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La Biografia della Fame

Amélie Nothomb autrice di culto in Francia, è diventata molto nota ed apprezzata anche in Italia.

Autrice prolifica, ha scritto oltre cinquanta romanzi, non tutti pubblicati ed è caratterizzata da una passione letteraria compulsiva: legge ed è curiosa verso tutto.

Proprio in “Biografia della fame” Amelie racconta delle origini di tale passione sfrenata:

Fortunatamente c’era Juliette. Con lei l’eccesso era assoluto, incondizionato. […] Stravedevo per lei. Mio padre e mia madre la lodavano perchè leggeva Thèophile Gautier. Ecco un modo per sedurre mia madre. Decisi di dedicarmi a letture al di sopra della mia età. Lessi I miserabili. Lo adorai. Cosette perseguitata dai Thènardier, era bellissimo. L’inseguimento di Jean Valjean da parte di Javert mi affascinava. L’avevo letto perchè mi ammirassero. Leggevo e scoprivo di essere io ad ammirare. L’ammirazione era un’attività deliziosa, dava un pizzicorino alle mani e facilitava la respirazione. La lettura era il luogo privilegiato dell’ammirazione. Presi a leggere molto per ammirare spesso.

Ma prima di incontrare e riconoscere tale passione e predisposizione, Amèlie attraversò una profonda e tormentata sofferenza: l’anoressia, l’autoaggressività.

La fame è universale, è storia, è vita.

Fame imposta e fame scelta. Amelie conoscerà entrambe.

La fame sono io“, scrive all’inizio del romanzo che potrebbe essere la sua autobiografia.

“Biografia della fame” è, infatti, il racconto della sua infanzia vista attraverso gli occhi della fame: fame di cibo, ma anche di amore, di bellezza e di avventure, che cambia forma attraverso le diverse esperienze di vita fatte nei vari paesi in cui è costretta da una vita nomade a causa del lavoro da diplomatico del padre: dal Giappone, alla Cina per arrivare al Bangladesh e ad altri paesi dove la fame è protagonista.

Proprio in quei luoghi, Amèlie, appena adolescente, sublima la sua fame eccessiva trasformandola nel suo opposto: l’anoressia.

Nel racconto emerge, in modo forte, tra le altre, una delle tematiche care all’autrice: la forte attrazione per una deriva masochistica dell’esistenza e dei comportamenti umani, l’autopunizione attuata attraverso un’anoressia scelta, voluta, corteggiata sino al limite della morte a soli tredici anni.

Nelle prime pagine ci da una splendida definizione di “malattia”:

[…] era mal à dire, fatica a dire. Il malato era colui che faceva fatica a dire qualcosa. Il suo corpo lo diceva la posto suo sottoforma di malattia.”

Un’espressione enormemente efficace per parlare anche dell’anoressia e delle malattie che trovano la loro manifestazione in un rapporto alterato con il cibo.

La giovane ragazza sperimenta la sensazione inebriante, ben nota a chi soffre di un disagio alimentare, in cui la fame, il bisogno, il desiderio lasciano spazio ad una resistenza che da gioia:

Avevo ucciso il mio corpo. Vissi la cosa come una vittoria strabiliante […] non provavo più niente […] mi manteneva in un’era glaciale dove i sentimenti non premevano piu.

Ad un certo punto, però, Amelie, ebbe un’epifania sconvolgente. Con le sue parole:

Avendo eliminato il cibo, decisi di mangiare tutte le parole.

Sarà proprio questa scoperta, sconvolgente, curiosa, atipica che fa scattare qualcosa nella futura scrittrice.

Tale era il gusto e il desiderio per le parole che si accorse che le era indispensabile il buon funzionamento del cervello, poiché il continuo dimagramento le faceva percepire il venir meno di una mente ben funzionante.

Proprio in quel tempo, scoprì un modo per dire quel qualcosa che, prima, solo il corpo riusciva a dire. E scoprì, di conseguenza, che: “L’ascesi non arricchisce la mente. Le privazioni non costituiscono una virtù.

La morte incrociata a tredici anni allora, viene combattuta proprio dal corpo “la mia testa si arrese, il mio corpo si ribellò contro la mia testa. Rifiutò la morte”.

Il corpo ricominciò a mangiare, tra le lacrime e con angoscia per la sofferenza causata alla mente.

La consapevolezza di essere imprigionata in un corpo malato e in una mente ossessionata dall’autodistruzione, si fece chiara, feroce.

L’anoressia mi era servita come lezione di anatomia. Conoscevo il corpo che avevo scomposto. Si trattava adesso di ricostruirlo” Amèlie scoprì, con stupore e meraviglia, che la scrittura era un’efficace alleato in questo.

Il libro é una vera e propria autobiografia da mangiare con gli occhi. Dalla passione di Amélie per i dolci, alla potomania, questo libro, è importante sottolinearlo, parla anche di anoressia, ma non solo di essa, poichè la non fame è stata vinta dall’autrice grazie alla fame di letture che l’ha accompagnata per tutta la vita ed è esplosa nella passione per la scrittura a partire dal 1989.

Alla fine la scoperta è grande: la felicità è trovare un luogo in cui si è felici e restarvi… che si tratti di una città oppure di un luogo metaforico come la letteratura.

 

I Giganti d’Argilla

Giganti d’Argilla – I disturbi alimentari maschili

 

Laura Dalla Ragione, Marta Scoppetta

ED. Il Pensiero Scientifico Editore 2009

Recensione a cura della Dott.ssa Laura Ciccolini

 

I disturbi del comportamento alimentare si sono caratterizzati come patologie del femminile e, nonostante l’aumento nella popolazione maschile di questi sintomi, sono pochissime le pubblicazioni che affrontano queste problematiche nei maschi.

Le ricerche effettuate fino ad oggi, si sono basate su una testistica pensata per le donne, rendendo quindi ancora oggi, controversa la collocazione diagnostica di casi maschili, spesso ricondotti ad una secondarietà o ad altre patologie psichiatriche.

In questo testo le autrici, spiegano il perché, improvvisamente, gli uomini non sono più immuni da questi disturbi, da quelli più “classici”, come anoressia, bulimia e disturbi da alimentazione incontrollata, a quelli “nuovi” come l’ortoressia e la bigoressia, più specifici del genere maschile.

Fino a vent’anni fa l’incidenza dei disturbi del comportamento alimentare negli uomini era pari a 1:10 o 1:15, oggi i dati più recenti ci mostrano un rapporto molto diverso 1:4, dato che si accorcia se consideriamo il disturbo da abbuffata compulsiva dove la distanza fra maschi e femmine diventa 3:4.

Una domanda sorge spontanea, si ammalano più persone o solamente più maschi si mettono allo scoperto? Oppure, inizia ad esserci una maggiore attenzione da parte dei clinici su questa patologia che prima non veniva riconosciuta come tale?

A queste domande è difficile rispondere in modo chiaro ed univoco.

Quello che emerge oggi sempre di più è l’esigenza di avere dei punti di riferimento chiari che permettano ai clinici di individuare e formulare una diagnosi di disturbo del comportamento alimentare.

In letteratura i casi di anoressia maschile descritti sono scarsissimi. Nel 1689 Morton descrive un caso maschile di anoressia che definisce “consunzione nervosa”.

Successivamente non vengono più descritti casi se non in modo sporadico, fino ad arrivare alla Bruch che definisce i disturbi del comportamento alimentare maschili come “atipici” sostenendo l’assenza di differenze significative dai casi femminili, sia per fenomenologia clinica, sia per eziopatogenesi.

