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Creatività e trame viventi dell’inconscio

Sarantis Thanopulos/Pietro Pascarelli

Pietro Pascarelli: “La creazione artistica trova forme espressive e parole per ciò che è al di là di ogni nota significazione e di ogni codice sintattico. 

L’inconscio può dare ispirazione, aprire un buco magico che fa vedere ciò che era celato prima.

In 2001 Odissea nello spazio Kubrick vede con gli occhi vitrei dell’astronave, col distacco e la passione frenetica di un nume, sullo sfondo di un cosmo nero solcato da luci fredde, la silente traversata nello spazio-tempo di un giovane astronauta. Il viaggio si compie attraverso sussulti e traumi molecolari nel vortice dell’energia e della materia per concludersi, dopo visioni e transizioni insostenibili, con l’approdo in una mai vista quiete, in cui il giovane si  riscopre nel futuro, imbiancato e vecchio. Un stato di vecchiaia senza storia e senza un’esistenza alle spalle che si possa rimpiangere o ricordare. Su una lavagna nera in quel biancore potrebbero affiorare algoritmi e altri segni matematici, la lingua del dio.

La fantasia si libera e vibra su una specie di ragnatela che raccoglie farfalle e boulevard. Si ritrovano insieme alberi e signorine, un fiume e Rimbaud, Dillinger e i fratelli Marx.  Un mondo immaginario si mette  in tumulto, una diversa realtà che sfuma nel sogno ma lascia una traccia nel reale. 

Una spinta dell’inconscio che minacci gli equilibri difensivi e metta a nudo il rimosso dà luogo a un agire (agieren, acting out), e comporta l’abbandono del registro della parola e del ricordo per azioni inspiegabili al soggetto stesso.  Ma è possibile che la fantasia inconscia possa farsi strada con un effetto diverso: la liberazione di rappresentazioni gioiosamente vitali in un flusso creativo inusitato, purché il soggetto dell’inconscio presenti la ricettività necessaria per farsene trasportare. Qualcosa di simile a ciò accade nel motto di spirito, o nell’estasi. Qualcosa che presuppone che l’inconscio possa essere ripensato non come la casa dell’orrore, ma entro una prospettiva dionisiaca, come vita e balsamo per la vita.”  

Sarantis Thanopulos: “L’inconscio è spesso pensato come luogo spettrale di desideri perversi, inammissibili e di forze pulsionali informi. Più abitato dalla morte che dalla vita. Ricettacolo dell’immondizia dei nostri sentimenti e pensieri proibiti, a cui è meglio sbarrare ogni via di comunicazione con la rappresentazione di un mondo governato da nobili ideali.

In realtà l’inconscio corrisponde a una rappresentazione di sé e del mondo a stretto contatto con ciò che nell’essere umano è più naturale, spontaneo e autentico. Una rappresentazione che -pur non ignorando il dispiacere, il dolore e le discontinuità destabilizzanti, luttuose, ma anche trasformative, dell’esperienza- non è organizzata e, parzialmente, conformata, “corrotta”, dal principio logico della non contraddizione. In essa i contrari coesistono e i conflitti, se non superano una certa soglia, sono configurati come parte di un unico movimento. 

Se la soglia è oltrepassata, il movimento, con la sua rappresentazione, è sospeso in corrispondenza dell’opposizione. L’impasse del desiderio crea un ingorgo nel fluire dell’esperienza. È l’ingorgo a creare i “fantasmi” e i “mostri” che popolano il nostro immaginario, abitando non l’inconscio, ma il luogo intermedio di reciproca compenetrazione tra la rappresentazione inconscia e quella conscia della realtà. Ogni ostacolo serio al libero scorrere della vita in noi, genera angoscia e figure inquietanti che invadono il pensiero e l’immaginazione. Nei casi più gravi nell’inconscio si aprono delle falle. 

