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Relazioni in trappola.

Venerdì 28 marzo. Le Murate caffè letterario.

E’ indubbiamente più semplice empatizzare con la donna che subisce violenza, con colei che indossa i segni visibili di una sofferenza non solo fisica, ma anche psicologica. In Italia 3 donne su 10 vivono una condizione di abuso da parte dei loro compagni e sono costrette a convivere con la paura fra le mura domestiche, spesso senza la forza di denunciare gli eventi.

Per questo è necessario effettuare un intervento preventivo che guardi anche l’altra faccia della medaglia, ovvero l’uomo maltrattante, o come preferisce chiamarlo il Dott. Mario De Maglie, l’autore di violenza.

Mario De Maglie, psicologo e psicoterapeuta dell’approccio centrato sulla persona, dal 2009 lavora e coordina il C.A.M., Centro Ascolto per uomini Maltrattanti di Firenze, il primo centro in Italia che si occupa della presa in carico di coloro che agiscono la violenza, specificando così che non esistono dei “mostri”, ma solo persone che, come tutti, hanno una loro storia e i loro problemi.

Diversamente da come si potrebbe immaginare, molti di loro arrivano al C.A.M. spontaneamente. Si accorgono di aver oltrepassato il limite, magari dopo un episodio di violenza più forte del solito, o hanno letto negli occhi dei loro figli la sofferenza, oppure il loro incubo peggiore è diventato realtà: la loro compagna li ha abbandonati.

Spesso qualcuno dice che queste donne sono attratte da individui del genere, ma non è così. Le loro storie iniziano come tutte, senza violenza, con un primo periodo meraviglioso e perfetto. Ma poi, quando l’uomo inizia a nutrire più affetto, inizia anche ad avere paura di perdere tutto questo, poiché è diventata la cosa più importante che ha. In questo momento scatta la gelosia, molti se ne rendono conto, ma non possono far altro che aumentare il controllo che hanno sulla vita della donna amata, cercando di isolarla e di tenerla più vicino possibile a sé. Purtroppo, in questo modo ottengono il risultato opposto, allontanano sempre di più la loro compagna che inizia a sentirsi in trappola, nella stessa trappola che l’uomo ha costruito con le sue paure e i suoi timori dentro se stesso e che ora va ad abbracciare e inglobare anche il suo tesoro più prezioso.

Le emozioni che vengono esperite in questo momento sono giuste, ma ciò che è scorretto è il comportamento che ne deriva. La rabbia e la paura sono le compagne costanti dell’uomo, che nel momento del conflitto si armano e lo difendono dall’angoscia che lo sta divorando internamente, ma esternamente sbranano la relazione che vorrebbe preservare.

La violenza non è eliminabile, fa parte della natura umana, ma queste emozioni forti e intollerabili possono essere individuate, comprese e riassegnate di altro significato, ovvero non fonte di violenza, ma fonte di dialogo. Il conflitto nasce nel momento in cui una persona si sente costretta a difendersi, dunque quando un’importante parte di sé si sente minacciata e l’unica cosa da fare per ristabilire la situazione precedente è imporsi sull’altro e agire. In realtà è possibile evitare tutto ciò, parlandone, comunicando le paure e le incertezze all’altro, esprimendole senza provocare una reazione di difesa, facendo capire che tutto ciò deriva da me e non da lei.

Agire sull’autore di violenza dunque diventa prioritario. L’abuso inizia sempre con uno sguardo minaccioso o attraverso parole che feriscono e lentamente evolve fino alle sue forme più gravi. Se colui che lo compie riconoscesse la sua rabbia come incontenibile, un intervento precoce potrebbe impedire l’escalation di agiti che ne potrebbe derivare.

Potremmo identificare la violenza come sintomo di una dipendenza affettiva, nella quale risulta importante l’attenuazione degli episodi attraverso delle tecniche di gestione delle emozioni, ma risulta altrettanto essenziale sviluppare quell’arto di sé mancante al posto del quale è stato messo l’altro. Quindi ricostruire il soggetto senza l’oggetto di dipendenza, capendo dove lo sviluppo si è interrotto e per sopperire a ciò è stato inserito l’altro.

Dott.ssa Sofia Degli Esposti

Del corpo e d’altre storie.

Corpo e cibo nell’immaginario fiabesco.