Negli anni 60, i disturbi alimentari maschili, tornano ad essere oggetto d’attenzione perché, oltre ai disturbi classici, compaiono sulla scena due nuove forme di sintomatologia che colpiscono prevalentemete l’uomo: la bigoressia e l’ortoressia, disturbi che non hanno avuto, finora, una collocazione nosografica ma che sono conosciuti nell’ambito clinico e scientifico.

Quello che viene constatato e messo in evidenza è come siano mancati in ambito clinico, i criteri diagnostici per identificare i disturbi del comportamento alimentare nei maschi in quanto, tutti i riferimenti riguardano il genere femminile.

Per esempio, nella IV edizione del DSM, fra i criteri principali elencati per descrivere l’anoressia, viene indicata “l’assenza di almeno tre cicli mestruali consecutivi”. Emerge, dunque, l’assenza di un corrispondente maschile altrettanto definibile.

L’assenza di sintomi specifici nell’ uomo pone maggiori difficoltà a formulare una diagnosi chiara solo se andiamo a vedere nell’ICD 10 (decima revisione della Classificazione Internazionale delle sindromi e dei disturbi psichiatrici e comportamentali) viene posta l’attenzione sulla distinzione fra anoressia maschile e femminile con l’introduzione di “… un disturbo endocrino diffuso, che coinvolge l’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi, che si manifesta nella donna come amenorrea e nell’uomo come perdita dell’ interesse e della potenza sessuale”. Ad eccezione dell’amenorrea i criteri diagnostici per uomini e donne sembrerebbero essere gli stessi: l’età d’insorgenza, lo status socio-economico non sembrano differire molto fra maschi e femmine.

Un aspetto di differenza sembra essere posto nella maggiore attività sportiva praticata dagli uomini come modalità per perdere peso, mentre, nelle donne è più frequente la perdita di peso attraverso diete e digiuni. Nei maschi troviamo, inoltre, una minore fissazione sulla perdita di peso e su alcuni aspetti dell’ immagine corporea.

Numerosi studi associano anche una maggior presenza di disturbi psichiatrici negli uomini affetti da disturbi del comportamento alimentare.

Alcuni autori, inoltre, associano una storia di obesità infantile più frequente nei maschi che nelle femmine.

Mancando dei criteri chiari, gli uomini affetti da anoressia nervosa, spesso arrivano ai Servizi con un’alta percentuale di alterazioni fisiche causate da un avanzato stato di malnutrizione che spesso sono sia il risultato di un ritardo nella ricerca di attenzioni mediche da parte dei pazienti sia di un ritardo di riconoscimento della patologia da parte dei curanti.

Partendo da queste difficoltà le autrici hanno dato una sistematizzazione chiara che potrebbe aiutare i clinici a riconoscere tempestivamente tali patologie.

Le principali caratteristiche dei disturbi del comportamento maschile vengono individuati dalle autrici in:

  1. Preoccupazione focalizzata sulla muscolarità e sulla prestanza fisica
  2. il disturbo dell’alimentazione incontrollata seguito da bulimia nervosa è quello più presente nei maschi
  3. l’iperattività fisica è la condotta di eliminazione più utilizzata
  4. minore inclinazione a chiedere aiuto agli specialisti dovuto alla convinzione che siano problematiche esclusivamente femminili
  5. tra i fattori di rischio che predisporrebbero un uomo ad ammalarsi troviamo:
    • episodi negativi o traumatici nella storia personale
    • obesità infantile
    • omosessualità: i disturbi alimentari sono presenti in misura quattro volte maggiore negli omosessuali. Secondo alcuni studi, il 20% degli uomini omosessuali soffre di un dca. Potremmo pensare che un’ identità di genere non proprio consolidata sembrerebbe associarsi maggiormente alla possibilità di sviluppare tale patologia
    • comorbilità psichiatrica :gli uomini presentano una comorbilità psichiatrica più alta che quella che ritroviamo nelle donne. Disturbi dell’umore , depressione , disturbo ossessivo compulsivo e i disturbi associati all’uso di sostanze
    • attività sportiva svolta in maniera agonistica e con eccessiva competizione(sono maggiormente predisponenti quegli sport che richiedono una massa grassa ridotta o un importante dimagrimento.

Oggi, nel dibattito intorno ai criteri del DSM V sui dca, sembra evidenziarsi fra i clinici un maggiore bisogno di formulare dei criteri diagnostici chiari comprendenti il maschile.

Nel nuovo manuale diagnostico, saranno inserite le categorie in cui sono più presenti i maschi, che sono:

  1. Disturbo del comportamento alimentare non altrimenti specificato che nasce come categoria comprendente forme residuali e pian piano era diventata nel tempo il contenitore di una molteplicità di forme di disturbo fino a diventare la categoria maggiormente incontrata nella pratica clinica.
  2. Disturbi da alimentazione incontrollata, è presente in elevata percentuale nei maschi.
  3. I due così detti “nuovi sintomi”, che sono la bigoressia e l’ortoressia, e la nuova sindrome caratterizzata dall’attitudine di mangiare e sputare.

Tutti questi disturbi sembrano essere più presenti negli uomini.

Se alcuni di questi disturbi già comparivano nel DSM IV, nella nuova edizione saranno solo articolati meglio.

L’ortoressia e la bigoressia sono due nuovi disturbi che verranno introdotti nel DSM V e nel ICD.

Entrambi questi sintomi prendono le mosse dalle filosofia di vita volta al salutismo e al mantenimento della forma fisica ma poi, nella patologia ne esasperano il comportamento fino a mettere a rischio la propria vita.

L’ortoressia, dal greco “orto” che vuol dire dritto e “orexia” che vuol dire appetito, è un disturbo che riguarda un’ossessione per il cibo giusto e corretto ed è paragonata ad una dipendenza patologica anche a causa della dispersione e la perdita di tempo che tale ossessione comporta.

Gli ortoressici sono una sorta di drogati per il cibo sano.

Queste persone ricercano con scrupolosità eccessiva il cibo sano ed hanno un terrore di contrarre malattie organiche attraverso l’alimentazione e, a causa di questo terrore, controllano e selezionano minuziosamente il cibo.

Tali comportamenti portano queste persone a evitare situazioni conviviali con il timore di poter contaminare il proprio corpo.

Lo stile alimentare dell’ortoressico è talmente rigoroso da esporlo costantemente al rischio di sviluppare gravi carenze nutrizionali.
La diffusa preoccupazione per il cibo nei casi più gravi evidenzia una sorta di delirio persecutorio in cui l’ortoressico teme che qualcuno voglia avvelenarlo.

La bigoressia, dal termine inglese “big” ovvero grande, grosso, è una condizione di recente osservazione caratterizzata dalla preoccupazione , in persone visibilmente muscolose, di essere troppo magri e poco prestanti. Questa condizione ha una prevalenza nel sesso maschile ed in particolare fra i frequentatori di palestre.

Inizialmente, era stata definita “Anoressia inversa” in quanto, come l’anoressica, si vede sempre grassa pur essendo magrissima e la propria autostima e il valore di sé viene fatto dipendere dalla propria forma fisica. Il timore di non essere mai abbastanza muscolosi spinge questi ragazzi a estenuanti sedute in palestra.

Le attività lavorative, ricreative spesso sono compromesse per lasciare spazio ai lunghi allenamenti e per non trasgredire il regime alimentare.

Inoltre vengono sempre più consumati steroidi anabolizzanti per avere un aiuto nello scolpire il corpo e per ridurre la massa grassa, tali assunzioni possono mettere a rischio la salute fisica e psichica.

Difficilmente queste persone ammettono di fare uso di sostanze anabolizzanti.

