizzarsi sul cibo – che probabilmente resterà per sempre un punto di fragilità, ciò cui si ricorre quando si è stanchi, stressati, malinconici, delusi o nuovamente prigionieri dello sguardo altrui – ma imparare ad ascoltarsi: mettersi su “pausa”; darsi tempo e pazienza; accettare che il presente possa a volte arrotolarsi su stesso, addirittura riavvolgersi e ripiegarsi sul passato, prima di ripartire. Anche perché non c’è nulla da riparare.

Ogni persona ha le proprie fratture e le proprie fragilità. E, spesso, sono proprio queste fratture che ci permettono di essere le persone uniche che siamo, senza che qualcuno cerchi di cancellarle e di normalizzarci.

IL CORPO COME SIMBOLO DEL FEMMINILE

N.D. Da sempre la donna viene vista e giudicata attraverso il suo corpo, il vestito di carne che indossa. Il corpo diventa oggetto, feticcio, “pezzo d’arte” da ammirare o denigrare, diventa biglietto da visita per molte donne, che sono le prime a essere inflessibili verso il proprio corpo. Lo tiranneggiano. Lo maltrattano. Lo modificano. Lo costruiscono. Alla ricerca di una perfezione impossibile.

La maggior parte delle ragazze e donne è insoddisfatta del proprio corpo, lo vorrebbe diverso, ne cambierebbe alcune parti. Molte arrivano a vergognarsene. Ed ecco nascere concetti quali il body shaming, non solo legato al fat shaming (vergogna del grasso corporeo), ma in senso lato vergogna per come si è, per ciò che si è.

Il corpo come rappresentazione del Femminile diventa quindi anche IDENTITÀ. Modo per trovare una sicurezza, fonte di autostima. Il controllo sul corpo diventa imprescindibile per placare ansia e senso di vuoto o per curare una forma depressiva. Modellare il corpo (attraverso una dieta, l’attività fisica, gli interventi estetici) diventa quindi forma di autocura. Che non significa però sapersi prendere cura…

Questo di fatto è il nucleo centrale di molti Disturbi Alimentari.

M.M. Il corpo è “tangibile”, nel senso che è l’oggetto su cui, immediatamente, si può leggere la propria capacità o incapacità di controllo. Al di là dell’estetica, io credo che l’attenzione ossessiva al corpo sia la conseguenza inevitabile di quel controllo eccessivo che si cerca di esercitare su se stessi. Un po’ come quando si decide di mettere ordine in casa, di fare le pulizie, di “prendersi cura” dello spazio nel quale si vive, spesso nel tentativo di riprendere una qualche forma di controllo su di sé.

Per certi aspetti, tutto dipende dalla “misura”: “where to draw the line”, come si dice in inglese. Ossia dalla modalità che si riesce a trovare per evitare che la cura di sé smetta di essere “cura” e diventi un ennesimo volto dell’ossessione.

Se dico questo, è perché sono stanca di sentir ripetere sui social o in televisione che i DA sarebbero la semplice conseguenza di un modello ideale di corpo, e che quindi è sulle immagini del corpo che ci si dovrebbe concentrare. La questione dei DA è ben più profonda, viene da lontano, e spesso non ha nulla a che vedere con la bellezza o l’estetica.

Certo, l’anoressia si manifesta in persone che cercano la “perfezione”, ma è una perfezione in senso lato. Si tratta di persone che cercano di andare al di là dei propri limiti. Che cercano di perfezionarsi e che, se non ci riescono, si sentono in colpa. La chiave per capire cosa c’è dietro i DA è quel senso di colpa onnipresente, quel non sentirsi mai “abbastanza”. Abbastanza bella o abbastanza buona. Abbastanza intelligente o abbastanza sensibile. Abbastanza forte o abbastanza amata.

