Skip to main content

IL CIBO : “TEATRO” DI UNA PROTESTA INFANTILE

I Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) rappresentano una delle patologie più allarmanti per la loro rapida diffusione. Negli ultimi anni, si è riscontrato un abbassamento dell’età di esordio dei DCA, che iniziano a diffondersi in maniera consistente anche nella popolazione infantile.

Il numero crescente di bambini che presentano disordini alimentari, le fatiche lamentate dai genitori durante il momento dei pasti, gli episodi sempre più frequenti d’inappetenza e le stime pediatriche sul sovrappeso in età evolutiva, lasciano interrogativi importanti sull’insorgenza di tali problematiche e sulla necessità di interventi precoci che possano aiutare e sostenere le famiglie.
Segnali importanti per una diagnosi precoce sono tutti quei comportamenti relativi al modo in cui i bambini mangiano, spesso caratterizzato da lentezza, esclusione di alcuni alimenti, ingestione di molta acqua e sminuzzamento di cibo in pezzi piccolissimi.  Ulteriori pratiche possono consistere in un uso frequente del bagno soprattutto dopo i pasti, iperattività fisica ed eccessivo controllo del peso corporeo.
Il cambiamento psicologico che sopravviene, man mano che aumenta la perdita di peso, si esprime con sbalzi d’umore e con un’insofferenza ed un’irrequietezza che non facevano parte delle caratteristiche precedenti dei bambini.
Il sintomo è spesso una richiesta di aiuto verso gli adulti che si prendono cura di lui che tendono a sottovalutare elementi esterni e della quotidianità non direttamente riconducibili al cibo (ripresa del lavoro da parte della madre, divorzio dei genitori, impegni lavorativi, forme di isolamento sociale, problematiche scolastiche).
Il disordine alimentare tipico di alcune fasi evolutive può evolversi in un quadro sindromico più importante (anoressia, bulimia, obesità) in momenti di crescita differenti dall’infanzia e l’adolescenza.
Risulta importante che le famiglie possano rivolgersi ad un professionista che possa cogliere e dare una lettura dei primi segnali di disagio del bambino, così da poter creare un piano di intervento individuale e famigliare adeguato alla situazione.

 

CYBERBULLISMO: un pericolo solo virtuale?

Il confine tra un comportamento scherzoso ed uno percepito come offensivo non è sempre così netto.

Il cyberbullismo nasce su Internet, nel momento in cui un individuo si sente importunato, molestato o offeso. Viene messo in atto mediante l’uso dei media digitali e consiste nell’invio ripetuto di messaggi offensivi tramite sms, chat o Social Network, perseguitando una persona per un lungo periodo di tempo.

Raramente i giovani si rendono conto delle reali possibili conseguenze delle loro azioni nel momento in cui mettono in rete immagini od insulti mirati a danneggiare una persona.

 Il cyberbullismo è mobbing in Internet, infatti, per designarlo, si usano anche i termini cybermobbing e internet mobbing.

Gli autori, i cosiddetti «bulli» o il cosiddetto «branco», sono spesso persone conosciute a scuola, nel quartiere o in altri contesti frequentati dalla vittima.

A tal proposito il Ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, al Senato, ha presentato le “Linee di orientamento per azioni di prevenzione e di contrasto al bullismo e al cyberbullismo”. Anche se apparentemente i due fenomeni sembrano equiparabili, in realtà hanno caratteristiche molto diverse:

Il bullismo solitamente si verifica in ambito più circoscritto (generalmente a scuola), con persone conosciute, con le quali la vittima interagisce faccia a faccia. In questi casi, inoltre, sono spesso presenti spettatori, ma in numero limitato.
Il cyberbullismo invece avviene in maniera anonima, la rete e lo schermo di un pc o di un cellulare garantiscono il giusto distacco emotivo dalla vittima e riduce il senso di colpa, con una possibilità di diffusione massima, in cui il numero di spettatori aumenta in modo esponenziale in brevissimo tempo. I cyberbulli hanno solitamente una età compresa tra i 10 e i 16 anni, quasi sempre hanno un carattere impulsivo e difficilmente riescono a tollerare le frustrazioni, tendendo a sottovalutare la gravità delle azioni commesse.

