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Pensieri intorno a “Primo amore”, un film di Matteo Garrone del 2004

Bisogna prima togliere tutto e quando non c’è più niente dopo cominci a raschiare con calma e non butti  via niente, raccogli tutto in dei sacchi e dopo lo porti a bruciare e lo stesso resta ancora qualcosa.

Dopo che hai bruciato tutto restano le ceneri e poi si fondono le ceneri e finalmente resta solo quello che è prezioso, quello che conta veramente.

 

Potrebbe essere un inno alla perfezione. Anche i grandi scultori dicevano che perché una statua fosse perfetta non c’era bisogno di aggiungere niente, ma bastava semplicemente togliere tutto il superfluo.

Potrebbe anche essere la colonna sonora di una vita nell’anoressia, ricercando ciò che conta veramente nel resto del resto di ciò che rimane…

Vittorio e Sonia si conoscono grazie a un annuncio su un giornale inserito da lui, nella ricerca della sua donna ideale. La loro relazione stenta un po’ ad avviarsi a causa del corpo di lei, che non risponde perfettamente alle esigenze di Vittorio: è troppo grassa.

Poi però continuano a frequentarsi, si affezionano, si innamorano di una passione così travolgente che adempiono al tacito patto per cui Vittorio farà di tutto per modellare Sonia e lei glielo permetterà. Talmente rigide sono le regole da rispettare e talmente martellante l’ossessione dell’ideale da raggiungere che i due si chiudono nella loro stessa prigione che finirà per isolarli dal resto del mondo. Gradualmente si sfilacceranno le loro relazioni, perderanno il lavoro, perderanno di vista ciò che è per loro importante, perderanno di vista se stessi.

Una rappresentazione cruda e anche violenta del devastante quotidiano conflitto interno di un’anoressica.

La lotta perenne fra la testa e il corpo, fra la spinta del desiderio e il terrore del peccato, fra il sintomo e il soggetto che lo porta. E se ne innamora a tal punto da far fare di sé ciò che esso vuole.

Vittorio, a mio parere, altro non riflette che la parte sintomatica di Sonia, quella adibita al conteggio delle calorie, al controllo, alla punizione, nella ricerca di un ideale inesistente a partire dal raggiungimento del quale sarà possibile cominciare a vivere. Non c’è consapevolezza che invece il cammino verso quell’ideale è un cammino mortifero.

Sonia è il soggetto anoressico, identificato a tal punto con il sintomo da non riuscire più a pensarsi senza. E infatti, solo nel momento in cui Sonia si accorge che qualcosa si è incrinato nel suo rapporto simbiotico con Vittorio, e quindi con il sintomo, solo a quel punto vorrebbe liberarsene, ma non ci riesce e chiede a lui di lasciarla andare.

Difficile però separarsi se l’uno non è niente senza l’altra: “Non sei ancora un cazzo, Sonia. Neanch’io sono più un cazzo se tu te ne vai… Non posso lasciarti andare”.

Se non ci fosse Sonia, Vittorio non sarebbe più niente. Senza il soggetto, il sintomo non esisterebbe. Per questo il sintomo non se ne andrà mai da solo, ma il soggetto potrà, anche se con grande spesa in termini di sofferenza, liberarsene.

Sonia sarà sempre Sonia, anche senza Vittorio. Se l’individuo si spoglia del sintomo, l’individuo resta.

 

Dott.ssa Francesca Donati

Open day FIDA

Giornata del Fiocchetto Lilla contro disturbi alimentari

FIDA aderisce con open day e consulenze gratuite in tutta Italia

 

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Il romanzo familiare dei nevrotici e le elezioni politiche 2013

L’emancipazione dall’autorità dei genitori dell’individuo che cresce è uno degli esiti più necessari, ma anche più dolorosi, dello sviluppo.

In questo modo S. Freud nel 1908 inizia il suo saggio “Il romanzo familiare dei nevrotici” scritto per essere inserito nel libro “Il mito della nascita dell’eroe” di Otto Rank.

Otto Rank dal 1906 è l’allievo più giovane del Professore di Vienna, l’allievo che si avvicina alla psicoanalisi senza aver nessuna formazione umanistica ma che in pochi anni diventa il più alacre studioso delle commistioni tra psicoanalisi e arte, letteratura, mitologia.

Questo incipit m’è parso ghiotto per proporre un parallelo tra l’attuale situazione politica e il tentativo di svincolo dal romanzo familiare nevrotico.