Viene messo in evidenza dalle autrici il rapporto fra i DCA e il mondo dello sport ,luogo dove il rischio di sviluppare un DCA è particolarmente elevato per l’attenzione che viene posta sul corpo e dove gli atleti talvolta, vengono sottoposti a regimi alimentari molto rigidi per riuscire ad ottenere migliori risultati e spinti ad abusare di sostanze chimiche per migliorare la perfomance fisica.

La cultura attuale , spinge gli individui a sentirsi in forma praticando regolarmente un’ attività fisica e avendo una alimentazione corretta ed equilibrata. Gli allenatori, spingono le persone a migliorarsi costantemente e, quando incontrano persone già ipercritiche , insoddisfatte del proprio aspetto fisico, tali pressioni non fanno che aumentare il negativismo relativo alla propria immagine corporea.

Nel libro viene evidenziata l’importanza fondamentale che potrebbe avere la formazione degli allenatori, degli psicologi, dei nutrizionisti che girano intorno agli atleti e nelle palestre per poter effettuare una diagnosi precoce.

Spesso ci si trova di fronte a disturbi polimorfi, difficili da diagnosticare che tendono con maggiore facilità, rispetto a quelli femminili, ad essere confusi con comportamenti normali, condivisi culturalmente e quindi, vengono rilevati solo quando le condizioni fisiche si sono deteriorate.

A causa di queste condizioni è molto difficile pensare che queste persone possano chiedere aiuto spontaneamente.

E’ di fondamentale importanza che gli allenatori possano veicolare questi ragazzi verso un centro di cura.

Nell’ ultima parte del libro viene descritta la presa in carico di queste patologie che necessitano, visto la complessità e la multifattorialità, di un approccio multidisciplinare costituito da un’equipè in cui sono presenti diverse figure professionali che possano formulare un pensiero unitario sul paziente.

Viene inoltre sottolineato, come il trattamento dei DCA non differisce fra maschi e femmine.

Partendo dal vuoto nosografico riguardante i DCA al maschile , le autrici hanno effettuato nel libro una lavoro chiaro e particolareggiato che ci permette di colmare le carenze che finora ci siamo trovati ad affrontare.

Mi verrebbe da dire che dopo la lettura di questo libro è molto più semplice individuare un DCA in un uomo e quindi poterlo indirizzare verso una cura appropriata.

Poter avere una diagnosi descrittiva dei vari modi in cui si declinano i DCA al maschile è molto importante.

Nella nostra pratica clinica abbiamo visto che è fondamentale oltre ad avere una diagnosi descrittiva, quando pensiamo ad effettuare un trattamento, riuscire ad effettuare una diagnosi strutturale, aspetto che spesso non è evidente e che emerge solo dopo una fase preliminare di lavoro.

La comprensione della diagnosi strutturale nella nostra clinica è imprescindibile dal trattamento perché è quella che ci orienta nella direzione della cura ed è proprio, a partire dalla struttura del paziente, che l’equipè curante può formulare i suoi interventi.

 

 Recensione a cura della

Dott.ssa Laura Ciccolini

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Corpo, corporeità, alimentazione – Equipe CPF

Questo scritto, dal titolo “Corpo, corporeità ed alimentazione” vuole affrontare il tema del corpo secondo tre accezioni differenti:

 

 Il corpo adolescenziale in quanto fulcro di cambiamenti strutturali e sconvolgimenti fisiologici.

 La corporeità, nel senso di tutto ciò che è corporeo. Saranno affrontati temi quali l’ideale estetico, la cura del corpo e il valore che la cultura gli attribuisce.

L’alimentazione, ponendo attenzione al significato culturale e storico di questa e a come diviene un perno significante nelle dimensioni quali, l’identità soggettiva, l’immagine corporea ed il rapporto con l’altro.

 

Tutti noi abbiamo un corpo; cresciamo, viviamo, comunichiamo e ci identifichiamo con l’immagine che lo specchio ci rimanda. La centralità dell’importanza che attribuiamo all’immagine corporea si riflette principalmente nel rapporto con gli altri, se siamo felici esprimiamo questo stato d’animo anche agli altri curando la nostra persona ad esempio nell’abbigliamento e nell’acconciatura.

Viceversa se il nostro umore è depresso, l’aspetto estetico, le relazioni sociali e per alcuni anche l’alimentazione ne risentono.

Il corpo, assume quindi nella vita di ciascuno, molteplici significati dei quali siamo più o meno a consapevoli, e più di tutti veicola la rappresentazione di se stessi nel rapporto con gli altri. Conoscere il proprio corpo, significa dunque anche riconoscere i segnali e gli stimoli che esso continuamente emana come la fame, la sete, il sonno, il freddo, l’eccitazione, il dolore che richiedono la messa in atto di comportamenti che ne plachino lo stato di bisogno. Ciò che caratterizza l’adolescenza é la trasformazione del corpo infantile in un corpo nuovo, in un corpo adulto.

Il corpo è dunque il fulcro dell’adolescenza, ed anche se esso esiste da prima della pubertà, è solo in questa età che esso si struttura nella sua forma e nella sua identità.

Le modificazioni somatiche visibili ed invisibili, derivanti dallo sconvolgimento fisiologico, richiedono il riconoscimento di questo corpo nuovo, differente da quello infantile.

Tra i primi segnali e le modificazioni fisiche, visibili all’esterno intercorrono però dei passaggi importanti che quasi mai trovano il tempo di essere elaborati, e che per questo producono ansia o sentimenti di inadeguatezza.

Lo specchio rimanda i tratti del viso, la struttura del corpo, che via via si fa più decisa, e non c’è più possibilità né illusione di cambiamento. Questo delicato momento di crisi fisiologica può essere accompagnata da sentimenti inquietanti, angoscianti ed esaltanti allo stesso tempo, poiché l’adolescente sente il proprio corpo come estraneo, sconosciuto, ricco di potenzialità, ma anche carico di pericoli.

Diventare un corpo adulto, è dunque, una dura prova che non coinvolge solo la fisicità, ma anche la mente, le emozioni e tutto l’essere nella sua totalità.

Questi cambiamenti, che riguardano in primo luogo la perdita del corpo infantile per acquisire la maturazione genitale con la relativa capacità di procreare, può spaventare molto ed indurre i giovani a produrre comportamenti difensivi che possono spaziare dai disturbi alimentari, che bloccano il processo di crescita, ad agiti depressivi sino a comportamenti antisociali. Le modificazioni corporee sono anche accompagnate da spirito di ribellione nei confronti degli adulti, finalizzato in genere alla ricerca dell’emancipazione dalle figure genitoriali, per poter acquisire autonomia e indipendenza. Gli investimenti affettivi sono per lo più trasferiti sui coetanei. I rapporti con essi, acquistano più importanza rispetto a periodi precedenti per la comune condivisione di ideali, valori, sentimenti, paure e progetti.

I coetanei nell’adolescenza, diventano dunque un punto di riferimento importante con i quali ci si identifica, sia per la costruzione dell’identità che del concetto di sé, e nei casi migliori, riempiono un vuoto che l’incomprensione della famiglia può generare.

Le modificazioni somatiche dell’adolescenza, si riflettono anche nelle richieste di comportamenti sempre più autonomi che l’ambiente sociale si attende dal giovane, ed è forse per questa ragione che l’adolescente, tramite scelte e decisioni cerca l’apprezzamento sociale dei suoi comportamenti. Una buona conoscenza di sé e la capacità di affidarsi a figure care di riferimento nei momenti più difficili, possono essere di aiuto e facilitare il superamento di questa particolare fase della vita.

Con il termine corporeità s’intende tutto ciò che è corporeo, e l’abbigliamento, lo sport o le pratiche del tatuaggio sembrano ben esprimere la manifestazione che ognuno fa all’esterno della propria corporeità.