Le vittime sono bambini e ragazzi con una bassa autostima, particolarmente timidi o fragili e spesso derisi per il loro aspetto fisico. Le conseguenze psicologiche e psicosomatiche che il bullismo informatico ha sulle vittime sono molto gravi: dalla perdita di capelli ad attacchi di panico, da disturbi alimentari fino a pensieri suicidi.
La vergogna che questi ragazzi provano li porta spesso a nascondere quello che accade, rendendo il cyberbullismo un fenomeno sommerso. Una maggiore attenzione a queste problematiche da parte degli insegnanti e dei genitori sarebbe non solo auspicabile ma necessaria. Bisognerebbe aumentare il controllo nei momenti meno strutturati (ricreazione, cambio dell’ora, tempo libero…), diffondere consapevolezza, aggiornare anche le proprie competenze tecnologiche, informarsi ed informare le famiglie delle vittime e dei carnefici.

I giovani possono prevenire comportamenti di cyberbullismo trattando i dati sui propri profili online in modo attento, ad esempio evitando di postare dati sensibili (come il proprio numero di cellulare o indirizzo) o foto imbarazzanti o troppo “osè”.

Chi si trova ad essere vittima di cyberbullismo dovrebbe rivolgersi, senza vergogna, ad un adulto di fiducia (genitore, psicologo scolastico, insegnante…) che possa aiutarlo a non lasciarsi sopraffare dalla paura e dalle difficoltà che questi atteggiamenti persecutori vogliono provocare.

Il bullismo, in qualsiasi forma si esprima, va considerato per quello che in fin dei conti è: una manifestazione da parte dei ragazzi di profonda insicurezza e di profondo disagio.

Le manie del cibo e della dieta

Negli ultimi anni siamo stati testimoni di una crescente attenzione verso la selezione dei cibi sulle nostre tavole. Il metodo di produzione, di trasporto e di diffusione sono diventati argomenti di quotidiano dibattito e sinonimi di qualità, accertata tramite marchi di garanzia, controlli e certificati di ogni tipo.
Tutto questo, soprattutto nei paesi ad alto tasso di modernizzazione, ha portato ad una preoccupazione eccessiva nei confronti della nostra alimentazione, preoccupazione che talvolta assume il carattere di ossessione, in controtendenza rispetto ai dati scientifici sul tema. Le ricerche evidenziano, infatti, la presenza di intolleranze alimentari vere e proprie solo in una percentuale molto bassa della popolazione.
Rawvegana, fruttariana, gluten-free, no carb, smoothista, jainista, localivora, crudista. Non sono nomi di sette o nuove religioni, ma quasi. Queste sono solo alcune delle miriadi di diete che stanno condizionando il rapporto con il cibo dell’intera società industrializzata, il cui vero problema è, a differenza di qualche decennio fa, l’abbondanza. Abbondanza che ha portato ad un’improvvisa iperselettività degli alimenti e allo sviluppo di vere e proprie “manie” e timori legati al cibo, che possono portare le persone ad adottare regimi alimentari non equilibrati e, di conseguenza, carenti dal punto di vista nutrizionale.
Queste abitudini, inoltre, possono esitare nel rifiuto del cibo come piacere e della convivialità che deriva dallo stare seduti, insieme, attorno ad una tavola, condividendo momenti ed emozioni. Mangiare, infatti, è più di nutrirsi, in quanto rappresenta soprattutto un modo per stabilire una relazione con se stessi e con gli altri.
Nella svariata quantità e qualità di scelte alimentari quotidianamente a disposizione dell’individuo, quindi, il comportamento nocivo non è rappresentato tanto dal rifiuto di un particolare cibo, quanto dalla paura irrazionale che quel cibo possa nuocerci, rimandando la scelta alla ricerca di un cibo “perfettamente sano”.
È importante, piuttosto, variare nella scelta e nel consumo degli alimenti, seguendo le nostre esigenze, ma anche i nostri gusti, allontanando così i sensi di colpa.
Ciò non significa che dobbiamo mangiare tutto indistintamente, ma che una buona educazione alimentare può aiutare a diventare consumatori consapevoli e individui capaci di prendersi cura di sé, delle proprie relazioni e della propria salute in modo autonomo.