Questo momento in cui tutto potrebbe esser pronto per dare avvio ad un cambiamento in modo da  “emancipare l’individuo dall’autorità dei genitori” e mutatis mutandis dalle vecchie volpi della politica italiana.

… il progresso della società si basa su questa opposizione tra generazioni successive.”  Ebbene non è forse proprio questo il nostro caso, avremmo un gran bisogno di “uccidere” dei padri istituzionali e amministrativi che ci hanno ridotto, per cupidigia e miopia, sul lastrico culturale ed economico ?

Dopo le rivoluzioni sessantottine nessuna contrapposizione vera tra generazioni, solo padri e figli che si staffettano aziende, trasmissioni tv, poltrone, cariche, proprietà; nulla di male s’intende, ma pochissimo apporto in termini di sviluppo… enormi e minuscoli interessi particolari, in fondo in Italia, anche le Poste sono un azienda familiare.

Il saggio del Professore continua invitando all’osservazione e all’analisi dei sogni a occhi aperti dei giovani “nervosi” affermando che i sogni ad occhi aperti rispondono sempre a due scopi “uno ambizioso e uno erotico”, ovvero una componente immaginativa di costruzione della propria identità futura e una di soddisfacimento pulsionale.

Abbiamo un disperato bisogno di sognare ad occhi aperti una spinta di desiderio che possa allargare gli orizzonti dalla bolletta da contabilizzare, dal conto del salumiere da ammortizzare, dalla rata della macchina da pagare.

Non è certo un caso se il maggiore consenso e, verosimilmente, il più grande bottino di nuovi voti sarà raccolto dal Movimento 5 Stelle che invita a pensare (sognare?) una Italia completamente differente in cui le competenze rimpiazzano le conoscenze e la democrazia è esercitata direttamente dai cittadini con un gradiente residuale di rappresentatività.

A sinistra Renzi, ci ha provato… buttando il cuore oltre l’ostacolo, sfruttando la più avanzata pirotecnica mediatica, arrivando quindi, secondo la scienza (poca) della comunicazione, ad un vastissimo numero di italiani. Ha perso, pur totalizzando un formidabile exploit, proprio perché ha trovato difronte a sé il muro invalicabile dell’establishment partitico… addirittura del proprio partito. Immagino assessori, consiglieri, funzionari PD di tutta Italia invitare i familiari, anche quelli che non sentivano da anni, tutta “‘a famigghia” insomma, a stringersi attorno alla  piccola poltrona e al grande padre Pierluigi, pacato, emiliano… nulla di più rassicurante, nulla di meglio per contrastare “l’opposizione tra generazioni successive“.

Sul versante opposto (?) di questo strambo bipolarismo all’italiana qualcosa di nuovo? Tantomeno! Un preparatissimo ragioniere e il solito accecante Silvio.

Ebbene Otto Rank nel 1923 dopo un progressivo raffreddamento dei rapporti con il maestro arriva ad una totale rottura, risoluzione della nevrosi familiare della società psicoanalitica viennese si direbbe. Se a quel giovane psicoanalista sono serviti 17 anni quanti ne potrebbero servire a noi ?

A quando la rottura della società civile italiana con la propria famiglia partitica?

Il 24 e 25 febbraio 2013 sembrerebbero bellissime date.

Dott. Lorenzo Franchi

Quando una è nessuna e centomila: “Lei così amata” di Melania G. Mazzucco

Da tutti voleva essere accettata, voleva la loro benevolenza, con tutti vivere in amicizia. Voleva piacere a tutti. Ci riusciva, tutti la viziavano, perché la trovavano “deliziosa”, o “delizioso” – scambio, equivoco, lapsus che, per lei, era fonte di divertito piacere.

Ma anche di un acuto dolore, perché sapeva perfettamente di non essere un “giovanotto” vero – solo la sua imitazione – e dunque finzione, teatro, nulla.

Lei così amata, Melania G. Mazzucco, Bur, 2000, p. 28

 

E’ la storia vera di un personaggio storico, Annemarie Schwarzenbach, scrittrice, archeologa, fotografa, giornalista, viaggiatrice, una vita breve (1908-1942) che si svolge sullo sfondo della società letteraria degli anni Trenta.

L’autrice le dedica un ritratto in bilico fra documentazione e invenzione, traccia il profilo straordinario di una creatura assolutamente inafferrabile da qualsiasi legge, che incarna l’erranza di un desiderio furioso sempre oltre la sua meta.

Annemarie è dovunque e il suo corpo è per chiunque, magrissimo, mutevole, marinaio o bambina, un corpo che accompagna di sottofondo tutto il libro perché Annemarie è inconsistente eppure travolge chiunque la incontri.