Tra gli alti e sapienti scaffali della libreria Salvemini, il 18 marzo, si è propagata la voce di Federico Paino, carismatico speaker, attore e operatore dell’associazione Heta Ancona. Al suo fianco Adalinda Gasparini, psicoanalista, esperta di fiabe e miti e Laura Cioni, psicoterapeuta, psicanalista appartenente all’associazione Dedalo FIDA e attrice. Tre importanti figure che si sono riunite in occasione della giornata nazionale del fiocchetto Lilla, per la prevenzione dei disturbi alimentari. Hanno scelto di trattare quest’argomento in maniera diversa, partendo da due favole, specchio della nostra cultura e metafora della nostra vita, scritte da due illustri narratori italiani: Gaimbattista Basile e Sergio Tofano.

“So che mi hai sempre amata con tutte le tue ciliegine; per questo mostrami al fondiglio dei miei anni la schiuma del tuo amore, promettimi di non sposarti mai se non trovi un’altra donna bella come sono stata bella io, altrimenti ti lascio una  maledizione a tette spremute e ti odierò fin dentro l’altro mondo”.

Queste sono le parole scritte dalla penna di Giambattista Basile, contenute nel “Pentamerone”, che vengono pronunciate dalla mamma di Preziosa, alla fine dei suoi giorni, rivolta a suo marito e suo re. Solo una donna di uguale bellezza potrà sostituirla nella vita del suo amato. Chi potrebbe essere identica a lei, se non il sangue del suo sangue? Quest’ordine perentorio proveniente dalla madre riflette la sua identificazione con la figlia e viene tacitamente  accettato dal padre. Il mancato riconoscimento della diversità di Preziosa, porta quest’ultima a non accettare più il suo essere donna. Preferisce trasmutare il suo corpo in orsa, animale di forme completamente discordi dall’idea di bellezza femminile, per evidenziare le differenze che esistono tra lei e la madre. Solo il figlio del re di Acquacorrente, che riesce ad apprezzarla anche nella sua forma animalesca, riuscirà ad avvicinarla e farle riacquistare le sue vere sembianze, seppure lei avrebbe preferito rimanere orsa, mostrando così a tutti i suoi lati negativi. Solo il riconoscimento della rottura del legame con la madre porterà Preziosa a non negare più il suo corpo e ad accettare la propria immagine di sé.

“Tristissimi giorni furono quelli per Uguccione della Stagnola. Non mangiava più, non beveva più, non dormiva più, non rideva più; e di giorno in giorno dimagriva, dimagriva, dimagriva; a guardarlo fisso lo si vedeva dimagrire. Tanto che l’armatura adesso, appena lui si muoveva, gli ballonzolava addosso; e un giorno che, uscendo di casa, inciampò e cadde, rotolando per le scale che erano lunghissime finì con lo sgusciare intero intero da una manica della stessa armatura”.

Così avvenne il primo cambiamento fisico di Uguccione della Stagnola, protagonista della novella di Sergio Tofano, contenuta nel libro “Cavoli a merenda”. Il suo assottigliamento avvenne per dispiacere: la biondissima Doralice non voleva più sposarlo, non voleva un uomo con addosso una rigida armatura appartenente ad epoche passate, che, invece di romperla, preferiva trascorrere tutta la vita imprigionato in essa. Nel momento in cui riesce a scivolare via da questo peso del passato, la sua amata lo accetta come marito. Ma, seppur non volendo, Uguccione resta imprigionato nuovamente nella sua armatura, dopo essere ingrassato a dismisura. Questa volta però il nostro capitano prigioniero di sè stesso non la prende male, accetta la sua condizione e reputa che non valga la pena sforzarsi per cambiare nuovamente. Improvvisamente però, l’armatura si rompe! Uguccione è diventato troppo grande per essere contenuto da quell’antico ferraglio e spacca l’armatura dal suo interno, distruggendola definitivamente e liberandosene per sempre. I suoi cambiamenti corporei gli permettono di rimanere intrappolato o di abbandonare quell’insieme di tradizioni e credenze che lo legavano ai suoi avi.

Sia Preziosa che Uguccione sono rimasti legati ad una figura familiare del passato che non permetteva il riconoscimento della loro unicità, ma che vedeva la loro esistenza legata esclusivamente ad essi. Il canale attraverso cui hanno deciso di manifestare il proprio malessere, in modo conscio o inconscio, è stato il corpo.Ciò che gli ha permesso di tagliare il cordone ombelicale che li vincolava al loro passato è stata l’accettazione da parte dell’Altro e di se stessi della loro unicità, il riconoscimento della loro diversità.