I giovani sono molto attenti ai cambiamenti del loro aspetto fisico ed alle risposte che il mondo esterno o le persone particolarmente significative, danno al loro sviluppo.

I cambiamenti (fisici, essendo visibili), fanno si che l’adolescente sia trattato dalle persone che lo circondano, famigliari o estranei, in modo differente da com’era stato trattato da bambino.

Queste modificazioni sono dunque di notevole importanza, sia perché il giovane deve, in primo luogo, fare i conti, il proprio corpo che, in seguito allo sviluppo, diviene improvvisamente estraneo, sia perché la maturazione sessuale permette ulteriormente di entrare a far parte del mondo dell’adulto.

Le trasformazioni corporee quindi, possono essere vissute positivamente o negativamente secondo la capacità del soggetto di elaborare l’immagine corporea che aveva di sé prima della pubertà e di prendere coscienza del nuovo corpo sessuato.

In tutte le società esistono delle caratteristiche fisiche considerate desiderabili, ad esempio l’altezza, la bellezza, la snellezza che, anche se non imposte culturalmente incidono sulla valutazione dell’ideale di bellezza.

L’eccessiva valutazione che i giovani adolescenti, durante lo sviluppo, danno all’aspetto fisico rispecchia forse l’angoscia reale relativa alla differenza percepita fra corpo reale e corpo vissuto. Quando lo sviluppo delle varie parti del corpo diviene più armonico sembra che l’attrattiva per le ragazze e l’efficacia fisica per i ragazzi diventi fondamentale.

Gli ideali di bellezza vigenti nella cultura allora vengono probabilmente accettati e perseguiti dai giovani che cominciano a valutarsi più o meno attraenti se le caratteristiche fisiche individuali corrispondono ai canoni di bellezza comunemente condivisi.

La questione estetica, essere cioè belli o brutti, relativa al corpo diviene nell’adolescente fondamentale, in primo luogo fra i pari, che fanno coincidere la valutazione positiva individuale con il grado di gradevolezza fisica: coloro che vengono valutati come belli vengono probabilmente anche giudicati come efficienti.

Alcuni adolescenti possono però sentire come reale la paura di avere qualcosa di anomalo nel proprio aspetto fisico forse perché non riescono ad accettare il proprio corpo o perché presi in giro per qualche motivo dai coetanei al punto da divenire profondamente insoddisfatti ed insicuri della propria immagine corporea. In questa categoria di giovani rientrano maggiormente coloro che soffrono di anoressia o di bulimia.

In genere, comunque, gli adolescenti superano l’ansia di avere qualcosa di anomalo nel proprio aspetto fisico ed acquistano fiducia stima e sicurezza in se stessi. L’ossessione del culto del corpo diviene quindi fondamentale per chi predilige l’apparire all’essere.

L’esigenza di apparire, secondo alcuni studiosi, è una peculiarità delle società occidentali, di quelle odierne culture dell’immagine sempre più orientate all’assimilazione degli ideale e dei valori estetici di bellezza snellezza e perfezione corporea.

Il corpo e la cura di esso attraverso l’attività sportiva, l’alimentazione sana e le manie salutiste hanno convogliato molti adepti.

L’immagine del corpo sano e bello è dunque diventata, indistintamente per uomini e donne, una necessità irrinunciabile; sembra, infatti, di essere circondati da un’atmosfera in cui predomina l’apparire sull’essere, la ricerca cioè di un’immagine rassicurante e felice.

La pressione dell’apparire è comunque sentita particolarmente solo da chi ha un’effettiva mancata valutazione realistica delle condizioni del proprio corpo.

La mania delle diete e dell’attività fisica è dunque un fenomeno di moda che a livello di rapporti sociali producono coesione, attraverso l’imitazione di quanti si trovano allo stesso livello sociale ed esclude tali gruppi dagli altri gruppi che non si adeguano a questi stili di comportamento.

Prendendo come esempio la logica pubblicitaria si farà caso a come questa sfrutti spesso l’immagine bella e vincente di uomini e di donne per presentare dei prodotti al fine di ottenere dei vantaggi di vendita.

In realtà ciò che maggiormente influenza l’acquirente non è il prodotto in sé ma la bellezza dell’immagine proposta.

Questa logica di mercato, quindi, influenza chi è meno sicuro di se stesso o desideri essere diverso da ciò che è.

L’influenza dei mass media trova in questi soggetti insicuri e insoddisfatti un terreno fertile forse perché è maggiore in loro l’ambizione per il successo, per il riscatto sociale e il desiderio di essere apprezzati dagli altri.

A questo punto non sembrerà azzardato affermare che nelle società industrializzate gli ideali di bellezza magrezza e della cultura del corpo sembrano essere divenuti dei veri e propri imperativi. L’evoluzione dell’interesse per gli aspetti estetici delle dimensioni corporee non è sempre stata presente nella nostra cultura; è solo dagli anni ’60 a oggi che il corpo ha assunto un valore importantissimo e parallelamente si sono anche diffuse le diete e l’attività fisica quali strumenti atti a raggiungere la perfezione corporea.

L’ossessiva ricerca della magrezza attraverso le diete, un’estenuante attività sportiva ed eventuali interventi chirurgici rappresentano un’insoddisfazione di sé più che una ricerca di un corpo bello e sano.

La pratica di sport che maggiormente enfatizzano il corpo, come il culturismo, può essere pensato come una disciplina in cui vi è una forte presenza di elementi estetiche e le motivazioni verso questo tipo di attività sportiva sembrano presupporre in primo luogo un certo grado di narcisismo e di esibizionismo centrato sulla corporeità.

Non si deve pensare che il cercare di raggiungere modelli di perfezione assoluta appartenga solo al mondo femminile; la cultura dell’immagine si è, infatti, diffusa indistintamente tra uomini e donne. È dunque il giudizio sociale relativo all’apparire piuttosto che all’essere che condiziona la valutazione che ogni individuo ha di se stesso.

Alcuni gruppi sociali, quindi, indipendentemente dall’età, dal sesso e dalla professione, prediligono la cura ossessiva del corpo altri invece valorizzano aspetti differenti per dare risalto alla propria corporeità.

Tatuaggi e piercing ad esempio, sempre più in voga tra la popolazione esprimono un nuovo fenomeno di moda e di costume che coinvolge in primo luogo il corpo fisico.

Come per lo sport, ricorre al tatuaggio chi mostra un forte interesse e cura per il proprio corpo, un autocompiacimento di tipo narcisistico. Il desiderio di tatuarsi, esploso negli anni ’90, sembra rappresentare una scelta di stile di vita personale. I soggetti che ricorrono alla pratica del tatuaggio lo fanno per raccontare qualcosa di sé, per esprimere i propri sentimenti, per manifestare attraverso un segno visibile, qual è il tatuaggio, un cambiamento interiore e più di tutto per abbellire il proprio corpo.

Sport, tatuaggi ed anche l’abbigliamento rappresentano dunque delle tattiche utili per produrre negli altri impressioni positive, esibendo la propria corporeità o tutto ciò che riesca a enfatizzarla.

Per quanto concerne l’abbigliamento, esibire capi che suggeriscono il raggiungimento di mete socialmente desiderabili può contribuire al mantenimento dell’autostima e al sentimento di affiliazione verso gruppi che l’individuo ritiene significativi.

L’alimentazione è strettamente collegata con l’argomento del corpo e della corporeità.

Sebbene l’alimentazione rappresenti una necessità fisiologica indispensabile per la nostra sopravvivenza, il comportamento alimentare viene ad assumere significati psicologici rilevanti e differenti in ogni età dello sviluppo.