Cos’è che la rende così amata? Il suo essere sempre disidentica a sé stessa, Anne sfugge alla cattura, è in grado di sottrarsi continuamente alla presa del desiderio degli altri e perciò di nutrirlo.

Anne è desiderio allo stato brado al limite fra l’ebrezza e l’angoscia, l’estasi e la disperazione, nessuna tregua per lei che non smette mai di cercare il paradiso perduto.

Figlia di una ricca famiglia di industriali svizzeri, gente “vittoriosa, opulenta e appagata”, cercherà invano di cancellare le sue radici, di trovare un posto nel mondo al di fuori di quella casa a Bocken che “non ha niente di lei”.

Sola, di una solitudine accecante, viaggia in cerca di salvezza da una madre che la Mazzucco riesce a dipingere nella sua glacialità: “Sarà un disastro. Ascolta tua madre che ti conosce meglio di chiunque altro. Se ti sposi succederà una catastrofe”.

La vita di Annemarie è una sublime catastrofe, in collisione perenne con la madre, legate da un massacrante gioco di specchi e ambiguità, un amore impossibile il loro.

Tutta la vita di Anne alla fine può essere letta come una drammatica dedica a sua madre.

Nel romanzo Annemarie come un camaleonte tracima decine di personaggi: è l’angelo senza sesso, serio e terribile che fa innamorare chiunque; è l’amica di Klaus Mann, figlio di Thomas Mann, con il quale condivide inquietudini, droghe e viaggi; è perdutamente innamorata di Erika Mann, altra figlia di Thomas, che non la ricambia ma per la quale Annemarie è pronta ad annullarsi e umiliarsi; è la moglie elegantissima del diplomatico francese Claude Clarac; è la scrittrice e documentarista nell’Europa sconvolta dal nazismo, proiettata in Oriente, nei deserti di Persia e Babilonia; è la viaggiatrice instancabile; è la tossicodipendente, morfinomane, delirante, rinchiusa in manicomio al Bellevue Hospital di New York… e molto altro.

Annemarie è tutte queste donne e nessuna, si trasfigura, efebica, non sa dove andare, e per questo cavalca centinaia di luoghi, di incontri, di esperienze, può solo consumarsi lentamente, è febbre destinata a bruciarsi.

Seguirla nel suo smarrimento è un viaggio che ti costringe a riflettere su cosa sia “identità”. Annemarie è per tutti, riflesso del desiderio di ognuno, ti sorprendi ad amarla da lettore chiedendoti alla fine chi e cosa hai amato.

 

Dott.ssa Laura Cioni

La famiglia DCA

La famiglia è il primo luogo di esperienza dell’individuo: al suo interno si esperisce la cura, l’accudimento, il soddisfacimento dei bisogni, ma soprattutto vi facciamo l’esperienza dell’Altro da noi.

Ognuno dipende dalle persone che si prendono cura di lui a partire dalla nascita. Il modo col quale le cure parentali vengono offerte si rivela perciò essenziale nello sviluppo psichico degli esseri umani.

I bambini, proprio perché non sono cuccioli animali ma creature sociali, domandano a chi li ha messi al mondo non solo di essere nutriti, ma soprattutto di essere amati.Cosa si intende per essere amati? Si intende innanzitutto essere accettati e riconosciuti nella propria particolarità. Per questo nutrire e amare sono due cose diverse.

Un bambino ha bisogno del dono del nutrimento da parte della madre, ma anche di un altro genere di dono: il dono del segno d’amore, cioè comunicare al bambino che la sua vita, la sua presenza, il suo corpo e la sua immagine sono importanti e amati nella loro unicità.

Se invece il bambino viene solo nutrito e non gli viene trasmesso il valore che rappresenta per chi lo circonda, la sua crescita psicologica, la sua fiducia nell’affrontare la vita, il rapporto che avrà con il suo corpo e con il suo sesso potrebbero essere compromessi.

Spesso, scavando nel passato delle pazienti con un disturbo alimentare, si delineano ritratti di famiglie di origine con caratteristiche simili.

La famiglia DCA sembra ad un primo impatto una famiglia ideale: i genitori sono dediti al lavoro e alla casa, ligi al dovere, alle norme sociali e convenzionali; come la figlia che spesso è la prima della classe. Questo però, si rivela essere solo l’involucro della famiglia, poiché dietro la facciata si nasconde una mancanza di un valido rapporto affettivo tra genitori e figli.