L’Obesità e l’industria della dieta

Fenomeno globale

L’obesità è quella condizione data da uno squilibrio energetico per cui l’assunzione di energia supera, per un periodo di tempo considerevole, il dispendio energetico. Si tratta di un disturbo che raggiunto proporzioni allarmanti in tutte le società a capitalismo avanzato. Di fatti, “Globesità” è il termine coniato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, per sottolineare l’estensione e la drammaticità del fenomeno. L’obesità non ha confini di età, sesso, razza o religione e si inserisce in una società dove il consumo di oggetti sembra dover illusoriamente riempire tutti i vuoti e le mancanze.

La situazione in Italia e in Europa

In Italia il 35,17% degli adulti risulta in sovrappeso e l’11% risulta obeso. Per quanto riguarla la popolazione tra i 3-17 anni è stato riscontrato come il 25,2% di essi sia in eccesso di peso. Nei paesi dell’Ue, in media, è obeso quasi un bambino su otto tra i 7 e gli 8 anni. (Dati ISTAT relativi al biennio 2017-2018).

Caratteristiche del disturbo

Le cause dell’obesità possono essere multifattoriali: biologiche, psicologiche, familiari e culturali. La storia naturale dell’obesità è spesso caratterizzata da un aumento di peso progressivo, un anno dopo l’altro. Gli stili alimentari delle persone obese sono molto variabili da un individuo all’altro e anche da una fase ad un’altra della vita. Nell’obesità, così come nell’anoressia è il corpo che si rende visibile allo sguardo, perché mette in evidenza una disfunzione, un qualcosa che non va, sia per difetto che per eccessoIl ricorso alle diete tende a spezzare il processo e a produrre diminuzioni di peso quasi sempre temporanee, seguite da incrementi che oltrepassano anche il peso che precedeva la dieta.
Questa è diventata la “sindrome dello yo-yo” che, sul piano psicologico, porta frustrazione, senso di incapacità e vissuti depressivi. Alcuni autori la definiscono la “sindrome della falsa speranza”; una sorta di coazione a ripetere, che porta la persona obesa a continuare a tentare la stessa operazione che ha già fallito più volte, senza cambiamenti sostanziali né di metodo, né di posizione soggettiva e quindi, senza che nulla renda meno impossibile il fallimento.

Obesità, Binge Eating Disorder e Iperfagia

Esiste una forte associazione tra obesità e il Binge Eating disorde. Di fatti sembra che l’obesità si possa declinare sul versante dell’alimentazione incontrollata o su quello iperfagico, e vicevesa. Nell’alimentazione incontrollata abbiamo la perdita di controllo, i continui fallimenti di diete, la sensazione di perdita di padronanza, mentre nel versante iperfagico non c’è la perdita di controllo ma un mangiare continuo, anche in assenza di fame.
Milioni di persone cercano trattamenti per l’obesità e la maggior parte dei soggetti obesi lotta invano per perdere peso e si biasima per gli insuccessi.

Multisciplinarità del trattamento

Purtroppo, solo recentemente, si sta individuando come modalità di cura la necessità di trattamento multidisciplinare che possa effettuare una presa in carico della persona nella sua individualità e globalità, in modo da aiutare la persona a cambiare la sua posizione soggettiva rispetto al cibo e al peso.