L’inconscio non è inquietante. È la tessitura di fondo sul quale si sviluppa la trama vivente della nostra esistenza, la fonte inesauribile della nostra creatività. È “presente” in tutto quel che viviamo, esperiamo, è il senso del nostro respiro che non è linguisticamente pensabile.”                                                             

Allearsi con Peter Pan per sconfiggere Capitan Uncino

Sarantis Thanopulos/Ginevra Bompiani

Sarantis Thanopulos “Ginevra, con il tuo sguardo, da te definito “esterno e sprovveduto”, quindi, per fortuna, incorrotto dalle visuali interne al loro sistema di osservazione, così esperte da riflettersi, desolate ma compiaciute, nella propria alienazione, hai colto, con chiarezza rara in questi tempi, la differenza tra i 5S e la Lega: tra l’approssimazione e l’accanita titubanza dei primi e la feroce smargiasseria di Salvini, “c’è tutta la distanza che c’è tra un bambino capriccioso e un criminale adulto”. Prendersela con il bambino capriccioso o compiacerlo, piuttosto che cercare di comprendere le ragioni del malessere, legato ai fallimenti degli adulti, a cui i capricci danno voce impropria, ma vera, sono errori frequenti dei genitori. Preparano il consenso a soluzioni “criminali” che vedono in ogni contestazione un disordine da reprimere o si appropriano del capriccio per costruire un ordine viziato: la corruzione dell’esperienza come distrazione dal vivere. Dove il dialogo tra i capricci dei bambini e gli adulti si interrompe la vita adulta e l’azione criminale si riflettono reciprocamente anche quando apparentemente si combattono.”

Ginevra Bompiani “Caro Sarantis, parlando dell’infantilismo dei 5S, io non avevo tanto in mente un bambino in evoluzione, che gli adulti possono reprimere o aiutare, quanto un essere molto speciale, chiamato axolotl, un tipo di salamandra che non completa mai la sua evoluzione, rimanendo sempre nell’acqua. L’axolotl è un animale molto interessante e perfino popolare, perché essendo facile da ambientare e da riprodurre, attira molte persone ad allestire vasche per allevarlo. E’ una salamandra, quindi un anfibio, ma la sua caratteristica è appunto quella di non completare mai la sua metamorfosi. Una volta accettata questa caratteristica, essa può addirittura diventare piacevole e riproduttiva. Proprio di questa natura mi sembrano i 5S. E così, se invece di accanirsi contro la loro incapacità di uscire dall’acqua e il loro aspetto larvale, li si accetta per quel che sono, si può venire a patti con loro, come con una frotta di Peter Pan, e averli alleati nella assai più dura battaglia contro Capitan Uncino! Fuor di metafora… Ma mi sembra chiaro che cosa voglio dire fuor di metafora.”

Sarantis Thanopulos “L’infantilismo capriccioso dei 5S non è qualcosa da correggere, non penso che si debba rieducarli. È una reazione a problemi reali, a un disagio vero. Noi guardiamo al capriccio e non alla cosa che esso ci indica, lo condanniamo -come maestri inflessibili- o lo imcorporiamo -come opportunisti- nella nostra azione, trasformandolo in arbitrio. In entrambi i casi favoriamo il matrimonio del moralismo/opportunismo con la prepotenza (o, se vuoi, dell’ “oppio” col mitra). Ben venga l’alleanza con l’axolotl se serve a sconfiggere Capitan Uncino. Per un mondo in cui anche le salamandre incompiute esistono senza essere il prodotto di una reazione monca ai suoi mali.”

Ginevra Bompiani “I 5S, dopotutto, sono quel che si dice “gente comune in cerca di identità”. Ma l’identità non si trova cercandola, ma dimenticandola e facendo. Immagino gli axolotl che vagano nel loro lago Xochimilco, cercandosi. Ogni tanto incontrano un altro essere lacustre e pensano: “sono io?”. Ogni bambino immagina se stesso (io mi immaginavo ferroviere), e, immaginando, cresce per diventare quello che non aveva immaginato. Sembra che per i 5S questo processo non finisca mai. Ma anche loro finiranno per crescere, e speriamo che crescendo finiscano per capire quello che ogni bambino sa istintivamente: o sei indiano o sei cowboy, o sei greco o sei troiano, tutti e due no, ed è inutile dire che non esiste la distinzione fra indiano e cowboy, basta guardare nelle riserve per capire chi vi è imprigionato dentro.”                   