In una famiglia perfetta non possono esistere scontri e discussioni, per questo non sono apertamente permessi, ma esiste sempre uno stato di permanente tensione sotterranea, tendenza al malumore e all’irritabilità.

Per evitare gli scontri diretti occorre compiacere gli altri, fare ciò che gli altri vogliono che facciamo; in questo modo però il figlio non può attuare la naturale separazione dal genitore e resta così legato alle aspettative dell’altro, incapace di creare un senso di Sé stabile, tanto da dover ricercare costantemente la propria consistenza nei rispecchiamenti forniti dalle relazioni interpersonali: l’altro, come uno specchio, rimanda un’immagine di conferma.

Anche verso le persone significative estranee alla famiglia, si tende a mostrare l’aspetto migliore di sé, sempre tesi ad adeguarsi per compiacere gli altri, ma senza una reale felicità e soddisfazione personale.

A volte già nell’infanzia il mangiare troppo o troppo poco, rappresenta l’unica possibilità di libera scelta. L’obesità diventa una forma di rassegnazione-protesta, l’essere magra e quindi carina l’unica chance per farsi notare dal proprio padre nelle sue rare comparse.

E’ interessante notare la discrepanza che esiste tra i vissuti ed i ricordi dei genitori e dei figli: i genitori di pazienti DCA parlano di figli perfetti, senza nessun problema fino all’adolescenza, mentre i diretti interessati ricordano un’infanzia piena di infelicità e frustrazioni. Non potevano mai fare o dire quello che volevano o sentivano, ma erano sempre anticipati o giudicati nelle loro espressioni personali.

Un genitore che teme il coinvolgimento per paura di perdere la sua facciata perfetta (tipico dei padri di pazienti DCA), continua ad occuparsi vagamente dell’aspetto fisico del figlio o, se mai, di come vada a scuola, ma non di cosa pensa, di cosa sente e di quali problemi abbia.

E’ proprio qui che ritorna il concetto della differenza tra nutrire ed amare e, secondo Recalcati, è proprio questo il nodo centrale della rivendicazione dell’anoressia-bulimia. L’altro può non amare, trascurare l’anima del bambino, distrarsi o soffocare, insomma non essere presente nel modo giusto.

Il rifiuto o l’eccesso del cibo prende quindi una doppia accezione: da una parte è un tentativo di suscitare nell’altro quelle attenzioni e quella presenza che non ha saputo dare, dall’altra è la manifestazione del rifiuto della fiducia nell’altro.

Il corpo, unico spazio di azione di queste ragazze, diventa troppo grasso nell’obesa così da fare da cuscinetto all’esterno e troppo magro nell’anoressica tanto da spaventare e diventare  uno scudo tra il sé e l’Altro.

 

Dott.ssa Carlotta Bettazzi

Riflessioni su “Storia di un corpo” di Daniel Pennac

Un diario, una storia.

Tempo fa tenere un diario era un’abitudine consueta, quasi scontata, il bisogno di condividere con se stessi uno stato. Rendere tangibile con dei segni i pensieri, le sensazioni, le emozioni di una giornata, di un momento.

Oggi lo si fa su facebook, con l’intento di condividerli con gli altri, con tutti e con nessuno, perché chissà chi leggerà questo stato. Quindi tutto sommato si continua a scriverlo per sé, ma si è abbandonato il lucchetto e il diario è lasciato in bella vista sulla scrivania.

Questo è un diario alla vecchia maniera. Tenuto così nascosto che nessuno sa della sua esistenza fino alla morte del proprietario che in un desiderio finale di condivisione (ma senza il desiderio di ascoltare il commento dell’altro) lo lascia in eredità perché possa esserlo con tutti, amici e non, stimolando addirittura una pubblicazione. Facebook per un signore di ottant’anni, che non poteva ritenersi soddisfatto a tenersi per sé l’evoluzione dei suoi pensieri attraverso l’evoluzione e l’involuzione del proprio corpo.

Perché questo diario nasce con questo intento: narrare, o meglio fare storia, esclusivamente della vita di un corpo. Senza il corollario dei pensieri e delle emozioni a Lui collegate. Intento che fallisce, non tanto per colpa dell’autore del diario, che in settant’anni di scrittura si impegna a rispettare il compito che si è assegnato, ma perché l’atto stesso di raccontare è inevitabilmente contaminato dal pensiero su ciò che si narra.

Questo strano diario nasce dall’esigenza di darsi, crearsi, costruirsi un corpo; corpo non considerato fino a quel momento per vivere l’amore più grande, quello verso il padre morente, attraverso una comune assenza di corporeità che li rende entrambi fantasmi agli occhi degli altri. Fino al bisogno di sconfiggere i propri di fantasmi e di rendersi corpo forte attraverso la somiglianza alla figura di un manuale di anatomia, perché quello d’esempio paterno è irrintracciabile nella memoria.