Campagna di sensibilizzazione e prevenzione dell’obesità: “Togliti un peso, fatti aiutare”

Il Centro CPF-FIDA offre, in occasione della campagna di sensibilizzazione e prevenzione del sovrappeso e dell’obesità, per tutto il mese di Ottobre 2015 l’opportunità di organizzare delle conferenze nelle scuole di ogni ordine e grado, rivolte ad insegnanti, alunni e genitori, per informare sui temi legati a tali problematiche.

L’obesità è una patologia complessa, multifattoriale e in continua espansione, che colpisce il 20% della popolazione giovanile.

Le persone in sovrappeso o obese, sono le più colpite da discriminazioni, pregiudizi e stereotipi in quanto è credenza diffusa che il comportamento alimentare sia totalmente sotto il nostro controllo e che, di conseguenza, se si è grassi sia colpa nostra.

Per i dettagli dell’iniziativa è possibile prendere contatto con la nostra sede:

Torino – CENTRO CPF – 011.7719091 – torino@fidadisturbialimentari.it
Via Felice Cordero di Pamparato, 6 – 10143 – Torino

IL TRATTAMENTO DEI DISTURBI ALIMENTARI IN CONTESTI ISTITUZIONALI

Giovedì 11 Giugno, presso il Circolo dei Lettori a Torino, è stato presentato il libro “IL TRATTAMENTO DEI DISTURBI ALIMENTARI IN CONTESTI ISTITUZIONALI” scritto dalla Dott.ssa Laura Ciccolini, Psicologa Psicoterapeuta, Responsabile del Centro CPF-FIDA Torino e Presidente di FIDA Nazionale, e dal Dott. Domenico Cosenza, Psicoterapeuta Psicoanalista, Presidente SLP, Responsabile di KLINÈ – FIDA Milano, Vicepresidente FIDA.

"Il trattamento dei disturbi alimentari in contesti istituzionali"
Gli autori del libro: il Dottor Domenico Cosenza e la Dottoressa Laura Ciccolini

 

Il libro è scaturito dall’esperienza professionale degli autori durante i 15 anni di vita della Comunità Terapeutica “La Vela”.

Nel corso della serata hanno partecipato alla discussione, insieme agli autori:

  • Metello Corulli – Psicologo Psicoterapeuta, Presidente della comunità terapeutica Il Porto Onlus di Moncalieri (TO);
  • Nadia Delsedime – Dirigente medico di Psichiatria, Responsabile reparto DCA presso A.O.U. Città della salute e della scienza di Torino;
  • Giorgio Nespoli – Psicoterapeuta e Docente della Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Torino;
  • Rosa Revellino – Giornalista, Direttore editoriale FNOMCeO.

Durante la serata si è discusso delle problematiche del trattamento di pazienti con DCA all’interno delle comunità, dell’importanza del lavoro sinergico dell’equipe multidisciplinare e della nuova proposta di legge, promossa dalla deputata Moretto, riguardo il Trattamento Sanitario Obbligatorio come possibile modalità di intervento su pazienti affetti da DCA.