Dott.ssa Sofia Degli Esposti

25 Gennaio 2015 – Workshop “I segreti della comunicazione efficace”

Dr.ssa Laura Cioni, psicologa-psicoterapeuta, formatrice, membro Dedalo Firenze

Un ciclo di workshop che intende fornire ai partecipanti gli strumenti per migliorare le loro abilità comunicative all’interno delle relazioni e acquisire strumenti e tecniche che favoriscano il raggiungimento di obiettivi nella vita privata e professionale. Per riconoscere il proprio stile comunicativo e le proprie risorse, potenziare la comunicazione assertiva, gestire le emozioni, facilitare le relazioni, accrescere autostima e carisma. Il Workshop è indirizzato a tutti coloro che vogliano migliorare la comunicazione nella vita relazionale o svolgono ruoli professionali in cui la comunicazione è al centro.

Prossimo appuntamento è per Domenica 25 Gennaio orario 10-13 e 14-18 presso assoc. Dedalo, Via Masaccio 116, Firenze.

Ogni workshop ha un costo di 50 euro per l’intera giornata.

Per info iscrizioni: [email protected]338.1407323

21 Gennaio 2015 su RTV 38 – “Stili di Vita” con la Dott.ssa Laura Cioni

Mercoledì 21 gennaio, su RTV 38, dalle ore 21.15 in poi andrà in onda la trasmissione Stili di Vita in cui la dr.ssa Laura Cioni interverrà sul tema della comunicazione efficace spiegando quali sono i fattori che possono facilitare o ostacolare le relazioni, le dinamiche che generano conflitto o incomprensione, l’importanza dell’ascolto, dell’autostima, della creatività come risposta alle situazioni difficili.

Parlerà anche del metodo esperenziale che usa nei suoi workshop nei quali dà spazio alle esigenze di ognuno, propone attività pratiche e simulazioni che permettano di liberare la propria espressività, scoprire nuove qualità e abilità comunicative ampliando la conoscenza di sé.

Dislessia: che cos’è?

Avete provato a leggere il testo contenuto nell’immagine nel box a fianco? Sarà stato un po’ difficile, ci avrete messo un po’ più tempo ma sono sicura che ce l’abbiate fatta! Questo succede perché una volta acquisita l’abilità di lettura, si smette di decodificare lettera per lettera e si passa ad una lettura lessicale, ovvero leggiamo la parola globalmente ricercandola nel nostro database lessicale, che si arricchisce giorno per giorno con vocaboli nuovi. Ora immaginate però di essere ancora bambini e di apprestarvi ad imparare i meccanismi della lettura: come vi sentireste di fronte a quel testo? riuscireste a decodificare quelle parole? Sicuramente diventa molto più difficile! Certo c’è sempre la lettura lessicale, direte voi, ma quando le parole che conosciamo sono poche (pensiamo al vocabolario di un bambino di prima elementare) individuare la parola giusta diventa un terno al lotto!

Ecco questo è un po’ ciò che succede ad un bambino con un disturbo dell’apprendimento della lettura: le lettere si spostano, si invertono, ruotano su se stesse ed imparare a leggere diventa un’impresa ardua… i tempi si allungano, gli errori si moltiplicano, memorizzare i vocaboli per usarli poi con la lettura lessicale diventa un processo più lungo e difficoltoso, e infine anche la comprensione di ciò che si legge ne risente, perché l’attenzione è tutta rivolta alla decodifica delle lettere.

Ma vediamo un po’ che cosa sono questi disturbi dell’apprendimento o DSA; nel DSM IV leggiamo: “i disturbi dell’apprendimento vengono diagnosticati quando i risultati ottenuti dal bambino in test standardizzati, somministrati individualmente, su lettura, calcolo o espressione scritta risultano significativamente al di sotto di quanto previsto in base all’età, all’istruzione e al livello d’intelligenza. Essi interferiscono in modo significativo con i risultati scolastici o con le attività della vita quotidiana che richiedono capacità di lettura, di calcolo e di scrittura.”

I DSA non devono necessariamente riguardare tutti e tre gli ambiti dell’apprendimento, lettura calcolo e scrittura (come nel caso del disturbo misto), ma possono essere concentrati su uno solo di questi aspetti, i DSA si dividono infatti in:

Dislessia: disturbo che riguarda la capacità di leggere e scrivere in modo corretto e fluente. Il processo di lettura non si automatizza quindi leggere e scrivere diventano attività molto più faticose: ci si stanca rapidamente, si commettono errori, si rimane indietro con i programmi. Sono spesso presenti errori caratteristici come l’inversione di lettere e di numeri (es. 21 – 12) o la sostituzione di lettere (m/n; v/f; b/d, a/e)

Discalculia: può essere definita come un disturbo delle abilità numeriche e aritmetiche che si manifesta nel riconoscimento e nella denominazione dei simboli numerici, nella scrittura dei numeri, nell’associazione del simbolo numerico alla quantità corrispondente, nella numerazione in ordine crescente e decrescente, nella risoluzione di situazioni problematiche e nella difficoltà di calcolo.