E dunque si susseguono muscoli che si sviluppano, evacuazioni, eiaculazioni notturne, orgasmi, passeggiate e riposo, lievi e intensi dolori e piaceri, bizzarri esperimenti, durante i quali questo corpo si rende anatomicamente perfetto e poi, ad un certo punto, si incammina verso l’imperfezione inevitabile, quella della malattia e della morte.

In tutto questo non la fa da padrona il corpo, ma la personalità, l’umorismo, la sensibilità, il cinismo, la bontà, la cattiveria, l’amore, il disprezzo, la forza, la paura… il tutto dell’io narrante, che usa il proprio corpo per poter parlare di sé a sé finché è in vita, e dopo la morte ai suoi cari, che in eredità non riceveranno il manoscritto di una persona perduta, ma potranno conquistare qualcuno da scoprire e conoscere.

Questo scritto è, così come dice l’autore, intrigante per chiunque abbia un corpo, ma forse ancor di più per chi, per professione, ascolta quotidianamente il fare storia di sé attraverso lo stratagemma inconsapevole di narrare le vicissitudini dei propri corpi. Corpi feriti e curati, torturati e coccolati, odiati e amati, che tentano di svanire, evaporare, o viceversa, strabordare.

Riprendendo un’affermazione dell’autore (autore del libro o autore del diario non è dato saperlo, come avviene negli scritti più riusciti) “più lo si analizza questo corpo moderno, più lo si esibisce e meno esso esiste”. Questo succede negativamente nella patologia quotidiana, ma anche positivamente nel percorso di cura, quando, dopo giorni, mesi, anni in cui il titolare del corpo lo scandaglia nei minimi dettagli, ad un certo punto lo stesso corpo smette di essere protagonista, come succede nel diario, e si mette nella condizione di corollario dei pensieri e delle emozioni del suo “proprietario”.

Solo attraverso questo processo ci può essere questo passaggio spontaneo. Le storie che funzionano sono quelle che, al di là dell’inizio e della fine, hanno la possibilità di svolgersi. Alcune hanno una vita breve, altre molto lunga, ma avere la pazienza di lasciare che si sviluppino, non voler arrivare subito alla fine del libro, alla risoluzione degli eventi, rende il soggetto narrante comprensibile al lettore e cosa più importante, a se stesso.

 

Dott.ssa Stefania Boldrini

L’errore fotografico


Nell’epoca del perfezionismo, del digitale che tutto (o quasi) permette, del fotomontaggio, ma più in generale, nell’epoca dell’immagine ideale (o dell’ideale dell’immagine, che dir si voglia), è interessante proporre una riflessione, seppur breve, intorno alla odierna capacità del fotografo, che altro non è se non colui che “scrive con la luce”, di fare (o forse meglio, di concepire) degli errori.

Neanche dieci anni fa è uscito un libro ad opera di C. Cleroux, conservatore del fondo fotografico del Centre Pompidou de Paris, intitolato proprio “L’errore fotografico” il quale apre la sua narrazione attraverso il racconto di un evento storico assai significativo quanto singolare nella storia della fotografia, ovvero l’organizzazione, e l’inaspettata riuscita, nel 1991, di un concorso a premi indirizzato a fotografi amatoriali che si poneva il particolare obiettivo di raccogliere sì i loro migliori scatti, ma errati.

Ignorando completamente la possibilità che tale manifestazione suscitasse un tale interesse, oltre al fatto che lo stesso A. Fleig (uno dei giurati) ammise che mai alcuna mostra da lui curata avesse smosso un tale interesse, il paradosso non tardò a verificarsi: lo stesso Fleig iniziò a denigrare ciò che lui stesso aveva promosso fino a quel momento, probabilmente spaventato dall’enorme risonanza e fascino che l’argomento soggetto del concorso stava esercitando sul grande pubblico: l’arte dell’errore, il fallimento potremmo dire, rispetto ad una tecnica di luce, nitidezza, composizione della fotografia, stava esercitando un fascino sul grande pubblico molto più di quanto lo avessero fatto molte altre opere “ben riuscite”.