Allearsi con Peter Pan per sconfiggere Capitan Uncino

Sarantis Thanopulos/Ginevra Bompiani

Sarantis Thanopulos “Ginevra, con il tuo sguardo, da te definito “esterno e sprovveduto”, quindi, per fortuna, incorrotto dalle visuali interne al loro sistema di osservazione, così esperte da riflettersi, desolate ma compiaciute, nella propria alienazione, hai colto, con chiarezza rara in questi tempi, la differenza tra i 5S e la Lega: tra l’approssimazione e l’accanita titubanza dei primi e la feroce smargiasseria di Salvini, “c’è tutta la distanza che c’è tra un bambino capriccioso e un criminale adulto”. Prendersela con il bambino capriccioso o compiacerlo, piuttosto che cercare di comprendere le ragioni del malessere, legato ai fallimenti degli adulti, a cui i capricci danno voce impropria, ma vera, sono errori frequenti dei genitori. Preparano il consenso a soluzioni “criminali” che vedono in ogni contestazione un disordine da reprimere o si appropriano del capriccio per costruire un ordine viziato: la corruzione dell’esperienza come distrazione dal vivere. Dove il dialogo tra i capricci dei bambini e gli adulti si interrompe la vita adulta e l’azione criminale si riflettono reciprocamente anche quando apparentemente si combattono.”

Ginevra Bompiani “Caro Sarantis, parlando dell’infantilismo dei 5S, io non avevo tanto in mente un bambino in evoluzione, che gli adulti possono reprimere o aiutare, quanto un essere molto speciale, chiamato axolotl, un tipo di salamandra che non completa mai la sua evoluzione, rimanendo sempre nell’acqua. L’axolotl è un animale molto interessante e perfino popolare, perché essendo facile da ambientare e da riprodurre, attira molte persone ad allestire vasche per allevarlo. E’ una salamandra, quindi un anfibio, ma la sua caratteristica è appunto quella di non completare mai la sua metamorfosi. Una volta accettata questa caratteristica, essa può addirittura diventare piacevole e riproduttiva. Proprio di questa natura mi sembrano i 5S. E così, se invece di accanirsi contro la loro incapacità di uscire dall’acqua e il loro aspetto larvale, li si accetta per quel che sono, si può venire a patti con loro, come con una frotta di Peter Pan, e averli alleati nella assai più dura battaglia contro Capitan Uncino! Fuor di metafora… Ma mi sembra chiaro che cosa voglio dire fuor di metafora.”

Sarantis Thanopulos “L’infantilismo capriccioso dei 5S non è qualcosa da correggere, non penso che si debba rieducarli. È una reazione a problemi reali, a un disagio vero. Noi guardiamo al capriccio e non alla cosa che esso ci indica, lo condanniamo -come maestri inflessibili- o lo imcorporiamo -come opportunisti- nella nostra azione, trasformandolo in arbitrio. In entrambi i casi favoriamo il matrimonio del moralismo/opportunismo con la prepotenza (o, se vuoi, dell’ “oppio” col mitra). Ben venga l’alleanza con l’axolotl se serve a sconfiggere Capitan Uncino. Per un mondo in cui anche le salamandre incompiute esistono senza essere il prodotto di una reazione monca ai suoi mali.”

Ginevra Bompiani “I 5S, dopotutto, sono quel che si dice “gente comune in cerca di identità”. Ma l’identità non si trova cercandola, ma dimenticandola e facendo. Immagino gli axolotl che vagano nel loro lago Xochimilco, cercandosi. Ogni tanto incontrano un altro essere lacustre e pensano: “sono io?”. Ogni bambino immagina se stesso (io mi immaginavo ferroviere), e, immaginando, cresce per diventare quello che non aveva immaginato. Sembra che per i 5S questo processo non finisca mai. Ma anche loro finiranno per crescere, e speriamo che crescendo finiscano per capire quello che ogni bambino sa istintivamente: o sei indiano o sei cowboy, o sei greco o sei troiano, tutti e due no, ed è inutile dire che non esiste la distinzione fra indiano e cowboy, basta guardare nelle riserve per capire chi vi è imprigionato dentro.”                   