DISTURBI ALIMENTARI ED ETA’ EVOLUTIVA

N.D. I Disturbi Alimentari nell’infanzia e nell’adolescenza sono in rapida espansione, soprattutto in questi tempi critici legati alla pandemia. L’età d’esordio è scesa a 8-9 anni. Di pari passo con il diffondersi dell’utilizzo delle nuove tecnologie e dei social network a fasce di età sempre più basse, aumenta il pericolo di accesso a siti “pro ANA” e “pro MIA”, o di confronto con coetanee/coetanei o di challanges riguardanti il corpo. Il bullismo sui social o il solo diffondersi di commenti denigratori, è una ferita che può colpire gravemente l’autostima in formazione.

Ma il malessere, il disagio psicologico, i sintomi alimentari o l’autolesionismo, sono anche fasi di passaggio, prove di iniziazione, crisi che sono anche possibilità di crescita e di costruzione di una identità propria. Sono forme di ribellione. Forme di autonomia. Quindi non sempre la “malattia” è da demonizzare. Di nuovo è una forma di linguaggio, che SIGNIFICA QUALCOSA E CHIEDE QUALCOSA. La sfida per genitori, familiari, insegnanti, medici e psicologici, adulti in generale, è saper o voler ascoltare quella richiesta…

M.M. Ogni sintomo, in quanto tale, non ha lo stesso significato per chiunque. Il sintomo può essere lo stesso, ma spesso la storia che ci si porta dentro è diversa. È sempre all’interno di un contesto, d’altronde, che un sintomo assume un significato specifico e unico.

Ciò detto, è vero anche che il sintomo è sempre un segnale, ossia un modo per dire ciò che non si riesce a significare o nominare altrimenti. È per questo che talvolta può anche essere positivo che un sintomo si manifesti precocemente: se un sintomo si manifesta presto, c’è la possibilità, per la famiglia, di interrogarsi sulle dinamiche disfunzionali che hanno portato una figlia o un figlio ad ammalarsi. Il sintomo può allora essere l’occasione, per i genitori, di riflettere non solo sul proprio modo di relazionarsi ai figli, ma pure sulla propria vita di coppia. E magari per fare lo sforzo di modificare qualcosa.

Spesso, la “malattia” non è in chi presenta un sintomo: il sintomo è talvolta solo la punta dell’iceberg di una malattia che è altrove, nel rapporto tra i genitori, nell’ansia di una madre, nei deliri di onnipotenza di un padre, nelle assenze di uno dei due genitori o nella loro presenza invasiva.

Ecco perché, ancora una volta, si torna all’importanza dell’ascolto. E alla capacità che un terapeuta ha (o meno) di decifrare la richiesta esatta che un bambino o una bambina stanno cercando di formulare attraverso i DA.

CONCLUSIONI

In conclusione, ciò che emerge da questo scambio di battute è l’importanza dell’ascolto del sintomo, sintomo in quanto discorso simbolico, in quanto rappresentazione profonda di un disagio o di una fragilità, o anche di una denuncia di qualche ferita subita nel passato.

Il sintomo alimentare significa molte cose diverse e la “cura” quindi non può essere che l’accogliere e il farsi carico di questi significati. Non è solo questione di peso o di corpo inteso come immagine estetica, di insoddisfazione rispetto a canoni imposti da una società in continua trasformazione, di inquietudine adolescenziale…questa è la facciata esterna, l’interpretazione più semplice e forse anche la cosa più visibile e che spaventa di più i familiari di chi da un DA è colpito. La paura della morte, di veder sparire sotto il proprio sguardo un figlio o una figlia, il senso di impotenza e frustrazione che affligge non solo i familiari ma talvolta anche i terapeuti che cercano di “combattere contro” questa malattia, talvolta scordandosi di allearsi con il/la paziente, è uno dei problemi maggiori da affrontare perché impedisce di ascoltare con lucidità la domanda che sta dietro il sintomo. Certamente il sintomo quando mette a rischio la vita va ridimensionato, ne va ridotta la carica esplosiva, ci si deve occupare del corpo da un punto di vista medico, il peso va messo in sicurezza, ma il dialogo e l’ascolto devono essere presenti sempre attraverso ciascuna di queste fasi, allo scopo di creare una vera alleanza terapeutica con il/la paziente e non lasciarlo solo/a nella lotta contro se stesso/a.