Ecco quindi come, attraverso lo studio e l’osservazione dell’errore fotografico (e non la sua celebrazione, sia chiaro), il libro di Cleroux cerchi di costruire una teoria della conoscenza della tecnica fotografica, prendendo spunto sia dagli scritti di  G. Blanchard, secondo il quale è proprio “in forma di ostacoli che dovremmo porre il problema della conoscenza scientifica”, che attraverso le conferme di molti altri illustri personaggi dell’epoca sostenitori della verità insita nell’errore (si pensi solamente alle teorie di Freud intorno ai lapsus e agli atti mancati); un saggio sull’errore, qui inteso come quella ardua capacità di incontrare l’imprevisto fotografico, come quello “strafalcione tecnico”, quella discrepanza che intercorre tra la foto giusta e quella sbagliata, proprio lui, l’istanza rivelatrice di verità e di senso, come quell’atto (mancato e inconsapevole) attraverso il quale qualcosa di nuovo e prima d’ora celato, si svela agli occhi degli osservatori.

La lettura del libro ci da la possibilità di rileggere in modo curioso e dettagliato i numerosi eventi che hanno caratterizzato quella che viene chiamata Fautographie – errore fotografico, appunto – che da sempre hanno acceso dibattiti appassionati e costruttivi, contribuendo inoltre, proprio attraverso la loro manifestazione, allo sviluppo della tecnica fotografica stessa: come? Osservandone gli errori.

Se prendiamo per buono l’apparato epistemologico su cui si basa il libro di Cleroux, non possiamo esimerci dal porci una domanda piuttosto centrale nell’epoca contemporanea, dove il culto dell’immagine “perfetta”, esente da errori, ritoccata, smaltata, virata, contrastata polarizzata ritagliata nitida luminosa scura chiara… è oramai ampiamente e preferibilmente praticato; cosa rimane oggi nella fotografia (e forse, non solo) di quell’errore che tanto affascinò ed incuriosì il grande pubblico neanche 20 anni fa?

“Vogliamo sempre che l’immagine sia tale e quale al nostro io, che di per sé è molto frammentato, potesse la fotografia darmi un corpo intatto!” scriveva R. Barthes, perchè in fondo il desiderio esasperato di colui che viene ritratto (così come di chi ritrae), è proprio quello di essere riprodotto fedelmente, tale e quale la propria immagine: non si può scoprire, sottolineare o “incontrare” una smorfia o un’ombra diversa che non ha mai fatto parte di quella immagine, proprio e solo quella, perché?

Forse qualcosa potrebbe compromettersi, forse quell’idea di frammentazione e ignoto prenderebbe troppo spazio nel proprio pensiero.

Cosa sia, non possiamo saperlo, dato che sempre più difficilmente permettiamo che essa si sveli nel suo “errore”: per adesso, infatti, è molto meglio Photoshop.

Dott.ssa Claudia Vallebona

Dovere o potere, sparire o rinascere


Il primo approccio alla domanda di cura in psicoanalisi, è di fronte a una domanda che concerne il dovere e al contempo il fare; due questioni queste a dir poco pregnanti nel percorso analitico di ogni individuo che vi si avvicina.

Puntualmente ci sentiamo chiedere: cosa devo fare? Supposto che in psicoanalisi non si hanno risposte esplicite proprio a sottolineare la soggettività degli individui per cui per qualcuno è utile una cosa per qualcun altro un’altra, nella mia opinione è proprio nei termini della domanda che sta il nodo e lo snodo dell’esistenza di ciascuno di noi come soggetto.

Finché si rimane in un’ottica di dovere, è come se viaggiassimo su un binario senza sapere con esattezza dove porti e senza avere la possibilità di deviare il tragitto.

L’unica alternativa che abbiamo è quella di opporsi/non rispondere al dovere, rallentando la corsa, fino a fermarsi. Con la sola conseguenza evidente del senso di smarrimento, disorientamento, privi di ogni punto di riferimento, né certezze, causato dal percorrere un cammino che non è il nostro, e quindi sconosciuto.

Possibile che l’unica nostra certezza sia il dovere postoci dall’Altro?

Sicuramente la vita ci investe di responsabilità da considerare seriamente come parti integranti di noi, ma altrettanto sicuramente accanto ad esse si apre tutto un ventaglio di possibilità all’interno delle quali possiamo scegliere ed avere la possibilità’ anche di rivedere la scelta, una volta che si ha consapevolezza che il ventaglio è aperto.

Forse di certezze ce ne sono meno, stiamo in questo caso viaggiando senza binario, senza rotaie ma possiamo decidere che strada percorrere e a che velocità. Ecco allora emergere la nostra soggettività. Il dovere, il binario unico, schiaccia il soggetto sotto la sola certezza della stabilità delle rotaie; il percorso libero lascia emergere il soggetto nella sua identità attraverso le sue scelte di vita, positive o negative che siano. Anziché rispondere ad una richiesta di fare, il soggetto inizia ad essere.

