Il Dott. Nicola Materassi, Medico, specialista in Psicologia clinica, parlerà dell’uso degli psicofarmaci in particolare nei disturbi d’ansia e depressivi, dell’utilizzo delle conoscenze di base psicofarmacologiche da parte degli Psicologi-Psicoterapeuti e dell’efficacia del doppio setting condotto da clinici diversi.
“Psicanalisi e neuroscienze a confronto: Il problema mente-corpo“
Che rapporto c’è tra uno stato di coscienza e uno stato cerebrale? Di che cosa sono fatte le idee? Hanno una loro “materia”? E come si formano? Le neuroscienze e la psicanalisi possono aiutarci a comprendere i comportamenti dell’uomo?
Questi alcuni interrogativi su cui si dibattono due differenti posizioni teoriche, quella neuroscientifica e quella psicanalitica.
Intervengono:
Dott. Nicola Materassi, Medico e specialista in Psicologia clinica
Questo è il titolo di un articolo del Corriere della Sera dello scorso 20 aprile che, nel presentare il libro 50 sfumature di fritto, continua riportando la citazione di uno degli autori del volume:
“L’olio facilita l’unione tra gli ingredienti, crea democrazie popolari, annulla conflitti intergenerazionali, ricostruisce i legami dissolti”
Una bella fettunta per scongiurare la disgregazione del Paese?
Comprendo che per bucare il mercato di fronte all’attuale crescente concorrenza “cheffista” ci si debba inventare la frontiera sociologica dell’olio, ma provo una certa tristezza a pensare di affidare alla pastella di un fritto misto le sorti relazionali, di aggregazione e partecipazione.
Ma con c’è da stupirsi. Secondo una ricerca Censis-Coldiretti del 2012 gli italiani si aggregano (io direi che si ammassano) solo dove c’è da mangiare. Si moltiplicano le attività che hanno al centro il cibo e il vino. Alle sagre partecipano regolarmente o saltuariamente 23,6 milioni di italiani, di cui 5,3 milioni in modo assiduo.
Le sagre dunque come importanti luoghi di aggregazione?
Personalmente non ricordo di aver mai stretto nuove amicizie, conosciuto persone interessanti, intrattenuto conversazioni significative in una sagra, semmai di essere spintonata o soffocata per riuscire a raggiungere il piatto di tortelli!
Innegabile il connubio fra cibo e convivio, sacro santo, ma siamo così sicuri di non essercelo un attimo fatto sfuggire di mano… il Convivio?
È da tempo ormai che il palinsesto televisivo straborda di programmi che parlano sotto varie forme di cibo. Dai classici di un tempo che per lo più si proponevano e si propongono di intrattenere mostrando l’arte culinaria, partendo dall’antesignana Wilma de Angelis per finire alla moderna Benedetta Parodi o ai vari Masterchef, il mondo mediatico ha investito e ci ha investito di una programmazione selvaggia su sfide ai fornelli tra gente comune, reality sulla consacrazione di un nuovo grande chef, scambi di inviti a cena, riorganizzazione di pessimi ristoranti, sperimentazioni di cucine stomachevoli, fino ad arrivare ad obesi che si fanno “curare” da nutrizionisti, personal trainer, diet-coach, da soli o in gruppi rinchiusi in comunità o al trattamento di persone affette da disturbi alimentari.
Da un lato il cibo è rappresentato come oggetto d’amore, perfino erotico, attraverso il quale si fa arte, si coccola, ci si prende cura di sé e degli altri, si ama. Dall’altra diventa feticcio, perversione autodistruzione da cui si deve essere salvati attraverso il sacrificio, la sofferenza per tornare ad essere “normali” e liberi dal mostro-cibo.
E tutto questo dentro una programmazione schizoide in cui “Il boss delle torte”, dove si costruiscono sculture incredibili con i dolci, e “grassi contro magri” dove una persona obesa e una anoressica sono costrette per una settimana a scambiarsi l’alimentazione, sono separati da pochi minuti di pubblicità.
Perché due rappresentazioni così diverse dell’oggetto cibo fanno così ugualmente presa sul pubblico televisivo? E magari sul medesimo spettatore?
C’è un certo masochismo nell’immaginare di godere e subito dopo di assistere agli effetti devastanti di un godimento estremo. Riempirsi gli occhi di cibo permette, forse, di riuscire a sentire una certa pienezza di stomaco e questo rende l’eventualità di distruggersi mangiando uno spauracchio evitabile, perché l’unica cosa di cui ci si riempie davvero sono le ghiandole salivali.
In questo chi è malato di anoressia aveva già scoperto la valenza quasi magica dell’immaginazione avendo spesso l’abitudine di cucinare pietanze ipercaloriche e obbligando i propri familiari e amici a mangiarle standosene a guardare colmandosi degli odori e delle bocche altrui che masticano “Io mi sazio del vostro ingrassare”.
In tutto questo il cibo che nutre, che toglie la fame, dov’è? Da nessuna parte. La fame non è contemplata: si cucina per soddisfare un piacere e si fanno diete drastiche per aver voluto esagerare con quello stesso piacere, atteggiamento che ha messo a rischio la vita.
In accordo con il mito di Eros e Thanatos, da una parte vince la pulsione di vita, dall’altra vince, o rischia di vincere, la pulsione di morte.
“L’organismo vuole morire solo alla propria maniera” (Freud “Al di là del principio del piacere” 1920). In questo caso mangiando. Come avviene ne “La grande abbuffata” (Marco Ferreri, 1973) film geniale e visionario in cui i protagonisti si ritrovano in una villa per cucinare e mangiare, mangiare e cucinare, fino a morirne, affogati nel cibo e nel sesso, nel godimento, che di per sé si sviluppa nell’immediatezza e invece diventa senza fine.