Citando Delphine De Vigan dal libro “Giorni senza fame”, il/la paziente deve capire che “non è più sola a combattere contro se stessa”. In questa battaglia condivisa alla fine la cosa importante è affrontare il senso di colpa pervasivo che contraddistingue i DA, colpa di non essere mai abbastanza, per se stessi e per gli altri. La cosa importante è ACCETTARE E ACCETTARSI. O meglio accettarsi attraverso l’essere accettati.

Chiudo citando il finale del libro di Michela Marzano “Volevo essere una farfalla”: “Forse l’unica cosa che ho veramente capito è che nella vita non si può fare altro che accettarsi. Ed essere indulgenti. E perdonarsi.”

Recensione del libro Giorni senza Fame (di Delphine De Vigan)

Una recensione a cura di Nadia Delsedime

Questo romanzo autobiografico parla di malattia (Anoressia Nervosa), ma soprattutto parla di Cura. Parla di un percorso di vita e di crescita, di un percorso di guarigione, attraverso tutte le sue ardue fasi: la negazione, la consapevolezza di avere un problema, la ricerca di un aiuto, l’ambivalenza verso questo aiuto, la ribellione e la rabbia e infine l’affidarsi a quell’aiuto, a mani altrui. L’affidarsi che è già un passo concreto verso la guarigione.

Il libro si apre con la descrizione della Malattia: “era qualcosa al di fuori di lei cui non sapeva dare un nome. Una forza silenziosa che l’accecava e guidava le sue giornate. Una forma di stordimento, di distruzione.” Una malattia connotata da aspetti anche positivi (onnipotenza, leggerezza, efficienza), ma soprattutto negativi (la paura negli occhi della gente, le cadute a terra, l’insonnia per la fame, e soprattutto il freddo, profondo, pervasivo). Sono i sintomi fisici a spingere la protagonista, Laure, a cercare un aiuto: “un freddo che diceva che era giunta al capolinea e che doveva scegliere fra la vita e la morte”.

Viene il ricovero ospedaliero (in un ospedale parigino); la prima reazione è un pianto di sollievo: “il confuso sollievo che prova nell’abbandonarsi a mani altrui”, nel mollare il controllo, nel sentirsi riscaldata dall’esterno, nel concedersi una speranza di vita. “Capisce che non è più sola a combattere contro se stessa”. Ecco un primo e nucleare significato della Cura…non essere più soli contro la malattia.

Davanti alla consapevolezza della morte, Laure si rassegna a prendere qualche chilo, però non a perdere il controllo. Non vuole morire ma vuole tirare avanti INSIEME alla sua malattia. Perché? “Non vuole guarire perché non sa come esistere se non attraverso quella malattia, una malattia che l’ha scelta…”. Quindi malattia come identità e come unica possibilità. Una malattia di cui parlano i media e che la rende parte di una comunità di persone “complici di un crimine silenzioso contro se stesse”. Una malattia che isola ma che non fa sentire soli.

Una malattia che è anche una vendetta nei confronti dei genitori, una vendetta e una richiesta estrema di essere vista, anche se in questo caso non sarebbe servito a nulla. Distruggersi a volte non serve a cambiare le cose. Non serve a cambiare gli altri. 

Così come “non c’è bisogno di morire per rinascere”…con questa frase mantra, il medico getta un seme di speranza e di desiderio di cambiamento in Laure. Se l’anoressia è ricerca di identità, forma di distruzione e annullamento, forma di vendetta, paura di vivere, è però anche un desiderio di purificazione e rinascita, di miglioramento. Rinascere dalle proprie ceneri come l’araba fenice. Rinascere più forti. Con le ali per volare. E mentre Laure lotta contro se stessa per riprendere un po’ di peso, “il ricordo dell’ebbrezza del digiuno è ancora vivo”, una sirena che la chiama dal passato, una sirena contro cui bisogna lottare minuto dopo minuto, nel timore di perdere il controllo. In un momento di crisi profonda poi si vede il medico che le racconta una favola, la favola della bambina che mangia la carta, e quella favola smuove qualcosa nel profondo.