… tra il devo e il posso… dove finisce il fare… comincio ad essere io.

Dott.ssa Francesca Donati

Famiglie che uccidono

Se una sola uccisione potesse saziare questa mano, non ne avrei perpetrata nessuna. Anche uccidendone due è un numero troppo piccolo per il mio odio. Se qualche creatura si nasconde ancora nel mio grembo, mi frugherò le viscere con la spada e la estrarrò col ferro.” (Medea vv 1009-1013)

La famiglia può uccidere. La casa da “nido” può diventare trincea di violenze, soprusi e maltrattamenti. Questo ci sorprende perché va contro ogni logica intuitiva e popolare.

Non ci sorprende invece pensare a una violenza perpetrata contro chi è “straniero”, contro chi non ci è familiare.

Il conflitto lo si immagina più facilmente nel campo delle grandi differenze, laddove due soggetti (popoli, individui, partiti, squadre… ) siano esplicitamente e intuitivamente “lontani e stranieri” per luogo d’origine, tradizioni, linguaggi e ideali.

E in famiglia allora come mai? Luogo della vicinanza e dell’intimità, della similarità e dell’identificazione? Se in famiglia per definizione non si è “stranieri”, ma “familiari” quale paradigma a sostegno delle “guerre interne”?

Accade spesso che ciò che si agita nelle famiglie sia proprio un’impossibilità a far emergere un’individuazione dei propri membri cioè quella quota di estraneità che tuteli gli uni dagli altri. La difficoltà che spesso emerge nei nuclei familiari è proprio quella di sapersi disidentificare, di riuscire a restituire a ciascun membro il proprio “confine territoriale”.

Non si tratta solo di un problema “concreto”, cioè di non invadere troppo lo spazio dell’altro (con il corpo, con le richieste, con le aspettative, con le intrusioni) quanto di un discorso simbolico. Sappiamo che la distanza fisica, spaziale, contingente, non basta a scindere legami. Possiamo continuare a sentirci legati a qualcuno anche a distanza di anni o di chilometri.

I legami che tengono insieme i membri di una famiglia sono intrisi dei “fantasmi” di ciascun membro, cioè, dicendolo in modo estremamente semplificato, delle fantasie inconsce di ciascun membro sull’altro. Ognuno “porta dentro di sé” una rappresentazione inconscia di ciò che l’altro (figlio, moglie… ) rappresenta per sé stesso.

Tale rappresentazione inconscia influisce nella tessitura e nella distruzione dei legami con l’altro molto di più di quelle che sembrano le scelte obiettive e coscienti (mi piaci per questo, questo, quest’altro ti odio per questo e per quello). Fondamentalmente la vita di ciascuno di noi è un rebus in cui i nostri comportamenti e gli eventi che ci accadono sono soltanto le “vignette” visibili dietro cui si nasconde il discorso inconscio con cui le abbiamo “disegnate”.

Per continuare con la metafora del rebus prendiamo il mito di Medea che uccide i figli per vendicarsi di Giasone, il marito che la lascia per prendere in sposa Glauce. Quale discorso regge la scena? Perché annienta proprio i figli? Proprio ciò che è sangue del suo sangue, ciò che apparentemente sembra più “vicino”, più familiare, più simile alla sua carne?

Medea uccidendo i figli segnala una totale impossibilità di riconoscere e elaborare l’esperienza dell’abbandono e della distanza, sentita come invivibile, come assolutamente non elaborabile per una futura trasformazione di vita. Per Medea non c’è possibilità di immaginarsi un’evoluzione che la traghetti in un “dopo Giasone”. Uccidere i figli che sono i suoi oggetti d’amore è un tremendo omicidio che lei compie per “fermare” il tempo, per annullare, nel punto preciso dell’abbandono, ogni possibilità di crescita.

La dipendenza con loro è primordiale e assoluta: Medea, tradita e abbandonata, non consente che i figli vivano fuori di lei e li riannulla in sé.

Medea non opera una distinzione fra le rappresentazioni inconsce dei figli e del marito (da cui lei sente di dipendere) e il loro essere individui reali, separati, con un’altra consistenza. Le rappresentazioni, i fantasmi inconsci di Medea travalicano e travolgono il reale dei corpi. Medea compie un passaggio all’atto dei suoi fantasmi. Ecco che ella non “poteva” uccidere solo se stessa, perché a “guidarla” era quella rappresentazione di un legame assoluto e immaginario con i suoi tre oggetti d’amore: Giasone e i suoi due figli. Quando uno di essi decide di mancare all’appello nella realtà (Giasone), creando una frattura, Medea è “costretta” per via dell’angoscia a far fuori tutto il nucleo, a riportarlo nel limbo. Il gesto di Medea è disperato.