L’ “aiuto”alla psicoanalisi della filosofia

Sarantis Thanopulos/Silvia Vizzardelli

Silvia Vizzardelli: “La psicoanalisi entra nell’università affiancando la filosofia in un indirizzo di laurea magistrale. Accade a partire da quest’anno accademico presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria, dove io insegno da molti anni. Si tratta di una novità nel panorama italiano. Dunque filosofia e psicoanalisi: un rapporto tormentato ma, come tutte le relazioni pericolose, assai fecondo, fin dagli inizi della psicoanalisi, quando Freud, pur temendo la vocazione della filosofia a farsi Weltanschauung (concezione del mondo), non smetteva di ricorrere alla “speculazione” sopratutto nella fasi più critiche del suo pensiero. Anche l’insegnamento di Lacan è costellato di provocazioni, battute sarcastiche, pronunce di insoddisfazione nei confronti della filosofia, eppure il suo pensiero è in dialogo serrato con la filosofia antica e contemporanea.

Certamente la pratica psicoanalitica è caratterizzata da un alto tasso di performatività, di improvvisazione e aderenza a quanto di volta in volta emerge nella seduta. Eppure la psicoanalisi nasce insieme alla sua teoria, si lascia affiancare dal sapere teorico e filosofico, quasi per sostenersi e per assicurarsi un sapere trasmissibile. Caro Sarantis mi farebbe piacere conoscere il tuo punto di vista su questo rapporto, soprattutto a partire dalla tua lunga esperienza clinica. In che modo la filosofia ti ha aiutato, se lo ha fatto?”

Sarantis Thanopulos: “La filosofia è, dovrebbe essere, d’aiuto per tutti, scienziati, letterati e artisti inclusi. L’usufruirne non richiede una conoscenza specifica, piuttosto l’interiorizzazione di un modo di sentire, osservare e pensare facendo esperienza del mondo. Quando ne sento l’esigenza, leggo un testo o  un passo di un filosofo, per approfondire, ma anche per rimette in movimento un sapere collettivo condiviso, sedimentato dentro il mio pensiero e il mio mondo affettivo. Il lavoro teorico impegna lo psicoanalista innanzitutto come clinico, indipendentemente dal suo amore per la speculazione. È a partire dalla particolarità della sua esperienza clinica -rivelatrice, a lui e al suo paziente,  di risvolti altrimenti  inaccessibili dell’esistenza umana- che egli cerca di formulare una prospettiva universale, e quindi teorica, sull’esperienza vissuta. Prospettiva mai disgiunta dalla particolarità di un singolo modo di essere, capace di collocarla nello spazio erotico dell’intesa tra le differenze che le consente di prendere forma e consistere. La filosofia contiene sempre nel suo nucleo centrale la spinta amorosa che fa della sapienza un modo di assaporare il senso del vivere, per cui ogni volta che vengo sorpreso da un significato inatteso che nasce dentro la relazione analitica da un incontro profondo, mettendo insieme sensi, emozioni e pensieri, il filosofo diventa mio amico.”

Silvia Vizzardelli: “Proviamo ad entrare brevemente nel merito di un esempio. Un filosofo russo naturalizzato francese a me caro, Vladimir Jankélévitch, ha messo al centro della sua riflessione un quasi-concetto: le je-ne sais-quoi e le presque-rien (il non so che e il quasi niente): “il lucore timido e fugace, l’istante-lampo, i segni evasivi – è questa la forma che le cose più importanti della vita scelgono per farsi riconoscere”. E’ azzardato dire che la psicoanalisi nasce insieme all’idea che la “verità” sorga in un istante e a una distanza incommensurabile da noi?”

Sarantis Thanopulos: Il “non so che” è ciò di cui si fa esperienza senza poterlo definire con il  pensiero cosciente: l’inconscio non rimosso, ma vissuto, “presente”, il luogo delle nostre  trasformazioni  più autentiche e profonde che il lavoro analitico cerca di promuovere. Le “verità” in psicoanalisi sono in effetti dei “quasi niente”, “lampi” di conoscenza non pensata, ma esperita, il cui senso eccede in modo irriducibile il nostro discorso di significazione.”