Disortografia: è l’incapacità di rispettare le regole di trasformazione del linguaggio parlato in linguaggio scritto e di tradurre correttamente i suoni che compongono le parole in simboli grafici. I sintomi della disortografia possono essere omissioni di grafemi o parti di parola (es. pote per ponte o camica per camicia), sostituzioni di grafemi (es. vaccia per faccia; parde per parte), inversioni di grafemi (es. il per li; spicologia per psicologia).

Disgrafia: si tratta di una difficoltà della scrittura, in particolare nella riproduzione di segni alfabetici e numerici. La scrittura risulta poco leggibile, lenta e stentata, presenta disorganizzazione delle forme e degli spazi grafici, scarso controllo del gesto, confusione e disarmonia, rigidità ed eccessiva accuratezza, difficoltà nell’atto scrittorio in presenza di crampi o dolori muscolari.

Quindi per fare una diagnosi, conditio sine qua non, dobbiamo avere un livello cognitivo nella norma. I bambini con DSA non sono quindi più “stupidi” o lenti nell’afferrare le regole e i procedimenti, semplicemente percepiscono le informazioni e gli stimoli in maniera diversa, spesso vengono colpiti da dettagli che agli altri sfuggono e sono più sensibili ad alcune informazioni rispetto ad altre, tanto da avere veri e propri lampi di genio. Sapete quante persone famose sono dislessiche? Ci sono attori, atleti, artisti,inventori, scrittori (scrittori? Com’è possibile?? Se non imparano a leggere e scrivere? E invece è proprio così! ). Volete i nomi? Tom Cruise, Whoopi Goldberg, Robin Williams, Muhammad Ali, Magic Johnson, Leonardo da Vinci, Albert Einstein, John Lennon, Pablo Picasso, Mika, Gustave Flaubert, Walt Disney e molti altri ancora.

Perciò un dislessico può fare quello che vuole nella vita? Bravi, esatto! Avere un DSA non vuol dire necessariamente avere una carriera scolastica difficoltosa e breve, finire la scuola dell’obbligo per correre a rifugiarsi nel mondo del lavoro, dove i voti non ci sono più. Questo succede quando nel cammino incontriamo insegnanti che non riescono a capire e a compensare queste difficoltà. Un alunno con DSA ha bisogno di un piano didattico personalizzato ,PDP, (peraltro richiesto dalla legge 170/10) ovvero la definizione di obiettivi individualizzati e cuciti addosso alle necessità del bambino in questione, obiettivi che devono essere flessibili e costantemente bilanciati alle difficoltà del bambino. Questo perché compito dell’insegnante non è portare a termine il programma costi quel che costi, ma far si che i propri alunni imparino adattando il più possibile il metodo di insegnamento a ciascuno di essi.

Ma come fa a diventare scrittore uno che non sa mettere le h e le doppie al posto giusto? La scuola non è l’unico ambito in cui può essere trattato un bambino con DSA, occorre anche che i genitori capiscano le problematiche del figlio e si attivino. Innanzitutto per avere un buon percorso scolastico è necessaria una tempestiva diagnosi di DSA , dove per tempestiva si intende intorno alla 3° elementare, perché è proprio in quel momento che i meccanismi di apprendimento interessati dovrebbero automatizzarsi, prima di allora possiamo parlare solo di difficoltà di apprendimento che possono anche rientrare nella norma con lo sviluppo. Poi occorre fare un lavoro di riabilitazione da un professionista (psicologo o logopedista) mirato sulle abilità deficitarie che variano da bambino a bambino, perché l’unica cosa costante del DSA è l’individualità. Inoltre, crescendo con l’età occorre aprirsi senza paura ai vari strumenti compensativi e dispensativi, l’uso del computer a scuola, della sintesi vocale, del registratore al posto degli appunti, sono solo alcuni degli accorgimenti più efficaci che possiamo usare per garantire ai nostri figli un buon rapporto con la scuola e soprattutto con la propria autostima e la fiducia nelle proprie possibilità. Perché il vero problema della dislessia non è il non riuscire ad imparare a leggere bene o non capire quando si deve mettere l’h, ma la perdita di fiducia in se stessi e nelle proprie capacità che infrange i sogni di diventare scrittore, inventore, attore etc a causa di quei 4 che riceviamo in italiano o in matematica.