Ma nei reality non c’è spazio per il dramma che si compie e da cui non si torna indietro. E allora puntualmente ricompare la pulsione di autoconservazione e si cerca in maniera alquanto surreale aiuto in un programma televisivo.
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E di nuovo un programma di cucina. E ci si chiede, ma allora, come si fa a non eccedere, a non scavalcare il limite tra il sacrosanto soddisfacimento di un piacere indiscutibile e il godimento senza fine? Forse tra cuochi provetti e casalinghe creative, dobbiamo imparare dagli chef: il segreto è nelle porzioni, signori, nelle porzioni. Piccole, anche di TV.
“Iniziamo subito questi due giorni dicendo che la fotografia non è quella che alcuni dicono, per cui tutto il mondo appartiene ad essa e non riescono a parlare d’altro“: così Giovanni Marrozzini, fotografo professionista, esordisce nel suo workshop di due giorni fatto presso il Fotoclub Il Bacchino, il cui obiettivo sarebbe quello (almeno, credo…?) di parlare a una piccola platea di fotografi più o meno professionisti (ma senza dubbio tutti appassionati) della fotografia sociale, imparando inoltre a raccontare una storia attraverso le immagini.
Perché come lui stesso afferma, “le storie vanno aiutate ad uscire dai loro labirinti assecondando le loro richieste“, e lui lo fa, in modo assolutamente singolare, attraverso la pellicola o il sensore digitale, girando il mondo, scrutando posti come la Zambia, l’Etiopia, l’Argentina soprattutto, ma anche (e non solo) l’Ospedale Psichiatrico di Betlemme, la Palestina, l’Albania e non per ultima l’Italia intera.
Lui ascolta, scatta, sviluppa, sceglie, taglia e accosta, ri-versa, ri-pensa, ri-taglia e ri-duce, ri-cercando parti nascoste nella miriade di immagini che trova nel mondo, vicino e lontano, alla ricerca de “la Storia” insita al loro interno; un filo conduttore, qualcosa che le accomuna, che le lega, che spinge l’osservatore a guardare la foto successiva e poi ancora e ancora, e lo fa mettendoci passione, grinta ed entusiasmo.
Dal suo posto. “Perché fotografare gli altri è molto impegnativo, ci vuole una enorme responsabilità, perché il racconto della storia degli altri deve essere libero e pulito dalle mie cose, non si possono inquinare le storie degli altri“: proprio così.
Questo è il rischio che corriamo più spesso, inquinare le storie degli altri con le nostre interpretazioni, fantasmi che echeggiano, desideri; perché se lo psicoanalista fosse (anche?) un fotografo, è proprio lì che anche lui potrebbe fallire, quando di fronte vi è l’Altro che parla e mostra contenuti celati attraverso simboli, sogni e racconti criptati.
E Giovanni, con la sua fotografia, dove niente è mai uguale a sé stesso, trasmette proprio questo: se vogliamo raccontare degli altri, per quanto possibile, dobbiamo sempre tener presente che l’Altro è tale, e l’unico atto straordinario che egli ci concede di essere, e “fare”, è quello di testimoniare per la sua Storia, perché nessun altro può nominare o desiderare al suo posto.
“Adesso partite, andate, e cercate una via della città, provate a raccontarmi la sua Storia, a portarmi li dentro attraverso le vostre fotografie. Non dimenticatevi che la via ha un nome. Perché proprio quello? Perché si chiama così e non in altro modo? Dove è la Storia, di cosa è fatta?
La storia è fatta di Nomi, ed ogni cosa ha un suo nome e non un altro, e non si può narrare storia se non rispettando il nome che l’Altro da alle sue cose. E quando lo psicoanalista cerca la storia, e non la trova, è proprio li che la deve aspettare, correndo il rischio di non trovarla: perché non è dando un altro Nome che si trova la vera storia, quella che racconta da dove si viene.
E a volte l’unica possibilità che rimane, è quella di stare nella posizione di chi, in un piccolo vicolo, in punta di piedi su un marciapiede, aspetta che un ruscello di pioggia trasporti piccoli oggetti, che messi insieme, quando prima quando più tardi, ma senza dubbio con i propri tempi e la propria lingua, racconteranno senz’altro “La Storia” di chi li ha vissuti.
“La Federazione Italiana Disturbi Alimentari (FIDA) aderisce alla seconda Giornata nazionale del fiocchetto lilla, dedicata alla prevenzione di anoressia, bulimia, obesità e di tutte le patologie legate ai disturbi del comportamento alimentare (DCA).
Venerdì 15 marzo 2013 le associazioni riunite in FIDA, in varie città italiane, metteranno a disposizione le proprie équipe (formate da psicologi, psicoterapeuti, medici, nutrizionisti e psichiatri) per colloqui e consulenze gratuiti. L’associata fiorentina Dedalo (via Masaccio 116 Firenze) aderisce: l’équipe offre colloqui informativi gratuiti su prenotazione,
per la prevenzione e la sensibilizzazione sui disturbi della condotta alimentare, tel. 327 1272917 , email [email protected].
In Italia soffrono di DCA quasi 10 ragazze su 100 tra i 12 e i 25 anni (1-2 nelle forme più gravi). Il rischio di morte è 12 volte maggiore rispetto a quello degli altri coetanei. Il fenomeno interessa anche i maschi per un totale di circa tre milioni di persone e l’aumento annuale è vicino alle diecimila unità. Solo un terzo delle persone affette da anoressia e bulimia arriva all’attenzione degli psicoterapeuti e dei servizi sanitari: per questo FIDA ritiene importante facilitare l’accesso alla cura.”