Gli amori “bianchi” e la violenza sulle donne

Sarantis Thanopulos/Nina di Maio

Nina di Maio: “Nel 2001 avevo girato un film che parla della solitudine emotiva delle donne, si chiamava L’inverno, interpretato da Valeria Bruni Tedeschi, Valeria Golino, Fabrizio Gifuni e Yorgo Voyagis. Il film parlava della mancanza di comunicazione tra l’uomo e la donna, di amori “bianchi “, di figli che non nascono come in Nodi, il libro  di Laing lo psichiatra scozzese che scrisse estesamente sulla malattia mentale, in particolare sulla psicosi. Le opinioni di Laing sulle cause e il trattamento di importanti disfunzioni mentali furono influenzate dalla filosofia esistenzialista. In controtendenza all’ortodossia psichiatrica del tempo, Laing considerava l’emozionalità espressa dal paziente una descrizione valida di esperienza vissuta più che semplicisticamente una sintomatologia di un qualche disordine separato o soggiacente. Veniva associato al movimento anti-psichiatrico, sebbene ne rifiutasse l’etichetta. Ma ora la difficoltà di comunicazione tra l’uomo e la donna e gli amori bianchi  sfociano spesso nella violenza di genere (peggiorata durante la pandemia). Credi che servano consultori per gli uomini che commettono violenza? Esistono farmaci che possono aiutare?

Ne I monologhi della vagina – Eve Ensler scrive “Lentamente compresi come nulla fosse più importante del porre fine alla violenza nei confronti delle donne, che in verità la dissacrazione delle donne rivelava il fallimento degli esseri umani nell’onorare e proteggere la vita; e questo fallimento, se non l’avessimo rettificato, avrebbe significato la fine di tutti noi. Non penso di essere estremista. Quando si violentano, picchiano, storpiano, mutilano, bruciano, seppelliscono, terrorizzano le donne, si distrugge l’energia essenziale della vita su questo pianeta. Si forza quanto è nato per essere aperto, fiducioso, caloroso, creativo e vivo a essere piegato, sterile e domato. (p. 124)”. Ti trovi?”

Sarantis Thanopulos: “Un film bello e vero il tuo Nina. Spero che torniamo a vedere la sincerità del tuo sguardo dietro la macchina da presa. Gli amori “bianchi” per assenza di una reale comunicazione e compenetrazione tra gli amanti, anche quando la sessualità è apparentemente presente, e i figli che, pur essendo partoriti, non nascono davvero alla vita (perché sono affettivamente  sradicati, apolidi), sono espressione di una violenza psichica  anonima che non si vede, non fa rumore, non odora. Sono il prodotto di una violenta repressione della femminilità nell’uomo e nella donna. Quando la violenza esplode in modo fisico, perché la dissoluzione di un reale scambio affettivo e erotico fa implodere la struttura familiare, ne pagano il prezzo i soggetti che sono meno difesi e meno compressi psichicamente: i bambini nella relazione genitori-figli e le donne nella relazione coniugale. Sotto forma di maltrattamenti subiti (fino all’omicidio) o di atti di autolesionismo.

Laing ha colto bene la distinzione tra un malessere asintomatico, finché non esplode distruttivamente, che nasce da una necrosi psichica, e una “emozionalità” destrutturata e destrutturante, il cui nesso con un disagio  psichico sottostante le assegna valore di sintomo, ma che, in realtà, è l’unica forma di vera esperienza vissuta a cui il soggetto può accedere, rappresenta un’espressione di vita. Nel femminicidio è in gioco la silenziosa devastante necrosi psichica e non il  disordine emotivo. Nel passo di Eve Ensler da te citato, la cui lucidità rende superfluo ogni commento, colpisce il fatto che ella sente la necessità di difendersi dall’essere considerata “estremista”. Il terrorismo mentale che soffoca il pensiero schietto, costringe le donne a giustificarsi del fatto di pensare. L’idea di una cura farmacologica degli uomini violenti fa parte di questo terrorismo. I consultori possono, invece, funzionare se non inseguono la rieducazione, ma aiutano a decongelare le emozioni.