Interessante è il racconto della genesi della malattia da parte della protagonista, una genesi che solo poco ha a che fare con il desiderio di “attenuare le rotondità dell’adolescenza”; in realtà inizia con la sensazione di disgusto che le fa eliminare poco a poco molti cibi. “Si sentiva sempre meglio, più leggera, più pura…Doveva affamarsi ogni giorno di più per ritrovare quel senso di onnipotenza, innescando un circolo vizioso simile alla tossicomania”. Questo è il percorso classico che si innesca e si auto-mantiene, una vera e propria dipendenza, e la droga è il digiuno.

“Non voleva morire, voleva solo scomparire. Cancellarsi. Dissolversi”. Chi soffre di una grave forma di anoressia non vuole morire, anzi vuole vivere meglio, in modo più coerente con i propri sentimenti. Tenere meno posto possibile. Diventare invisibile per essere vista di più e meglio.

Nel percorso di cura ci si confronta sempre con molte paure. Paura di tornare indietro e di non poter più tornare indietro, di uscirne e di non uscirne. Ambivalenza si chiama in gergo…volere due cose al tempo stesso. Ma come spesso accade nella vita, non si può. Bisogna scegliere, rinunciare a qualcosa e andare avanti. Con la paura di lasciare alle spalle ciò che si conosce bene, e di affrontare ciò che non si conosce. Compreso un corpo nuovo. Di affrontare un risveglio anche delle emozioni e dei sentimenti, prima congelati, il desiderio di relazione, la paura di essere feriti. “Senza la sua armatura di ghiaccio è molto più fragile.”

La terapia non è solo un affidarsi passivo e senza ripensamenti, ci sono le ricadute, le resistenze, i segreti, ciò che si fa di nascosto per boicottare tutto. Ci sono i momenti di sfiducia, i contrasti con i medici, la rabbia. Anche in ambito ospedaliero si può trovare il modo di “fregare”, di fregarsi in realtà. Il rapporto con i terapeuti è fatto di momenti di odio e altri di amore, come ogni rapporto. Però quando ci si affida e si decide di svelarsi a qualcuno, quando ci si apre e quando si viene visti da quel qualcuno, quando ci si sente ascoltati davvero, scatta una sorta di amore, o comunque lo si voglia chiamare. Il rapporto terapeutico riuscito si sintetizza in una frase bellissima: “Laure lo ama per l’impegno con cui lotta insieme a lei, contro di lei”.

Ma accanto al rapporto terapeutico con i curanti, si intrecciano anche i rapporti con i co-degenti, con i compagni di viaggio e di malattia. Ognuno combatte la sua guerra, ma ci si sta vicini nei momenti di crisi. Si condivide una sofferenza, c’è comprensione, una empatia che spesso con le persone “sane” non esiste.      

Raccontarsi. La terapia si dipana attraverso un racconto, del presente, della malattia e del passato, dei perché; perché si è arrivati a questo punto, perché ci si è ammalati, perché proprio di questa malattia. Spuntano genitori inadeguati se non francamente patologici, racconti di abusi e violenze, di abbandoni. O anche solo di stanchezza. Stanchezza di essere perfette, bambine ubbidienti.. “Lo sguardo dei suoi genitori, il desiderio di compiacerli, quella ricerca di affermazione, di perfezione, che aveva fatto sua, non le lasciavano più spazio per esistere. All’inizio voleva solo dimagrire un po’ per sottrarsi a quell’influenza, poi un giorno aveva sentito il desiderio di sparire”.

“Vivere è uno sforzo immenso”. Le stesse parole della madre. Le stesse parole di chi è stanco di vivere, o di chi ha paura di tornare a vivere. Anche se è la fame di vita all’origine della malattia, “quell’appetito smisurato che non riusciva a contenere, quella voragine insaziabile che la rendeva così vulnerabile. Era come un’enorme bocca avida, pronta a inghiottire tutto, voleva una vita intensa, voleva essere amata da morire, voleva riempire la cicatrice della sua infanzia, il vuoto mai colmato che si portava dentro”. Fame di vita e paura di vivere; di nuovo lotta fra due opposti. Ambivalenza.