Dott.ssa Carlotta Bettazzi

Una “nuova” dipendenza: il gioco d’azzardo patologico

Negli ultimi anni l’interesse sempre maggiore alle dipendenza ha portato a sempre più specifiche ricerche e riflessioni in proposito, tanto che sembrano esser nate delle nuove dipendenze. In realtà forse esistevano già in precedenza, ma venivano definite con altro nome. Alcune, ad esempio facevano parte dei disturbi da discontrollo (DSM IV). La dipendenza patologica, secondo l’OMS, è una condizione psichica e/o fisica, derivante dall’interazione tra un organismo vivente e una sostanza tossica, caratterizzata da risposte comportamentali e altre reazioni che comprendono il bisogno compulsivo di assumere la sostanza in modo continuativo o periodico, per provare i suoi effetti psichici e/o evitare il malessere alla sua privazione. Tutte le dipendenze patologiche sono accomunate da: compulsività, craving (sensazione crescente di tensione che precede immediatamente l’inizio del comportamento), piacere e sollievo durante la messa in atto del comportamento, percezione di perdita di controllo, persistenza del comportamento nonostante la sua associazione con conseguenze negative, tolleranza, astinenza. È ormai noto che oggetto di dipendenza possono essere anche comportamenti, anziché sostanze, (sesso, acquisti, cibo, gioco ecc.). Una delle più recenti patologie entrate a far parte della categoria delle dipendenze è il gioco d’azzardo patologico (GAP). Il 54% della popolazione italiana sarebbe giocatore d’azzardo: la stima dei giocatori d’azzardo problematici varia dall’1,3% al 3,8% della popolazione generale, quella dei giocatori d’azzardo patologici dallo 0,5% al 2,2%. Generalmente sono maschi, tra i 35 e i 50 anni che lavorano. Le femmine iniziano a giocare più tardi, sviluppano la dipendenza più precocemente ma più facilmente e in tempi più ristretti chiedono aiuto. Il 47% dei giovani tra i 15 e i 19 anni utilizza più volte al mese slot-machine e giochi online e il 19% lo fa in modo compulsivo. In Italia la spesa pro-capite annuale, tra i maggiorenni, per il gioco d’azzardo, si aggira sui 1800 Euro. Il gioco d’azzardo è un’attività ludica costituita da tre caratteristiche fondamentali: obiettivo (vincita di un premio), rischio (puntata di soldi), fortuna (non è richiesta alcuna abilità del giocatore). Rimane un’attività ludica finché non insorgono le caratteristiche tipiche della “dipendenza patologica”: tolleranza (bisogno di giocare sempre di più per ottenere lo stesso livello di eccitamento), astinenza (nervosismo, ansia, tremori se si tenta di smettere), perdita di controllo (presunta capacità di poter smettere, senza riuscirci nella realtà), craving (desiderio incoercibile di giocare, pensiero intrusivo, ossessivo e fobico che connota ogni addiction). Il GAP è un comportamento persistente e ricorrente, in cui il bisogno di giocare è incontrollabile (DSM IV-R). Caratteristiche, queste, tipiche di altri disturbi da dipendenza, con la differenza che cambia l’oggetto da cui si dipende. Attualmente siamo invasi da proposte di gioco, più o meno consapevolmente, le stesse lotterie, i gratta e vinci, le scommesse… e ognuno di noi si è almeno una volta affidato alla sorte, con la speranza di ricavarne qualcosa. Ma quand’è che tutto questo si trasforma in dipendenza? Cosa distingue un GAP da un giocatore saltuario? Un giocatore d’azzardo patologico è totalmente assorbito dal gioco, ha bisogno di giocare con una sempre maggiore quantità di soldi, non riesce a controllarsi, a fermarsi, a ridurre l’attitudine al gioco. Gioca per sopperire alla depressione che segue all’interruzione del gioco. Anche dopo aver perso al gioco, ritorna a giocare, mente, tende a minimizzare le perdite, è capace di compiere azioni illegali per finanziarle, è alla continua ricerca di soldi, mette tutto in secondo piano, rinunciando alle propria responsabilità quotidiana in ogni area della sua vita, non provando più piacere a svolgere le comuni attività. Sarebbe utile che tale giocatore si rivolgesse ad un professionista esperto dei disturbi da dipendenza al fine di ritrovare il senso della propria quotidianità, privata del desiderio martellante di giocare, del pensiero di un’aspirata rivincita, e di quello della vincita tanto attesa, e meritata…

Dott.ssa Francesca Donati

Anoressia e bulimia in un film: luci e ombre di “Ciò che mi nutre mi distrugge”

Abbiamo visto in anteprima al Festival dei popoli di Firenze il film “Ciò che mi nutre mi distrugge“. Un documentario che entra nella stanza della terapia di quattro pazienti affette da disturbi del comportamento alimentare, in cura presso l’Unità Operativa Semplice Dipartimentale “Disturbi del Comportamento Alimentare” della ASL Roma E.