Aprire le porte all’ospite

Sarantis Thanopulos/Ginevra Bompiani

Sarantis Thanopulos: “L’attesa non sembra godere di buona salute, Ginevra. È profondamente minata dall’impulso ad agire, cioè dalla coazione a ripetere, a riprodurre la stessa cosa. Si potrebbe dire che il rifiuto della sorpresa, del non previsto, del non già vissuto, determini un’eclissi della disponibilità a sostare nella  prefigurazione di un evento attendendo il suo compimento, sapendo in partenza che prefigurazione e realizzazione non coincideranno. Cosa sarebbe infatti l’attesa senza l’inatteso -l’incombere di una delusione, l’autonomia del compimento, la possibilità di un’irruzione dell’imprevisto- che le dà profondità, complessità e significato vero di esperienza?

Nel tuo libro intitolato, appunto, “L’attesa” (edizioni et.al, 2011) parli della trasformazione, che avviene nel Novecento, della coppia più armonica “Attesa e Compimento” nella coppia sincopata “Attesa e Sorpresa”. Non pensi che seppure smentisca l’attesa, la sorpresa, al tempo stesso, la compia?”

Ginevra Bompiani: “Il libro che ho scritto nel 1988 (e poi riscritto nel 2011), partiva da una frase di Wittgenstein “Noi aspettiamo questo e siamo sorpresi da quello” (Ricerche Filosofiche), e cioè dalla constatazione che non è l’atteso quello che si affaccia alla nostra porta, ma l’ospite. Questo è oggi di una verità sconvolgente, e così pure la convinzione che è l’ospite che dobbiamo accogliere, invece di continuare ad aspettare l’atteso, che anche se arrivasse, non sapremmo con tutta probabilità riconoscere. Oggi, se dovessi scriverlo una terza volta, mi farei guidare dai meravigliosi versi di Euripide: “Gli dèi ci preparano alle sorprese: l’atteso non si compie e all’inatteso un dio apre le porte”. Per fortuna dio apre quel che l’uomo cerca di chiudere, altrimenti moriremmo di avarizia e aridità, come un Arpagone aggrappato al suo inutile e fetido tesoro.”

Sarantis Thanopulos “Penso all’attesa come spazio erotico femminile, ma anche, le due cose sono strettamente connesse, come spazio di gravidanza. L’atteso, prodotto dell’immaginazione, non è mai l’ospite vero, costui è sempre atteso/inatteso. Nulla è più atteso dell’ospite e lui sempre ci sorprende. L’altro è ospitato dentro di noi già prima di essere arrivato (se lo desideriamo mentre lo immaginiamo). Dopo, nel momento in cui davvero appare, sarà riconosciuto e accolto nella sua diversità solo se è stato partorito dallo spazio interno di gestazione in cui l’abbiamo lungamente sognato. L’inospitalità è sterilità. Puzza di decomposizione. L’atteso non deve compiersi perché l’attesa respiri. È il dio dei poeti tragici -l’intenzionalità del caso-, la forza propizia che ci dischiude, sognanti, all’imprevisto.”

Ginevra Bompiani: “La figura che ha preceduto attesa e sorpresa è quella di metis e occasione. Metis, l’intelligenza che si prepara per il momento opportuno, l’occasione, quella che si offre perché tu con un balzo l’acciuffi per i capelli. Diversamente dalla metis, l’attesa ti prepara al compimento immaginario, non a quello reale, che non finirà di sorprenderti. Come tu dici, “l’atteso non deve compiersi perché l’attesa respiri”. Immagina un amore, l’incontro in cui sembra che atteso e inatteso si compiano insieme: se, mentre camminate a fianco, tu pensi che ormai l’attesa sia compiuta, ogni scarto, ogni mistero arriverà come una smentita, ti metterà di fronte una persona sconosciuta, l’inatteso ti travolgerà di nuovo come un’onda violenta. E’ il nostro tsunami quotidiano. Perché, appunto, l’atteso è immaginario, l’inatteso è reale, e il reale è inconoscibile. Ma è quello che puoi stringere a te, con amore.”