Pensiamo, ad esempio, a quanto sia fondamentale che una madre allatti il proprio figlio, non solo per garantire la sopravvivenza del piccolo attraverso l’alimentazione, quanto per stabilire attraverso il contatto corporeo un rapporto privilegiato di affetto tra madre e figlio.

Questo momento rappresenta il precursore del nostro rapporto con il cibo. Trarremo, infatti, soddisfazione o insoddisfazione dal cibo a seconda che il momento dell’allattamento sia stato per noi positivo o negativo.

Altro momento fondamentale è rappresentato dal periodo che va dalla pre-adolescenza all’adolescenza. In questa epoca si realizza, infatti, la ristrutturazione dell’identità corporea, in relazione ai rapidi e molteplici cambiamenti somatici legati allo sviluppo sessuale.In questo periodo il cibo acquista particolare rilevanza, poiché esso è un mezzo per intervenire sul proprio aspetto fisico per renderlo più accettabile o più desiderabile.

Nella nostra cultura la positività dell’immagine fisica è data soprattutto dalla magrezza e dall’apparire rispetto all’essere, l’esteriorità rispetto all’interiorità.

Il corpo e l’aspetto estetico, acquistano quindi, una grandissima importanza e su di essi si vengono a concentrare anche le insoddisfazioni e le ansie che l’adolescente può vivere in altri campi.

L’essere attraenti e conformi alle norme sociali di magrezza, diventa allora, una condizione per essere accettati dal gruppo e per avere relazioni sociali, affettive e sessuali con i coetanei.

La dieta sembra però rappresentare anche il tentativo di sperimentare se stessi attraverso il controllo di sé e del proprio corpo, attraverso azioni trasgressive nei confronti dei genitori e del mondo infantile da essi rappresentato: poiché i genitori sono stati la fonte del cibo e delle regole di condotta, ora i ragazzi esprimono alcuni il proprio distacco attraverso il rifiuto del cibo, altri attraverso condotte trasgressive spesso attuate in gruppo.

Un altro modo per esprimere il proprio disagio, è rappresentato dall’alimentazione consolatoria, ossia mangiare senza aver fame.

Questo comportamento, rappresenta una modalità fallimentare rispetto alle condotte trasgressive, ma funzionali per contrastare sentimenti depressivi, di solitudine, di scoraggiamento a situazioni vissute come stressanti ed al di là delle proprie capacità di risoluzione. (Frequenti sono anche l’abuso di alcol e di altre sostanze psicoattive).

Coloro che dunque ricorrono a questo tipo di alimentazione, si sentono insicuri di sé, con uno scarso senso di efficacia personale ed incerti sul proprio futuro. Essi, probabilmente, vivono la scuola come inutile e si limitano per lo più ad attività solitarie e sedentarie.

Questi adolescenti, ricercano ed attribuiscono molto valore all’autonomia, ma sembrano non riuscire a realizzarla. Anoressia e bulimia, dunque, come espressione di un disagio, sarebbe maggiormente frequente nelle femmine, mentre nei maschi il disagio personale e relazionale si manifesta maggiormente con comportamenti attivi, rivolti all’esterno, socialmente visibili e rilevanti, per lo più attuati in gruppo. Le ragazze quindi, sembrano scegliere di più comportamenti solitari, autolesivi e punitivi nei confronti di sé e del proprio corpo.

Questo atteggiamento, appare legato sia ai diversi modelli di socializzazione nei due sessi, che ai problemi dello sviluppo dell’Identità femminile e dell’accettazione di sé, soprattutto sul piano fisico, a cui non sono estranei i modelli esasperati e contradditori offerti dai mezzi di comunicazione di massa.

Il fatto, però, che l’alimentazione, come mezzo per controllare il proprio aspetto fisico, abbia assunto un significato rilevante nelle culture occidentali, rappresenta l’espressione del benessere raggiunto da questa società, che tendono all’aggregazione dei vari individui attraverso la politica del consumo (sia esso materiale che alimentare).

E’ quindi, impensabile credere che nei paesi del Terzo Mondo si pratichi il controllo dell’alimentazione, per raggiungere l’ideale estetico della magrezza, sia per le minori risorse nutritive che per la differente rappresentazione mentale che essi hanno del loro corpo.

L’ideale della magrezza e l’interesse per l’alimentazione controllata è maggiormente comprensibile se si considera la sua evoluzione nel tempo.

In Europa, tra la fine del XIX° sec. e l’inizio del XX°, la cura del corpo, l’attenzione al peso e l’uso delle diete erano pressoché inesistenti.

La maggioranza della popolazione infatti, a causa delle ricorrenti carestie rischiava quotidianamente di morire di fame, a differenza del ristretto ceto di benestanti che manifestava la propria superiorità sociale attraverso l’abbondanza alimentare.

A quel tempo, era quindi usuale associare la magrezza alla povertà ed alla malattia e la prosperità al benessere e alla salute.
Con gli anni però, la disponibilità delle risorse nutritive subì un generale aumento in tutta la popolazione, ed i ceti più abbienti iniziarono a modificare l’immagine corporea, prediligendo cioè la “qualità” alla “quantità “ dell’alimentazione, e la snellezza alla rotondità corporea.

La grande diffusione del nuovo ideale estetico di bellezza avvenne durante gli anni 20’, periodo durante il quale i mezzi di informazione dell’epoca, i modelli di abbigliamento ed i dipinti artistici rispecchiavano proprio il nuovo ideale di bellezza femminile “androgino”, cioè il corpo molto magro e longilineo.

Nel corso degli anni, la moda subì un momentaneo ridimensionamento per poi ripresentarsi stabilmente negli anni ’60.

Dagli anni ’60 ad oggi, il corpo ha assunto un valore importantissimo e parallelamente si sono anche diffuse le diete e l’attività fisica, strumenti atti a raggiungere la perfezione corporea.

La sopravvalutazione della magrezza, ha anche favorito l’aumento della vendita dei prodotti dietetici e la nascita di centri estetici, in quanto la gradevolezza fisica ed il corpo magro sono parte ormai di una cultura centrata sull’aspetto estetico.

La dimostrazione di questa omologazione all’ideale estetico è stata peraltro visibile anche a livello cinematografico.

Se negli anni ’60 infatti l’ideale cinematografico era rappresentato da attrici quali BB o Sofia Loren, a partire dalla fine degli anni ’70 primi ’80 insorge il culto del corpo palestrato.

E’ il maschio questa volta a diventare più attento alla propria immagine, ed attori quali Stallone, Schwarzenegger e Bruce Willis ne sono i rappresentanti.

Attualmente, il cinema ha ulteriormente modificato l’ideale estetico maschile e, l’ultima tendenza osservabile è il lancio a livello d’immagine, di volti e corpi belli e perfetti ma dai tratti infantili quasi effeminati come Brad Pitt e Leonardo Di Caprio, per non parlare del mondo della moda che sceglie i modelli di sesso maschile dalla corporatura non più palestrata, piuttosto di una magrezza allarmante che ha pareggiato, se non raggiunto quella femminile.

L’ideale estetico della magrezza, è dunque, strettamente collegato con il discorso alimentare, perché strumento favorevole e funzionale al controllo delle dimensioni corporee.

Alla base di tutto il discorso, crediamo sia fondamentale sottolineare quanto nell’intreccio tra la cultura del corpo ed il controllo dell’alimentazione, vi sia un “difetto individuale”, quello cioè di una profonda insoddisfazione di se stessi e della propria vita, che viene anestetizzata attraverso l’adesione totale ed incondizionata agli imperativi estetici che vigono nella nostra società.

Il comportamento alimentare è dunque il modo attraverso il quale si manifesta primariamente il rifiuto del proprio corpo.

Lentamente poi si assiste alla diminuzione dei pranzi che un tempo riunivano l’intera famiglia a favore di pasti sempre più solitari o fugaci.