Guarire spesso significa arrendersi. Affidarsi. Lasciarsi curare senza troppo opporsi. Prendere peso. “Tradire una causa oscura e necessaria”. Pensare di meritarsi di guarire. Soprattutto questo. Meritarsi di stare meglio. Vincere la paura di guarire. Questa è la grande differenza rispetto ad ogni altra malattia…nell’anoressia c’è questa dannata paura. “Si aggrappa alla malattia come alla sua unica maniera di esistere. Non ha altra identità….Se guarirà si cancellerà agli occhi del mondo. Si confonderà fra la gente. Soffocherà dentro di lei quel grido rauco che giunge dall’infanzia…”

Malattia come identità, come vendetta, come modo per essere notati e sparire al tempo stesso. Paura di essere “normali” e silenziosi. Senza voce. Mentre la malattia è un grido acuto. È una denuncia.

Solo quando si farà pace col dolore del passato si sarà pronti ad andare oltre. A guarire. A sembrare normali. Con le proprie ferite ma aperti al futuro. Vivi. Caldi. Fragili.

Te lo dico con il CORPO

L’adolescenza rappresenta un periodo di transizione e sviluppo nel corso del quale avvengono importanti cambiamenti. Questi, se vissuti in modo inadeguato, possono portare ad acquisire comportamenti alimentari scorretti.

Gli adolescenti per comunicare in modo non verbale il loro disagio fisico, manifestano disturbi del comportamento alimentare. Tale atteggiamento, nasconde in realtà un disturbo più profondo.

I loro comportamenti possono essere caratterizzati da rituali ossessivi nelle fasi precedenti e concomitanti al pasto. E’ possibile osservare regimi alimentari restrittivi ed eccessiva attività fisica e/o abbuffate che possono portare a condotte eliminatorie.

FATTORI DI RISCHIO

Questi tipi di comportamenti possono essere caratterizzati da vissuti di solitudine e distanziamento sia dal gruppo dei coetanei che dal nucleo familiare.

Durante il periodo adolescenziale, il rapporto con i genitori si complica: i ragazzi mettono in atto una sorta di conflittualità con le figure di riferimento rivendicando una maggiore indipendenza e autonomia.

Talvolta anche la mancata elaborazione di situazioni quotidiane come divorzi, separazioni o lutti può portare con se un dolore che si manifesta attraverso un disturbo alimentare.

Inoltre, nella società odierna, i Mass Media giocano un ruolo fondamentale per gli adolescenti. I ragazzi vengono costantemente bombardati da ideali di bellezza e modelli perfetti ai quali fare riferimento, sperimentando così un senso di inadeguatezza non avendo sviluppato una solida e definita identità.

Un altro fattore di rischio può essere rappresentato da situazioni di bullismo che l’adolescente può vivere in ogni contesto quotidiano.

Il cibo rimane così l’unico pensiero costante, assumendo dunque un ruolo predominante. Questa rigidità, crea un’apparente sicurezza che porta l’adolescente a mettere in atto comportamenti ritualizzati e a mantenere abitudini disfunzionali. I ragazzi, così, non identificandosi più con il proprio corpo, tendono a tenerlo sotto controllo attraverso il disturbo alimentare.

COSA PROPONE IL CENTRO

Il Centro di Psicoterapia e Formazione FIDA offre percorsi di psicoterapia individuale per gli adolescenti e un supporto alla genitorialità, personalizzati in base alla situazione contingente. L’accompagnamento psicologico può essere, inoltre, affiancato da consulti medici e nutrizionali, gestiti da dietisti e nutrizionisti, al fine di offire un approccio integrato.

Te lo dico con il CIBO

Le stime pediatriche rilevano un incremento di difficoltà alimentari già in età evolutiva. Questo dato fa emergere interrogativi importanti sull’insorgenza di tali problematiche e sulla necessità di interventi precoci.