La dipendenza da cibo

“La dipendenza da cibo”,  Articolo della Dott.ssa Ciccolini 

Quando si parla di patologie da dipendenza spesso facciamo riferimento alle droghe, all’alcool, al gioco d’azzardo, allo shopping, al sesso, ad internet e, con difficoltà, riconosciamo l’esistenza di una forma di DIPENDENZA DA CIBO.
In qualche modo siamo tutti dipendenti dal cibo senza il quale smetteremmo di vivere. Esistono, però, dei modi di assunzione che deviano dal compito principale della nutrizione.
Il cibo, in alcuni soggetti, determina una dipendenza, cioè la tendenza a ripeterne l’utilizzo e a non poterne fare a meno.
I dati scientifici, sia dal punto di vista comportamentale che neurobiologico, supportano la tesi che il cibo possa indurre nelle persone una condizione simile alle altre dipendenze. Le caratteristiche che connotano alcuni tipi di comportamento alimentare ricalcano infatti quelle tipiche di chi abusa di altre sostanze.
Se inizialmente le motivazioni che spingono un soggetto ad utilizzare il cibo sono legate a situazioni d’angoscia, difficoltà nella gestione dei conflitti e mancanze affettive, con il tempo si instaura una vera e propria dipendenza da cibo e, una volta che si è instaurata, i motivi che l’hanno causata sembrano diventare sempre più evanescenti.
Questo ci spiega perché la ricerca compulsiva verso la sostanza cibo, la spinta irrefrenabile a divorare tutto, non sono legate alla mancanza di buona volontà e autocontrollo, ma all’instaurarsi di una dipendenza che ha la funzione di staccare la persona dal mondo reale per farla entrare in un mondo in cui il cibo diventa il protagonista.
Alcuni autori hanno definito le patologie alimentari come “tossicomania senza droga” in quanto il desiderio e il piacere sono legati in modo assoluto all’oggetto cibo che offre alle persone una soluzione all’incapacità di affrontare stati emotivi ingestibili o a situazioni identitarie fragili.
Potremmo definire questi soggetti come “drogati di cibo” in cui quest’ultimo diventa un sostegno psichico a sensazioni dolorose o a stati emotivi che non riescono ad essere sentiti e funziona da antagonista all’angoscia e alla depressione.
Le persone che sviluppano una dipendenza da cibo, maturano una preoccupazione incessante verso di esso, arrivando a pensare costantemente a quando, come e dove mangeranno o non mangeranno.
La vita di questi soggetti è scandita da una sorta di rituale sempre uguale a sé stesso, attraversati da una spinta interna che li induce a compiere un determinato atto e consapevoli di non riuscire a resistere a tale impulso.
Questa dinamica è carica di tensione interna che si allevia solo quando viene raggiunto l’appagamento.
La conclusione è quasi sempre caratterizzata da sentimenti depressivi dovuti alla consapevolezza di aver perso ancora una volta il controllo, da vergogna, sensi di colpa e svalutazione di sé.
La dipendenza da cibo è un mezzo, una soluzione alla sofferenza, che riduce il conflitto mentale e il dolore emotivo. Dipendere da un oggetto inanimato evita le difficoltà della relazione con l’altro dando la possibilità di avere un oggetto sempre a propria disposizione per soddisfarsi da soli, negando il bisogno degli altri.
La persona diventa schiava di un’unica soluzione sempre uguale da utilizzare in qualunque situazione nello sforzo di fronteggiare la sofferenza, l’ansia, le emozioni negative ecc..
Il soggetto con dipendenza da cibo non ha lo scopo di nuocere a sé stesso, ma effettua un atto che ha in sé l’illusione di fare qualcosa per affrontare e alleviare le difficoltà della vita quotidiana.
Potremmo, quindi, dire che la sostanza cibo è uno strumento per la sopravvivenza psichica e anche se altamente patologica rappresenta una forma di auto-cura.
Quando si è instaurata una dipendenza da cibo spesso i motivi che l’hanno scatenata finiscono sullo sfondo e la lotta si focalizza sul cercare con ogni mezzo di contrastare la dipendenza che, se da un lato crea un forte disagio a chi ne soffre, dall’altro sembra essere fondamentale per la propria sopravvivenza.
Le patologie alimentari sono un sintomo, un segnale di un malessere profondo, che evidenziano la difficoltà di queste persone a trovare un linguaggio adatto ad esprimere e gestire le proprie esperienze emotive.
Questo sintomo nel tempo diventa una dipendenza che tende a coprire tutto e a fare dimenticare l’ angoscia, il dolore e la sofferenza che hanno determinato l’ uso e l’ abuso del cibo.

IL TRATTAMENTO DEI DISTURBI ALIMENTARI IN CONTESTI ISTITUZIONALI

Il trattamento dei disturbi alimentari in contesti istituzionali
Il trattamento dei disturbi alimentari in contesti istituzionali

di Cecilia Domenichetti

L’aspetto di accordo comune tra la maggior parte degli autori del libro riguarda la necessità di un intervento multidisciplinare di equipe e di rete nel trattamento di questi pazienti come anche l’essenzialità del porre al centro del progetto di cura la singolarità del soggetto.