Ciò che si va perdendo, quindi, non è il valore del pranzo in sé, quanto piuttosto la dimensione relazionale, affettiva, comunicativa che il momento della commensalità consentiva.

Alimentazione ed età evolutiva – Equipe CPF

Alimentazione ed età evolutiva in un approccio psicologico dal punto di vista della norma e della deviazione.

L’alimentazione quale soddisfacimento della fame e della sete di cui, fin dalla nascita, necessita la vita dell’organismo è un bisogno fisiologico ma è anche una condizione che ha delle conseguenze psicologiche.

L’alimentazione è carica di valenze psicologiche fin dai primi giorni di vita dove si è riscontrata la rilevanza delle modalità dell’allattamento per quando riguarda l’atteggiarsi ed anche il successivo comportarsi del bambino verso il mondo che lo ospita.

L’atto di nutrirsi, oltre che soddisfazione di un bisogno è quindi anche il modo con il quale il bambino, specie il lattante, entra in relazione con l’ambiente.

Un bambino piccolo, un neonato quando piange, strilla perché ha fame, ad un certo punto viene preso in braccio da sua madre per essere nutrito.

Il bambino smette allora di piangere, certamente perché la fame è stata sedata ma oltre al cibo, il bambino ha ricevuto dall’altro: vicinanza fisica, calore, si è sentito accarezzare da una voce… L’allattamento è quindi un momento di comunicazione e di reciproco scambio del neonato con la madre durante il quale, attraverso tutta una serie di sensazioni, egli vive esperienze che, se gratificanti, si traducono in uno stati di benessere fisico e psicologico.

Nella questione dell’alimentazione e delle problematiche connesse vediamo l’intrecciarsi in varia misura di numerose variabili: disposizioni metaboliche, spinte psicologiche, condizionamenti economici e culturali.

Per questo anche nell’indagine eziologia dei disturbi dell’alimentazione è fondamentale tanto prendere in esame la psicopatologia individuale, quanto ugualmente importante è l’individuazione dei fattori storici, culturali e metabolici che, concorrendo tra loro sono veri e propri fattori di rischio, favoriscono l’espressione dei disturbi e della crescente diffusione.

E’ necessario esaminare tutto quanto riguarda l’alimentazione e in senso lato i fattori nutrizionali alla luce di un contesto complesso.
Tale contesto è costituito dall’ambiente totale in cui l’individuo è immerso e per la specie umana l’ambiente totale comprende la natura, la società, la famiglia, le tradizioni, l’economia e altro ancora Riteniamo importante sottolineare che l’alimentazione costituisce un fatto in primo luogo culturale. Disponibilità e utilizzazione delle risorse contribuiscono a fare si che gli adattamenti siano diversi per le differenti popolazioni del mondo sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo.

Mangiare non si riduce al solo soddisfacimento di un bisogno fisiologico, lo sfamarsi, ma è anche e soprattutto l’acquisizione di regole della convivialità, dello stare insieme, del gusto, della tradizione familiare e culturale.

L’esistenza stessa di una “cucina”, di una cultura gastronomica, mostra bene come l’elemento alimentare devi strutturalmente dal solco della natura. C’è tutto un sapere (basti pensare alle ricette e ai trattati sul gusto) che investe l’alimento e lo stacca irrimediabilmente dalla sua radice naturale, rendendo il cibo è fatto di cultura.

La civiltà occidentale nel corso del tempo ha modificato i modelli di bellezza e di eleganza della figura umana. Tali modificazioni sono riscontrabili nel cambiamento del concetto di “linea ideale”.

Senza addentrarci nell’analisi delle cause di tale modificazioni, possiamo cogliere il risultato considerando quando sia cambiato nei maschi e nelle femmine il concetto di “linea ideale” e come queste convinzioni influenzino il nostro stile di vita.

Trattare questo tema dal punto di vista della norma e della devianza ci porta da un lato a parlare di salute e di malattia, di sviluppo normale e sviluppo patologico e dall’altra a considerare come modificazioni culturali abbiano determinato concezioni differenti circa le abitudini alimentari .

La pratica del digiuno, non era assente in altre epoche ma era originariamente una pratica etica, per principio contraria ad ogni estremismo patologico.

Era una pratica che puntava, alle origini della medicina occidentale, alla salute del corpo e, nondimeno alle origini della morale occidentale, alla salute dell’anima.

Alle soglie del cristianesimo la pratica del digiuno iniziò connotandosi, nella prospettiva del dualismo oppositivo tra anima e corpo come uno strumento essenziale nella lotta del soggetto contro le forze diaboliche, nel segno di un’esigenza morale di purificazione di ascesi, di liberazione dello spirito dalle catene infette della carne.

Quindi il mistico, attraverso a rinuncia progressiva all’avere, e perché no, anche col digiuno, poteva cosi realizzare di svezzare l’anima.
Di qui il diffondersi, soprattutto nel tardo medioevo, delle esperienze mistiche di giovani santi che facevano ruotare le loro aspirazioni trascendente proprio sul rifiuto del cibo.

La “santa anoressica” si nutriva solo dell’ostia consacrata, riusciva all’avere per condurre una vita autenticamente religiosa.
Cercheremo ora di collocare quanto detto fino ad ora relativamente all’alimentazione in relazione allo sviluppo evolutivo, ponendo particolare attenzione ad alcuni momenti dello sviluppo quali: l’allattamento, lo svezzamento, la pubertà (la scolarità) e l’adolescenza
L’allattamento ha subito nel corso dei secoli vari accomodamenti e regolazioni, legate ai costumi, ai valori sociali ed economici del tempo.

Nell’Europa agli inizi dell’età moderna, l’allattamento al seno durava da un anno a diciotto mesi: un impegno così gravoso da essere ceduto con regolare contratto economico. La balia aveva avuto anche nei tempi antichi il ruolo di nutrire i figli dei ricchi ma dal 1600 al 1800 fu adottata dai ceti medio alti, non appena fosse stato possibile insieme il modesto corredo che le povere contadine richiedevano come compenso.

La medicina ufficiale, però per tutto il 1700, si batté contro il baliatico: si pubblicavano statistiche sull’alta mortalità dei neonati allontanati dalle madri, sull’infelicità dei piccoli e sul pericolo della disaffezione tra genitori e figli.

Nel XII sec., fu celebre la campagna condotta in Inghilterra a favore dell’allattamento al seno. Veniva citato Plutarco, che nei Moralia aveva già commentato come l’allattamento al seno fosse la condizione primaria per un buon attaccamento tra madre e figlio.

Intorno alla metà dell’‘800, le donne delle classi agiate allattavano ormai personalmente i figli, almeno nei primi tre mesi.

Da allora i criteri dell’economia e della moda hanno regalato le sorti di questo comportamento. L’allattamento presenta un percorso discontinuo, da rimedio alle separazioni dovute al lavoro materno, a scelta di classe per l’estetica del seno femminile, a ultima risorsa della pediatria moderna che ha riscoperto il valore del latte materno: per ragioni immunologiche, di regolazione del rapporto, di igiene e altro ancora.

L’alimentazione dal neonato all’adolescente rappresenta un aspetto essenziale di acquisizione di abitudini che avranno maggiori probabilità di essere mantenute in maniera naturale per il resto della vita.

Relativamente all’allattamento, attualmente è avvallata in tutto il mondo anche tecnologicamente più avanzato la superiorità del latte di donna rispetto a quelli artificiali: infatti il latte di donna oltre ad assicurare un migliore accrescimento, assicura la migliore (il che non vuol dire assoluta) protezione dalle infezioni, oltre agli aspetti psicologici, affettivi ed emozionali collegati.