IL CORPO COME MEZZO DI COMUNICAZIONE

Sia il corpo che la mente sono coinvolti nei disturbi del comportamento alimentare. Il primo si fa portavoce delle difficoltà emotive, il secondo ha caratteristiche più nascoste e complesse.

In età evolutiva, il corpo diviene lo strumento attraverso cui si esprimono le difficoltà che non si riescono a comunicare in altro modo. Risulta dunque fondamentale riuscire a comprendere le emozioni e slegare il cibo da quelle situazioni disfunzionali che potrebbero poi condurre allo sviluppo di un distrubo del coportamento alimentare.

FATTORI DI RISCHIO

Spesso i bambini mostrano difficoltà a tollerare i cambiamenti che incontrano durante il percorso di crescita. Separazioni, lutti, trasferimenti, possono essere infatti vissuti come eventi critici capaci di andare ad influenzare le loro abitudini alimentari.

Anche i contesti scolastici e sociali hanno un ruolo di grande rilevanza, in quanto vi è la possibilità di avere un confronto con i coetanei e gli adulti. Le dinamiche che emergono da tali confronti, se scorrette, possono portare i bambini a sperimentare vissuti di inadeguatezza, da loro poi espressi attraverso una condotta alimentare scorretta. Si tratta quindi di una condizione in cui il cibo costituisce l’unico strumento con cui poter entrare in relazione con l’adulto.

Quando il cibo e le situazioni ad esso collegate rappresentano una difficoltà, i genitori possono provare vissuti di ansia, impotenza e sensi di colpa che inconsapevolmente trasmettono al figlio rendendo così quei momenti e quelle situazioni difficili da gestire.

CONSEGUENZE

Le problematiche legate al cibo possono portare ad un vero e proprio blocco evolutivo e a percepire la quotidianità come opprimente e pesante da sostenere. Risulta dunque fondamentale per i genitori imparare a cogliere i diversi segnali, di modo da poter individuare i fattori capaci di incidere così profondamente sull’emotività e sulla sensibilità del proprio bambino. Partendo da questo presupposto è poi possibile intervenire aiutando il piccolo a verbalizzare le proprie difficoltà, così da evitare che utilizzi il proprio corpo come strumento di comunicazione.

Il disordine alimentare, tipico di alcune fasi evolutive, può portare inoltre ad un quadro sindromico futuro più importante (anoressia, bulimia, obesità). Risulta, quindi, necessario il coinvolgimento di diverse figure professionali nel processo di diagnosi e di cura.

COSA PROPONE IL CENTRO

Il Centro di Psicoterapia e Formazione FIDA offre uno spazio di ascolto ai genitori e ai minori. Durante il colloquio con quest’ultimi verrà utilizzato il gioco come mezzo di comunicazione, facendone emergere la soggettività e la propria emotività. 

Ogni percorso di cura verrà valutato e impostato in base alle caratteristiche personali, da un approccio integrato tra curanti, persona e famiglia.

Progetto di Ricerca con l’Università di Psicologia di Torino

Il Centro CPF ha partecipato al progetto:
“IL RUOLO DELL’ATTACCAMENTO, DELLA DISSOCIAZIONE, DI TRATTI DI PERSONALITA’ ALESSITIMICI E DELLA VERGOGNA, IN UN CAMPIONE DI SOGGETTI AFFETTI DA DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE” 