Il film racconta quattro storie e quattro cure differenti: Giulia, con sintomatologia bulimica e aspetti autolesionisti, che è condotta in una terapia con i genitori; Marie Louise, ex modella, che incarna l’estetica tipica dell’anoressia restrittiva, molto ben vestita e curata, e che è condotta in una terapia cognitivo comportamentale classica; Sonia, la più grande (48 anni) che ha cominciato a soffrire di DCA quando ancora le cure erano quasi inesistenti e che ci ricorda quanto sia importante l’accettazione di questi disturbi nel novero delle malattie mentali; e infine Silvia, anoressica, con una seria difficoltà di accettare le caratteristiche del proprio corpo, alla quale viene offerto un aiuto che passa da attività espressive ed esperienziali.

Il docufilm, ideato e realizzato da due filmaker con un figlio che ha sofferto di DCA, è prima di tutto il tentativo, davvero riuscito, di svelare un tabù: che la psicoterapia non è un mondo alieno ma che anzi è possibile raccontarla senza snaturarne la realtà. Per l’equipe romana è un grande atto di coraggio quello di mostrare a tutti il proprio lavoro ed esporsi quindi alla valutazione “pignoletta” dei colleghi.

Come dimostrano le sempre più numerose testimonianze di chi ha lottato contro questi disturbi (Michela Marzano, per fare un nome ben noto), anche in questo caso raccontare un percorso di cura può essere molto utile a spingere le persone a chiedere aiuto e fare i conti col proprio sintomo. Ai filmaker va il merito di non non indugiare mai nel pietismo o nella ricerca del caso umano estremo, tutto è raccontato con molta semplicità e chiarezza, in modo da mostrare i DCA oltre i luoghi comuni.

C’è però un aspetto cruciale che va considerato. I disturbi alimentari hanno un punto critico, di estrema fragilità, per quanto riguarda la componente isterico-istrionica, un aspetto che ha a che fare con l’immagine di sé, con l’effetto che la propria immagine ha e vuole avere sugli altri e che in questo documentario è completamente bypassato. Capisco che ai tempi del DSM5 riferirsi all’isteria risulti desueto, ma dalla mia prospettiva l’articolazione isterica di questi disturbi è tutt’altro che scomparsa.

Prendere quattro storie vere, con i veri personaggi, e metterle a disposizione del pubblico è prendere il sintomo e portarlo al trionfo. Quello che nei centri FIDA cerchiamo di fare con la nostra prospettiva psicoanalitica è proprio il contrario, orientare il discorso dal sintomo ad altro, con l’intento di raccogliere la narrazione che il sintomo stesso porta dentro di sé, mettendo l’attenzione su quello che può raccontarci al di là della questione sul cibo.

In definitiva voglio obiettare che l’operazione di questo docufilm rischia di essere collusiva, non penso al rischio di emulazione ma mi domando quale scopo clinico possa avere portare quelle 4 persone all’attenzione del grande pubblico. Insistendo di fatto su quel tipico punto di angoscia che caratterizza molti dei pazienti con DCA, perché offrire ad una persona con DCA una platea di occhi che guardano? Perché non offrire visibilità a questi 4 personaggi per altre loro caratteristiche? Perché non offrire loro la possibilità di dis-identificarsi al sintomo?

Credo che l’orientamento clinico raccontato nel film spinga molto alla prestazione intellettuale e in estrema sintesi il messaggio che si intuisce è che dal disturbo alimentare non si guarisca ma che la cura possa solamente costruire strategie cognitive per riconoscere i momenti di difficoltà ed affrontarli. Nella nostra interpretazione, invece, il sintomo sta al posto di qualcos’altro e la cura quindi permette che questo sintomo possa dare voce ad altri aspetti.

La creatività del singolo può essere accompagnata fuori dal contesto alimentare per acquisire nuovi modi di vedere il mondo. Si tratta in fondo di un lavoro sulla libertà, un percorso per cercare una via nuova per definirsi al di fuori del DCA. A noi interessa sbrogliare le concrezioni di senso che si sono addensate attorno al sintomo: frustrazioni e motivi di non accettazione di sé vanno scollati e articolati su altre questioni della vita per tendere a liberare il paziente dell’idea ossessiva del cibo.

Resta comunque un film da vedere, con ottimo materiale clinico, utile per la sensibilizzazione e per abbassare il pregiudizio, per far capire che i disturbi alimentari sono una patologia e non un capriccio.