Il comportamento di allattamento è molto complesso, consiste in atti di tipo adattivo, altri di aggiustamento posturale reciproco, altri di regolazione e costruzione dell’interazione ed è interessante rilevare, come evidenziato da recenti ricerche, che la competenza precedentemente acquisita dalle multipare non è sufficiente a soddisfare le esigenze di un piccolo del tutto nuovo.

La considerazione del rapporto madre-neonato come processo, diadico all’interno del quale entrambi i partner sono impegnati ad integrare reciprocamente le risposte in un flusso significativo, ha messo in evidenza i fattori derivanti dall’interazione e dalla mutualità della relazione.

Nel giro di due settimane il comportamento reciproco assume il ritmo di una relazione di interazione complessa, con scambi, turni, pause e risposte.

L’adulto che è il membro più competente della diade, si adegua ai ritmi e ai tempi del neonato, che è parte attiva e vincolante del rapporto.

Fin dai primi giorni di vita il neonato è perfettamente in grado di regolarsi da solo sia riguardo al numero di poppate da effettuare in un giorno, sia rispetto alla quantità di latte da introdurre a ogni pasto. Qualunque sia il tipo di allattamento, al seno o artificiale, offerto al lattante è importante ricordare che la limitazione della quantità di latte da offrire al lattante può essere individuata nella limitazione costituita dalla voglia di assumere cibo da parte dell’infante.

Si deve cercare di individuare e rispettare il più possibile le esigenze del singolo lattante che non deve essere forzato a terminare la quantità prefissa nel biberon, nel caso, ovviamente, dell’allattamento artificiale, ma mangerà di più in uno dei successivi pasti, ne deve essere staccato dal poppatoio se vi è ancora del latte, raggiunta la “dose”, qualora mostri ancora appetito; assumerà meno latte nel pasto successivo.

Così anche non deve essere svegliato perché è scattata l’ora, ne si deve lasciarlo piangere come un disperato perché l’ora non è scoccata.
Fondamentale è l’esperienza che una madre attenta acquisisce giorno per giorno osservando il suo bambino.

Sia per l’allattamento al seno sia per quello artificiale di fondamentale importanza è l’influenza dei fattori ambientali per un buon accrescimento fisico e psico – intellettuale.

È importante, per la madre – nutrice durante l’allattamento, assumere un’alimentazione equilibrata ed essere attorniata da un ambiente sereno e supportivo che le consenta di giudicare i segni della richiesta di cibo del bambino, distinguendoli sia pure genericamente da altre cause di pianto e agitazione. L’allattamento risulterà tanto più efficace quanto più sereno sarà l’ambiente familiare e sociale.

Non possiamo dimenticare la realtà del bambino trascurato, negletto fino ai gradi estremi del lattante maltrattato e come questa situazione incida sulla frequenza della malnutrizione più spesso di quanto si sospetti. Infatti la malnutrizione è 3 – 4 volte più frequente nei lattanti abused rispetto ai non abused. Stabilito il principio attualmente condiviso in maniera diffuso che almeno per i primi 4 mesi di vita il latte, possibilmente materno o diversamente artificiale adattato, rappresenta l’unico alimento per il lattante, interviene, compiuti i 4 mesi, l’opportunità di diversificare l’alimentazione del bambino. In realtà il mantenere l’allattamento al seno fino ai 6 mesi e probabilmente anche oltre non è da considerarsi errato.

Questo momento di diversificazione viene indicato come “divezzamento”; quale passaggio graduale o brusco da un’alimentazione esclusivamente lattea ad una mista.

Lo svezzamento è una tappa di crescita e autonomia.

Durante e dopo lo svezzamento sarebbe auspicabile che la mamma rispettasse la stessa regola valida per il periodo di allattamento: il bambino sa perfettamente di quanto cibo il suo organismo ha bisogno, per cui se cresce regolarmente è inutile costringerlo a mangiare quantità di pappa maggiori di quelle richieste.

È consigliabile non forzare il bambino a mangiare, se lo si lascia libero di mangiare quando ha fame e solo ciò che gli piace i suoi gusti muteranno naturalmente e finirà per amare ciò che ora rifiuta. Vorremmo altresì sottolineare che il bambino in questo periodo di vita non solo inizia a modificare in maniera sostanziale la sua abitudine alimentare ma vive altresì un intenso periodo affettivo ed emozionale e la modificazione dell’alimentazione fa parte di queste esperienze, sicché globalmente le varie componenti di evoluzione psichica e motoria, di alimentazione di attività fisica, devono essere indirizzate nella maniera più armonica possibile.

L’abituarsi al cucchiaino e il porre fine al biberon fa parte di questo complesso di esperienze e aumenta la possibilità da parte del bambino di dimostrare il rifiuto di un alimento, di allontanare dalla bocca, ruotando il capo o con la mano, ciò che non gradisce.

Il momento del pasto quindi non deve diventare un’occasione di scontro tra mamma e bambino, l’ansia che il piccolo percepisce può gettare le basi per un cattivo rapporto con il cibo. Se il bambino avverte che la mamma ha fiducia in lui e non si sente forzato, avrà le basi per affrontare serenamente anche gli altri momenti della sua vita e la mamma avrà imparato che amare il suo bambino significa anche lasciare che cominci a fare scelte da solo.

La madre che offre il nutrimento in base alle richieste del bambino, lo aiuta a sviluppare, progressivamente la nozione di “fame” come una sensazione distinta da altri bisogni e tensioni fisiche. Questa acquisizione consentirà al bambino e, in seguito, all’adolescente, a non ricorrere al cibo di fronte a tutte le tensioni.

Con l’inizio della scuola elementare la popolazione infantile, anche quella che precedentemente non aveva frequentato asili nido o scuole materne, si trova a trascorrere parte della giornata fuori casa con la conseguente assunzione di cibo al di fuori della famiglia.
Questa nuova esperienza di separazione può determinare situazioni di ansia, che possono riflettersi sull’alimentazione e sul peso corporeo.

L’ansia è normale nell’infanzia.

Spesso l’ansia può riflettersi nel rapporto con il cibo.

Un effetto fisico dell’ansia è la tendenza a dimagrire. Ciò può essere, in parte, dovuto a un aumento del metabolismo e, certamente, i bambini ansiosi possono, a volte, mangiare in modo esagerato e ossessivo pur rimanendo magri. Ma può anche capitare che i bambini ansiosi non godano dei normali pasti e vengano condotti dal medico per la loro mancanza di appetito.

Inoltre occorre sottolineare che l’alimentazione scolare o prescolare risente di un definito elemento storico, essendo stata concepita per sopperire a situazioni di indigenza con l’assunto che l’apporto a domicilio fosse scarso di alimenti di elevato significato nutrizionale.
Pur essendosi la situazione molto modificata, è rimasta da un lato questa impostazione e dall’altro la diffidenza delle madri preoccupate di un’insufficiente assunzione di elementi del proprio figlio nel pasto o nei pasti consumati nella struttura.

Le madri tendono quindi a sopperire in maniera incongrua e per eccesso a quelle deficienze di alimentazione che il più delle volte in realtà non esistono e il bambino finisce con l’essere iper-nutrito. È importante quindi che i genitori possano stabilire il miglior rapporto fiduciario possibile con chi si occupa dell’alimentazione e dell’educazione del loro figlio al di fuori della famiglia.

L’adolescenza si caratterizza per una serie di eventi biologici e psicologici di cui l’accrescimento, la maturazione psichica costituiscono il risultato finale. L’inizio di questo periodo della vita con i primissimi segni morfologici e funzionali e/o psicologici di maturazione puberale.