Come avviene il processo di cura per i disturbi alimentari in struttura residenziale-riabilitativa?

“Il trattamento dei disturbi alimentari in contesti istituzionali” fornisce una chiara risposta a tale domanda volendo configurarsi come un luogo di dibattito e di incontro dialettico tra i principali esperti, nel contesto nazionale, nella cura dei pazienti con disturbo alimentare in istituzione e regime di ricovero.Nasce dal lavoro clinico di quindici anni  dell’equipe multidisciplinare integrata della comunità residenziale a orientamento analitico, “La Vela” di Moncrivello (VC), per il trattamento della bulimia e anoressia. L’intento è appunto quello di offrire uno spunto di riflessione condiviso sugli aspetti fondanti il lavoro terapeutico residenziale di pazienti con disturbo alimentare, sottolineando al contempo i nodi problematici legati al processo di cura che, di conseguenza, ne ostacolano l’efficacia.

Suddiviso in quattro parti il testo si focalizza sia sugli aspetti metodologici del trattamento dei disturbi alimentari, sia sul significato che il sintomo acquisisce sul singolo paziente, in base alla storia di vita personale e clinica, e sulle conseguenti difficoltà legate al disturbo, quali ad esempio la non accettazione della propria immagine corporea.

In un’ottica di inserimento del paziente nella cura, che non sempre corrisponde all’affettivo inizio della terapia, risultano essenziali alcuni elementi: per Cuzzolaro il contratto terapeutico stipulato dal paziente al suo ingresso che costituisce un limite rispetto alla deriva sintomatica del corpo, per Cordeschi la necessità di definire il setting e la posizione dell’analista in un’ottica più partecipativa dipendentemente dal deficit di identità e della dipendenza adesiva che spesso si osserva in questi pazienti.

La struttura residenziale diventa quindi, secondo Sarnicola, un contenitore psichico utile alla persona per trovare e sperimentare una propria modalità di legame con l’altro.Come sottolinea lo stesso Fadda, aspetto non trascurabile nel trattamento istituzionale del paziente con DCA, è il piano nutrizionale che ha come obiettivo non tanto l’eliminazione del sintomo, quanto una sua riduzione di centralità e di rilevanza nella vita del paziente:  il cibo perde interesse e si sgancia dall’essere il fulcro su cui ruota la quotidianità. Occorre quindi un intervento clinico-nutrizionale che tenga in considerazione il valore simbolico del cibo e il rapporto, spesso conflittuale, che il paziente ha con ogni singolo alimento.

Molto interessante risulta la differenza che Giuseppe Saglio mette in luce tra le espressioni “prendere corpo” e “dare corpo”, la prima come acquisizione di forma e sostanza, la cui negazione caratterizza il soggetto con disturbo alimentare; “dare corpo” sta ad indicare invece il moto, la spinta che muove la persona che soffre di tali disturbi verso l’attuazione di un progetto terapeutico e presuppone una scelta che implica un processo di consapevolezza delle proprie debolezze e vulnerabilità. In quest’ottica lo spazio della cura e quindi del possibile cambiamento, è quello in cui il paziente si riconosce e nasce dalla possibilità di abitare uno spazio che permette di diventare un corpo.

La conclusione del percorso di ricovero, determinato non necessariamente da una scomparsa del sintomo ma dettato da un miglioramento delle condizioni clinico-nutrizionali, è spesso, per il paziente, vissuto con estrema difficoltà in quanto vera e propria“separazione”.  In questo quadro un lavoro integrato di rete tra i servizi territoriali e la struttura comunitaria includendo la famiglia dall’ingresso al termine del percorso istituzionale del paziente, è un fulcro nella cura dei pazienti con disturbo alimentare.