Dottor Lorenzo Franchi

Responsabile Dedalo FIDA Firenze

UNA RIFLESSIONE SULL’OBESITA’

Quando si parla di disturbi alimentari, nell’immaginario collettivo, due sono le rappresentazioni che vengono alla mente: quella di una persona estremamente magra o di una che si abbuffa e vomita. Raramente si pensa ad una persona obesa: il sovrappeso e il suo eccesso vengono percepiti come mancanza di volontà, ingordigia, poco riguardo per la propria salute e la propria estetica. Tutto questo rischia di banalizzare una condizione psichica complessa e altrettanto tragica quanto l’anoressia e la bulimia.

Il soggetto obeso accumula in sé una quantità illimitata di oggetti fino a sentirsi soffocato. Usa l’oggetto di consumo-cibo come promessa illusoria di sostituire il vuoto, ma il riempirsi non porta mai ad una giusta soddisfazione. Il corpo è una prigione, non viene sentito come proprio, quest’armatura serve da scudo, da difesa paradossale contro le richieste dell’altro. C’è il tentativo di anestetizzare le emozioni attraverso un apparente godimento fisico. Nel riempirsi di tutto non si sperimenta il vuoto che è ciò che produce il pensiero, il desiderio, gli atti creativi: il pieno tenta di riempire l’angoscia del vuoto, ma porta all’angoscia di un pieno che soffoca e cancella il soggetto. Anche il mangiare continuo dell’obeso risponde come compensazione alla frustrazione di una domanda d’amore. Al posto dell’alternanza dell’addizione e della sottrazione  che caratterizza l’oscillazione bulimica abbuffata-vomito, troviamo l’annientamento quotidiano del vuoto, il suo riempimento compulsivo.

L’obeso si rende evidente, non può non essere visto e suscita vergogna ed emarginazione. L’evidenza dell’obeso è l’evidenza dell’orrore,  del rifiuto. Si attua la devastazione della propria immagine, come un trionfo dell’osceno rispetto all’ideale. Contemporaneamente il soggetto obeso tende a idealizzare se stesso come altro dalla massa fisica adiposa in cui si concretizza il suo aspetto finendo però per non percepire più il corpo come proprio: c’è una separazione dell’immagine idealizzata di sé dal  proprio corpo reale (anche come difesa di questa immagine, nessuno la vede attraverso il corpo grasso, nessuno può toccarla e minacciarla).

Il soggetto è in balia dell’agito, si è in presenza dell’impossibilità del rifiuto: divorare è una compensazione di un segno d’amore, ma l’oggetto che serve a compensare questa assenza evoca continuamente la nostalgia di ciò che rimpiazza.

 

Dott.ssa Stefania Boldrini

Stress e psicoanalisi

Quante volte abbiamo sentito parlare di stress? Questa parola viene nominata quotidianamente da noi stessi o da chi ci è vicino. Ma cosa significa esattamente?

Secondo l’etimologia il termine stress significa “strizzare”, sarebbe quindi una stretta, un’angustia (o un’angoscia).

Il termine é stato diffuso da Hans Selye nella metà degli anni ’50 per indicare la condizione dell’essere vivente che subisce lo stimolo stressante o stressor dovendovi rispondere in qualche modo. La risposta adattiva è denominata “emergenza” o “Sindrome Generale di adattamento”.

Lo stress rappresenta la “pressione” di eventi psicologici che causano, nell’organismo, una reazione generale di adattamento che può essere funzionale o disfunzionale ai livelli cognitivo, emotivo, comportamentale e psicofisiologico.

Si tratta di una reazione emozionale intensa che porta il soggetto ad adattarsi al meglio alla nuova situazione creatasi dall’azione degli stimoli stressogeni. A seconda della riuscita o meno di questo adattamento, lo stress può essere buono (eustress) o cattivo ( distress).

Lo stress è una condizione che può colpire tutti tant’è che il meglio della vita (gioia, amore, attività sessuale, entusiasmo, euforia, ispirazione, creazione) è spesso molto stressante ovvero fonte e consumo di un enorme quantità di energia da stress. Di per sé non costituisce perciò una patologia ma può facilitarne l’insorgenza se gli sforzi del soggetto per adattarsi alla nuova situazione falliscono.

Il concetto di stress nasce dopo la psicoanalisi, essa quindi non se ne è occupata. Anche perché, secondo quanto detto sopra, lo stress altro non è che una condizione in cui ognuno di noi si può venire a trovare nel corso della propria vita. Non si tratta di una patologia, ma può essere intesa come un modo “moderno” per parlare di angoscia.

Ecco, la psicoanalisi preferisce parlare di angoscia per indicare un determinato stile di vita, per cui non esiste la “cura” dello stress, ma un approccio soggettivato alla quella persona che in modo ricorrente, sistematico e soprattutto disfunzionale fa fronte alle richieste dell’ambiente esterno, senza porsi domande al riguardo.