Anche nell’adolescenza possono comparire conflitti tra figlio/a e genitori per quanto concerne l’alimentazione: l’adolescente, alla ricerca di una sua identità e autonomia, rivendica di volersi alimentare secondo criteri strettamente personali in opposizione a quelli stabiliti dai genitori.

In questo periodo l’alimentazione diventa, anche nella scelta dei cibi, iniziativa individuale del soggetto. A quanto gli viene preparato in famiglia, egli tende sempre più ad aggiungere alimenti assunti fuori casa, sotto l’influsso di suggestioni di mode, azioni pubblicitarie, richiami psico-sociali.

Alcuni adolescenti di fronte a qualunque stato di tensione indifferenziata, sia che si tratti di fame, ma anche di noia, di solitudine o di malessere fisico, hanno la tendenza ad assumere cibo, con la possibilità di diventare obesi, allo stesso modo di quando da bambini ricevevano dalle loro madri del cibo indiscriminatamente qualunque fossero state le loro manifestazioni.

I problemi di individuazione, di separazione e di contatto che sottendono la crisi adolescenziale si manifestano con vari sintomi tra cui, oggi richiamano l’attenzione per la loro diffusione, quelli rappresentati dai disturbi della condotta alimentare, quali l’anoressia, la bulimia, l’alimentazione incontrollata e l’obesità. La condotta alimentare che all’inizio della vita in modo privilegiato aveva consentito al neonato uscito dal grembo materno di ristabilire un contatto tra il proprio mondo e quello della mamma ora avviandosi a concludere l’età evolutiva può essere di nuovo privilegiata con le manifestazioni anoressiche e bulimiche.

I disturbi della condotta alimentare alcune volte hanno un significato simbolico (esprimono, cioè, desideri e conflitti su di un piano psicologico che si ritiene abbia raggiunto una certa evoluzione); altre volte hanno invece lo scopo di riavviare tappe evolutive non adeguatamente superate, come quelle che segnano il passaggio dal somatico al mentale. Esse iniziano più tipicamente nell’adolescenza in quanto le trasformazioni somatiche (sessualizzazione) ed emotive (distacco dai modelli genitoriali) rappresentano un momento critico per la loro emergenza. Esse fanno si che il corpo diventi, inconsciamente, il banco di prova delle capacità di separarsi. È l’uso del corpo con finalità mentali che è centrale.

Infine vorremmo sottolineare come l’esistenza e la salute di un bambino dipendano, possiamo dire completamente, dall’amore di chi lo circonda.

È importante che chi vive a contatto con l’infanzia, genitori, educatori, insegnanti, non trascurino le anomalie del comportamento alimentare che un bambino può mostrare durante i pasti consumati a scuola o a casa.

L’alterazione dei ritmi, degli orari, delle quantità, dei gusti e dei luoghi legati al consumo del cibo sono fatti che non si producono senza ragione.

Il bambino può usare il cibo come le lettere dell’alfabeto ma al posto di usare il linguaggio per parlare, inizia a “mangiare” diversamente dal suo modo abituale.

Quando ci si trova alle prese con un bambino che non mangia più, o che mangia tutto ciò che trova fuori pasto, è consigliabile non tentare di correggere il suo rapporto con il cibo, non cercare di imporsi a tutti i costi: il problema non è alimentare.
Gli si può chiedere ad esempio se e perché è triste.

 

Recensione Inaugurazione CPF 2013 – Dott.ssa L. Ciccolini

“DISTURBI ALIMENTARI… PARLIAMONE”

Venerdì 22 Marzo si è inaugurato, presso il Comune di Torino, il Centro FIDA Torino – CPF, Centro di Psicoterapia e Formazione per la cura dei Disturbi Alimentari, che fa parte di FIDA – Federazione Italiana Disturbi Alimentari.

FIDA è una federazione costituita da otto associazioni situate in varie città italiane che condividono un modello di cura multidisciplinare integrato ad orientamento psicoanalitico.

A questa giornata inaugurale dal titolo: “Disturbi Alimentari… Parliamone” hanno partecipato numerosi specialisti in questo campo.

Queste patologie sono oggi una vera e propria epidemia sociale; in Italia, secondo il Ministero della Salute, soffrono di dca circa tremilioni di persone.

Inoltre, negli ultimi anni le fasce d’età colpite sono sempre più ampie e vanno dall’infanzia fino alla maturità e negli ultimi dieci anni, anche la popolazione maschile è stata colpita da questa patologia portando alla luce nuovi sintomi come l’ortoressia e la bigoressia.

Noi clinici, abbiamo constatato anche un cambiamento rispetto alla sintomatologia: infatti, accanto ai sintomi classici come anoressia, bulimia e alimentazione incontrollata, troviamo sempre più patologie parziali in cui sono presenti solo alcuni tratti della sintomatologia classica.

Queste forme di disturbi alimentari,definite sottosoglia, non devono essere sottovalutate perché possono evolvere in patologie più gravi o cronicizzarsi.

Partendo da queste considerazioni, la giornata è stata un momento di riflessione, informazione e scambio fra professionisti appartenenti a vari ambiti sia clinici che culturali, in merito alle diverse modalità in cui possono manifestarsi i disturbi alimentari.

I dibattito si è svolto, principalmente, in una tavola rotonda dal titolo: “Uno, nessuno, centomila: diversi volti dello stesso problema o problemi differenti?” il confronto fra i vari professionisti, ha fatto emergere la difficoltà nell’individuazione di queste patologie ché, se non manifestate in forme gravi, tendono ad essere sottovalutate sia dai soggetti sia dalla cultura. Nell’ambito dello sport, dei mass-media e della moda spesso il corpo magro viene enfatizzato e valorizzato come immagine a cui aderire per avere successo, il sintomo viene vissuto in modo ego-sintonico e dunque non viene curato.

In altri ambiti, invece, queste patologie, vengono confuse o mascherate da altri sintomi: uso di sostanze, abuso di alcolici, abusi e maltrattamenti subiti nell’infanzia o nell’età adulta, amenorrea, allergie o intolleranze alimentari, sono tutti segnali che nella maggior parte dei casi mascherano un disturbo alimentare.

Dal confronto della tavola rotonda è emersa l’importanza di un lavoro di prevenzione da effettuare in vari ambiti e della necessità di poter effettuare precocemente una diagnosi poichè la mancanza di cure e il protrarsi negli anni di questa sintomatologia spesso conduce ad una cronicizzazione del disturbo che in seguito diventa molto difficile da trattare.

Al termine di questo interessante dibattito, l’equipe del nostro Centro ha illustrato le possibili modalità di intervento clinico per curare queste patologie.

Si è evidenziato come la cura, sia lunga e complessa e necessiti di una equipe multidisciplinare composta da più figure professionali che lavorino in una costante integrazione in modo da poter costruire e garantire ai pazienti un trattamento idoneo che tenga conto della loro individualità e della specifica situazione clinica.

I vari membri dell’equipe nei loro interventi hanno evidenziato come all’interno del Centro CPF i percorsi terapeutici siano sempre costruiti sulle esigenze di ciascun soggetto e la cura si articoli attraverso colloqui preliminari, psicoterapia individuale e/o di gruppo, terapie espressive, monitoraggio dei parametri medico-nutrizionali, consulenza psichiatrica, sostegno e trattamento dei familiari.

Il Centro, inoltre, lavora in rete per le situazioni che necessitano di interventi più intensivi, con Ospedali, case di Cura e Comunità terapeutiche in modo da poter sempre garantire, a seconda del livello di gravità, l’intervento più idoneo mantenendo però, la continuità delle cure.

 

Responsabile Dott.ssa Laura Ciccolini FIDA Torino – CPF

Via Cordero di Pamparato 6 Torino Tel.011-7719091

www.f idadisturbialimentari.it