Il Centro CPF-FIDA Torino, in collaborazione con la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Torino, ha partecipato ad un progetto di ricerca dal titolo “Il ruolo dell’attaccamento, della dissociazione, dei tratti di personalità alessitimici e della vergogna in un campione di soggetti affetti da disturbi del comportamento alimentare”. Tale progetto si è svolto nel periodo marzo 2012 – marzo 2013.
Scopo della ricerca è stato quello di indagare la presenza di caratteristiche alessitimiche e sintomi dissociativi, misurati attraverso la somministrazione dei test TAS-20 e DES-II, il profilo di attaccamento misurato con il test ASQ, l’esistenza della correlazione positiva tra stili di attaccamento insicuro e funzionamento mentale di tipo alessitimico e la correlazione positiva fra dissociazione e alessitimia.
La raccolta dati è avvenuta tramite la somministrazione dei test a pazienti affetti da DCA, nella sede del Centro FIDA-CPF di Torino (Federazione Italiana Disturbi Alimentari – Centro di Psicoterapia e Formazione) e nella Comunità Terapeutica “La Vela” di Moncrivello.
Riassumendo i risultati dello studio effettuato, i punteggi ottenuti al TAS-20 consentono di descrivere il campione come borderline per le caratteristiche alessitimiche; per quanto riguarda gli stili di attaccamento, i risultati dell’ASQ evidenziano come la maggioranza del campione presenti uno stile di attaccamento evitante (70%), mentre nei punteggi della DES-II ha ottenuto un punteggio significativo (superiore al cut-off) il 15% del campione.
Dai risultati delle analisi correlazionali, valutate attraverso il coefficiente di correlazione di Spearman, è emersa una correlazione positiva statisticamente significativa tra la dimensione alessitimica e il profilo di attaccamento insicuro, mentre non si è riscontrata alcuna correlazione significativa tra alessitimia e dissociazione.

Il trattamento della famiglia

Il trattamento dei familiari è un elemento centrale nella cura e nell’identificazione precoce del disturbo alimentare. Riuscire a riconoscere il sintomo, permette un intervento mirato e specifico per ogni persona coinvolta.

IL CENTRO CPF OFFRE:

  • interventi di sensibilizzazione volti ad aiutare i familiari nella comprensione dei segnali di disagio, che si manifestano attraverso il cibo e il corpo. Tali interventi sono pensati anche per genitori con bambini piccoli che, pur non muovendosi in quadri diagnostici già conclamati nell’ambito dei disturbi alimentari, presentano segnali particolari intorno al cibo;
  • interventi volti a sostenere, aiutare e motivare il soggetto nel proprio percorso di cura.

LE REAZIONI DEI FAMILIARI AL SINTOMO:

I familiari di una persona che soffre di disturbi del comportamento alimentare sono in genere disorientati e pervasi da sentimenti di rabbia, rifiuto ed impotenza che li possono portare a temere di “fare la cosa sbagliata” o ad avere reazioni che potrebbero originare ulteriori problematiche relazionali.
Angosciati dall’impotenza di fronte all’eccessiva perdita o aumento di peso del figlio/a, i genitori spesso oscillano tra l’immobilismo e l’eccessivo interventismo. Il pensiero intorno al “devo fare” diventa predominante, rinunciando quasi inconsapevolmente alla possibilità di pensare a quanto sta accadendo.

UNO DIVERSO SPAZIO DI ASCOLTO:

Nel Centro di Psicoterapia e Formazione abbiamo costruito uno spazio di ascolto separato da quello del figlio/a per sostenere i familiari nella gestione delle loro difficoltà, attraverso:

  • colloqui psicologici individuali e/o di coppia: in questo spazio i genitori avranno la possibilità di sperimentare uno spazio per pensare ed interrogarsi su quanto sta avvenendo in famiglia;
  • gruppi di sensibilizzazione volti al riconoscimento del problema: spesso nominare il sintomo fa paura e risulta difficile prendere atto della situazione. Iniziare a parlarne può essere il primo passo per sentirsi meno soli e meno angosciati;
  • gruppi psicoterapeutici volti alla comprensione delle dinamiche relazionali all’interno della famiglia: grazie alla psicoterapia, che vede coinvolti entrambi i genitori in uno spazio e con un terapeuta diversi da quelli che riguardano il proprio figlio/a, sarà possibile lavorare sulla storia familiare, sull’evoluzione del sintomo e sui sentimenti che coinvolgono la coppia: dalla rabbia al senso di colpa, dalla sofferenza profonda al dolore che annulla ogni altra possibilità di comunicazione).
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