Dire “sono stressato” è quindi un’ottima scappatoia per non chiedersi come stiamo e perché, per non guardarsi dentro e per delegare l’altro nella soluzione delle proprie questioni irrisolte.

 

Dott.ssa Francesca Donati

La madre DCA

Continuiamo il nostro viaggio all’interno delle famiglie DCA ponendo il focus sulle madri di queste famiglie.

Dalla letteratura riguardante i disturbi del comportamento alimentare scaturisce l’immagine di una madre con caratteristiche ben definite.

Le  figlie descrivono le proprie madri come donne forti, intolleranti, aggressivamente ipercritiche e impervie che, non di rado, rappresentano l’elemento sabotatore dei bisogni basici dell’Io delle figlie, specialmente nelle esperienze riguardanti i sentimenti del loro valore, del loro potere e della loro originalità. Tendono a vivere le figlie come un’appendice di sé,  un proprio Io esterno su cui proiettare desideri, vissuti, aspirazioni deluse, tentativi di riscatto esistenziale.

Queste “severe custodi del focolare”, come vengono definite da Selvini Palazzoli, sono madri morbosamente attaccate alle figlie, iperprotettive, intrusive, frustrate dalla propria dedizione alla casa, ai figli, ai costumi. Dentro, però, non hanno accettato il ruolo di moglie, e tanto meno di amante acquiescente e passiva. Covano ripugnanze scoperte o segrete, fomentano bisogni di ambizione, di affermazione anche indiretta. Le madri delle anoressiche, in genere, hanno fatto molto per le loro figlie, anche troppo, ma senza trarne alcun senso di gioia.

In questo ambiente di conflittualità inespresso, la figlia diviene incapace di distinguere tra i suoi bisogni e quelli della madre che in lei trovano continue riattualizzazioni, tende a negare la decifrazione e la gestione delle proprie necessità corporee o affettive.

In questo contesto il corpo, dimensione che lega madre e figlia in un unico destino biologico ed esistenziale, diviene simbolicamente la sede in cui si svolge la battaglia per il controllo, in quanto colonia materna, simbolo di una dipendenza mortale, del non essere, della non appartenenza a se stessi.

Le madri di diverse anoressiche-bulimiche sembrano avere un conto in sospeso con la loro stessa immagine. Sono madri che vivono la loro immagine come narcisisticamente difettosa e che assegnano alla figlia il compito di completare con l’immagine del suo corpo questa difettosità che le riguarda. In questo modo anziché permettere al bambino il riconoscimento simbolico dell’immagine speculare, l’Altro materno ha come introdotto, nel cuore della costituzione dell’Io, una rottura di questa immagine, rispondendo allo sguardo del bambino non con un sorriso che sa accogliere, ma con una smorfia, con il rifiuto e il giudizio superegoico.

Lacan ci offre un’altra immagine di queste madri: la madre-coccodrillo, con la bocca spalancata, all’interno della quale si trova, come incastrato il bambino. Quest’immagine presentifica il fantasma di una madre insaziabile, terrorizzante, fagocitante.

Fagocitare significa qui ridurre il bambino a oggetto (commestibile) reale del proprio godimento, il bambino diventa quindi, per il desiderio materno, l’oggetto che può saturare la sua mancanza a essere. In questo caso il desiderio femminile sembra essere completamente assorbito in quello della Madre. Le mandibole del coccodrillo si chiudono, e questo avviene precisamente quando il desiderio materno offusca il desiderio femminile; quando, in altre parole, la madre annulla la donna. Il limite del significante materno infatti è messo in funzione dal significante edipico del Nome del Padre. Questa funzione si rappresenta come un paletto infilato nelle fauci della madre che impedisce loro di chiudersi, mantenendo aperta quella differenza tra essere-donna ed essere-madre che è la condizione di base perché il bambino non diventi l’oggetto tappo della castrazione dell’Altro.

In questo senso l’anoressica si sostituisce alla funzione del Padre diventando essa stessa quel bastoncino nella bocca del coccodrillo, rendendosi inappetibile, appuntita, fatta di sole ossa, indigesta, per non rischiare di essere divorata.

Questa madre vive consacrandosi al suo frutto, annullandosi nella sua femminilità. Cerca di compensare i suoi fallimenti nella maternità, sarà una piovra e per questo nessuna delle sue cure apparirà come un vero e proprio dono d’amore; quel dono del segno d’amore, che abbiamo visto nel precedente articolo e che significa comunicare al bambino che la sua vita, la sua presenza, il suo corpo e la sua immagine sono importanti e amati nella loro unicità.

 

Dott.ssa Carlotta Bettazzi