Vi sono quattro livelli  di trattamento necessari per una presa in carico integrata: ambulatorio, day-hospital, ricovero ospedaliero e riabilitazione residenziale. In quest’ottica si colloca l’interdisciplinarietà dei differenti interventi di cura ma anche un precoce intervento di prevenzione primaria e secondaria nelle scuole al fine di cogliere i primi segnali della presenza del disturbo.

Tanto più la rete risulta integrata e collaborante, tanto più sia l’esito sintomatico sia il reinserimento sociale del paziente, in seguito al ricovero, risulteranno positivi. Si tratta di un vero e proprio continuum del trattamento clinico-nutrizionale che a partire dalla struttura residenziale prosegue attraverso i servizi territoriali. Tra questi, come sottolinea Saragò, il centro Diurno si inserisce come un dispositivo terapeutico che riduce i fenomeni regressivi spesso esacerbati durante il ricovero, costituendo un ponte territoriale privilegiato tra la struttura e terapeutica e la vita quotidiana.

Nonostante i differenti tipi di pensiero e di esperienze professionali,  l’aspetto di accordo comune tra la maggior parte degli autori del libro riguarda la necessità di un intervento multidisciplinare di equipe e di rete nel trattamento di questi pazienti come anche l’essenzialità del porre al centro del progetto di cura la singolarità del soggetto: fondare il trattamento su un approccio personalizzato, caso per caso (anche dal punto di vista nutrizionale), che, soprattutto nei pazienti di giovane età, includa anche la famiglia producendo un cambiamento nelle relazioni, alla ricerca di una soluzione alternativa e meno invalidante dello stesso sintomo alimentare.



 

Forte e Sottile è il mio canto – Un diario sull’obesità di Domitilla Melloni

“Forte e Sottile è il mio canto”, Domitilla Melloni, ed. Giunti

«Che cos’è che non vogliamo vedere negando all’obesità il suo status di malattia ancora misteriosa, ma non per questo meno malattia? Perché ci ostiniamo, culturalmente, a pensare che si tratti solo di scarsa forza di volontà, mancanza di autocontrollo, autocompiacimento e mollezza?»

“Forte e sottile è il mio canto” è un racconto coraggioso, un’autobiografia spietata, sono frammenti di un diario. È un modo per dire una verità che in molti ignorano, che altri fingono di non vedere: l’obesità è uno dei problemi più gravi e comuni che affliggono oggi le popolazioni occidentali. E nella coscienza collettiva spesso è anche peggio: l’obesità è una colpa.

Domitilla Melloni è l’autrice e la protagonista di queste pagine che creano un romanzo necessario, non solo perché affronta una delle malattie più sconosciute e “scomode” del nostro tempo, ma anche perché consente al lettore di entrare nell’angosciosa solitudine del malato, costringendolo ad una riflessione critica sulle proprie credenze. L’autrice, con grande coraggio, alternando capitoli più narrativi al diario d’analisi e al racconto dei suoi ricoveri in ospedale, riesce a portare in modo molto efficace il suo difficile messaggio.

Non esistono colpe.

La censura sociale dell’obesità è un errore.

Servono invece medici attenti, appassionati, e poi serve comprensione e gentilezza per fare, con gli obesi, quello che è normale con tutti gli altri malati: la diagnosi di una malattia che ha conseguenze precise. Sarà questa la conclusione di questo libro, bello e difficile, che si concluderà con un senso di liberazione.
Prima, naturalmente, c’è tutto il resto. L’infanzia dell’autrice, trascorsa circondata dall’affetto premuroso e spartano dei genitori: un periodo felice, ma non del tutto sereno.
Poi la goffaggine tipica della prima adolescenza e il racconto della costruzione di una personalità formata da caratteri molteplici, fortemente condizionata dall’immagine di un corpo che, da subito, sembra non rispondere agli stimoli.