Medea ci turba, come turbano le cronache ogni volta che leggiamo di un ennesimo caso di violenza fra le mura domestiche. Tanto più che ogni volta i ritornelli che sentiamo dai media sono “era una persona tanto per bene”, “sembrava una famiglia tranquilla”, “sembravano tanto uniti”. Queste affermazioni segnalano di come in realtà molto spesso la facciata di “perbenismo e di unione” celi un’aggressività e una quota di estraneità verso i propri familiari che rischia di esplodere in un agito se non viene riconosciuta e maturata. A dire che il concetto di Unione con l’altro, è un’idealizzazione, è un miraggio pericoloso e non evolutivo.

L’unione , quando non riesce a fare i conti con il fatto che siamo prima di tutto “stranieri” ai propri stessi partner o figli, può implodere in un aggressione distruttiva. L’unione è qualcosa che appartiene all’ordine della concettualità, della fantasia, della rappresentazione. Due soggetti non potranno mai riunirsi in un paradiso mitico. Con la nascita viene sancito il taglio. Il “Fare uno” è un impossibile da riconquistare (come quando eravamo nel grembo materno) sebbene spesso la fantasia collettiva che guida gli immaginari popolari vada nella direzionedel ri-unirsi: “siamo due cuori e una capanna, l’altra metà della mela, siamo una cosa sola…”.

Molto spesso i figli o i partner possono assurgere nelle nostre fantasie inconscie elementi di saturazione di nostri “buchi”. E’ chiaro che la separazione da loro talvolta è talmente impensabile da potare a compiere atti violenti.

Vedendola da questo punto di vista ciò che è “familiare” cessa di essere solamente intriso di romanticismo e il concetto di “estraneità” cessa di suscitare turbamento, essendo una quota di estraneità fondamentale per la sopravvivenza stessa della famiglia e della comunità tutta.

La categoria del “familiare” anzi diventa suscettibile di un’operazione perturbante: da un lato alimenta le fantasie di potersi riunire finalmente con qualcuno, di potersi sentire all’unisono, sotto lo stesso tetto, come dentro lo stesso utero. Dall’altro il familiare è qualcosa che ci chiama urgentemente a fare i conti con la caduta dell’illusione dell’adesività pena il collasso della sistema famiglia in un’involuzione aggressiva dove ci si annienta a vicenda per tornare al punto zero.

Il primo vero “atto interculturale” avviene (o non avviene) in famiglia, nel riconoscimento che ciascun membro è portatore di un’identità assolutamente inviolabile, e inassimilabile a quella del resto del gruppo, e che una quota di estraneità è ciò che tutela il gruppo famiglia dall’incesto, dal sopruso e garantisce la maturazione della singolarità.

Dott.ssa Stefania Boldrini

La verità vi prego sulla Danza: intervista a Mariafrancesca Garritano

Intervista a cura di RisorseDanza.com

 

“Cari amici, è nostra ospite gradita Mariafrancesca Garritano, in arte Mary Garret, étoile del Teatro alla Scala di Milano e negli ultimi mesi protagonista di un acceso dibattito intorno al tema “danza anoressia.

Nata a Cosenza, dove fin dalla tenera età inizia a studiare danza e a coltivare il sogno di diventare una ballerina professionista, decide di realizzare il suo sogno approdando alla Scala di Milano.

Superata l’audizione alla scuola di ballo, dopo due anni si diploma ed entra a far parte del corpo di ballo dove lavora per molti anni. Ma lasciamo la parola a lei che sicuramente ha molte cose da dirci…

 

Quali consigli si sente di dare ad un giovane che oggi decide di avvicinarsi a quest’arte?

Ogni giovane che intraprende questo percorso è spinto da una forte passione e da qualcosa di inspiegabile che gli consente di andare avanti a dispetto di qualsiasi cosa. È così che deve essere ed è giusto mantenere viva quest’arte dentro di sè, senza permettere a nessuno di minare la propria autostima o di indebolirci con messaggi che propongono falsi ideali, artistici e corporei.

Mi capita spesso di dire questa frase di cui sono fermamente convinta: essere danzatori non significa perdere la propria dignità di esseri umani. Questa è una cosa non bisogna dimenticare mai!”

 

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