A fare da filo conduttore c’è naturalmente la vita di Domitilla: fatta di bellezza, di confronto, di scontro, di figli e di conquiste.
Centrale e fondamentale messaggio del romanzo è il dolore prodotto da tutti gli anni di colpevolizzazioni e umiliazioni, trascorsi a combattere una delle credenze più radicate nel senso comune.
Domitilla cerca continuamente di mostrare che un obeso non è obeso perché ingordo, pigro o senza autocontrollo.
Superare il senso di colpa e i pregiudizi sociali che da sempre accompagnano i malati è comunque possibile.
Questo è ciò che rimane dopo la lettura difficile, ma anche preziosa, di questo libro che non si dimentica facilmente.

Margherita Dolcevita

“Margherita Dolcevita” , S. Benni, ed. Feltrinelli

“Dentro un raggio di sole che entra dalla finestra talvolta vediamo la vita nell’aria.

E la chiamiamo polvere”

Margherita Dolcevita è la voce narrante e la protagonista di una storia appassionante e tragicomica.

Una quattordicenne cicciottella e riccioluta decisamente stravagante che attraverso una fantasia ironica e acuta trova la giusta grinta per affrontare le difficoltà tipiche (e non) di una “bambina in scadenza”, come lei stessa si definisce. Vive in una casa immersa in un’area verde, al confine con la città, non ancora contaminato da essa, assieme alla sua ancor più stravagante famiglia: Papà Fausto che ripara gli oggetti più inutili convinto che persino le cose abbiano un’anima; mamma Emma, casalinga a tempo pieno e fumatrice di sigarette virtuali; Giacinto, diciottenne brufoloso e ultrà di una squadra di calcio perdente e il fratello minore Erminio, considerato il genio della famiglia. In soffitta vive il saggio nonno Socrate che passa il suo tempo a tentare di immunizzarsi ad un eventuale avvelenamento attraverso dosi omeopatiche di sostanze tossiche.

Margherita ha anche un fedele “cancatalogo” di nome Pisolo (“perché più che un incrocio è veramente un catalogo di tutte le razze canine e animali e forse vegetali apparse sulla Terra”) e un’amica immaginaria “la Bambina di polvere”.

Conoscendo Benni l’originalità dei personaggi, è solo l’inizio di una serie di stranezze e bizzarre vicende.

La serenità della famiglia e la sua originale routine vengono minacciate dall’arrivo dei nuovi vicini, i Del Bene, una ricca e misteriosa famiglia, portatrice di modernità e progresso tecnologico. Improvvisamente, Margherita assiste alla disgregazione del suo mondo quasi incantato. Tutto attorno a lei cambia al contatto con la novità. Lei però non rimane inerme e non si fa imbambolare dai tentativi di “corruzione” dei suoi nuovi vicini, che di positivo sembrano avere soltanto il cognome.

La storia, ad un certo punto, cambia decisamente tono con risvolti inaspettati e Margherita si trasforma diventando una giovane detective.

Una piacevole storiella di poco conto?

Niente affatto.

Il titolo trae in inganno.

È il perfetto connubio fra comicità e denuncia che rendono uniche le storie e lo stile di Benni, che stimola la sensibilità e la riflessione del lettore su temi complessi e attuali.

L’autore è sempre capace di spiazzare con dialoghi spiritosi e giochi di parole strabilianti, attraverso aneddoti spesso ingenui ma accattivanti, senza mai dover ricorrere alla volgarità. Eppure, fra una risata e l’altra, sa descrivere ingegnosamente la realtà piena di contraddizioni e chiaroscuri che ci appartiene, evidenziando i compromessi a cui a volte si scende per raggiungere un paradiso fatto di notorietà, lusso e benessere, ma reso infernale da una sorta di omologazione umana un po’ spaventosa.

E spesso ci si accorge, come suggerisce in modo agrodolce il libro, che chi prova a ribellarsi al reclutamento di un tale esercito mondano, viene additato come strano o addirittura come anormale…

Il diverso viene respinto, è tenuto lontano, fa paura e turba.

Margherita in ogni modo, a suo modo, resiste e tenta di ribellarsi.