Metafore del nuovo governo, tra attesa e ri-conoscimento

Sarantis Thanopulos/Ginevra Bompiani

Sarantis Thanopulos: “Non c’è attesa, Ginevra, che non ponga la questione del riconoscimento di ciò che è atteso, desiderato o temuto che esso sia: l’arrivo di un ospite, l’accadere di un evento, l’approdo a un luogo nuovo. Cosa ci dice che è proprio ciò che aspettavamo?

L’origine della parola “simbolo” è nell’uso degli antichi greci di spezzare in due una tessera in modo che due contraenti un legame duraturo (due individui o due città) potessero prendere un pezzo della tessera e conservarlo. I due pezzi messi insieme – il verbo greco per dire “mettere insieme” è “simbalein”- consentivano il ri-conoscimento, a distanza di tempo, da parte dei contraenti del loro contratto. La rappresentazione simbolica di un legame lo sposta nello spazio dell’attesa. Nel rappresentarlo, in sua assenza, lo apre alla trasformazione, lo introduce al lutto che essa comporta. Quando il legame sarà ritrovato, riconosciuto, non sarà più identico a quello che è stato. Ci sarà una nuova conoscenza del prima. L’attesa avrà il suo compimento se saprà accettare la sorpresa, l’inatteso.”

Ginevra: “E tuttavia, caro Sarantis, questo sembra più un ri-congiungimento che un ri-conoscimento. Infatti, quando i due pezzi della tessera vengono a contatto, anche se nessuno dei possessori riconosce l’altro, vi è la certezza, per i testimoni, che il patto sia chiuso. Nel ri-conoscimento, invece, la certezza non c’è mai, perché la parola, interlocutoria o finale, nasce da un’impressione soggettiva, o meglio, da una decisione soggettiva. Per esempio, c’è poco di comune fra Lega e 5stelle, e per questo non fanno che sbandierare il ‘contratto’, cioè la tessera in due frammenti (che probabilmente, a metterli insieme, non combaciano). Mentre quel che dovrebbe succedere è un ri-conoscimento fra Pd e 5stelle, per avviare un lavoro comune. La tessera, o se vuoi il simbolo, ti stringe in una figura prestabilita e immutabile. Per questo non ho mai amato i simboli. Non fanno giocare il pensiero e la parola, non mettono in gioco l’azione umana. Ho sempre preferito, invece, la metafora, la frase che corre accanto al discorso, al gesto, all’evento, trasporta il pensiero in un racconto che mai lo definisce, in una danza che lo tiene vivo.”

Sarantis Thanopulos “Il trasporto (la “metaforà”), che crea il movimento del nostro pensiero, il passare, in origine attraverso il gesto, da un campo semantico a un altro, da un tipo di esperienza a un altro, usufruisce della possibilità dei ponti simbolici tra le cose vissute/rappresentate. E la costruzione di legami simbolici perderebbe la sua propulsione, senza la spinta che la metafora le imprime. Questi legami espandono il campo dell’intesa tra le differenze, seguono e promuovono il suo cambiamento, rinnovandola. I due pezzi di tessera rappresentano la continuità nel discontinuo: nessun ospite arriva, si fa riconoscere, dove già non è stato ospitato, congiunto, in sogno, a noi. E quando il sogno, l’attesa, diventa un incubo, il simbolo è immobile, disincarnato. Parte di un rituale a-politico che ci falsifica.”

Ginevra Bompiani: “In altre parole (fuori di metafora, si direbbe), due figure immobili, due simboli, non si riconoscono fra loro. Ci si ri-conosce in movimento, nella frase, nel tempo, nella pazienza di continuare ad aspettare l’altro quando è già arrivato. Il bambino che sbocca dal seno materno si fa ri-conoscere con i primi ciechi movimenti della bocca, delle mani, dei piedi. Si riconosce all’istante l’altro nella paura (l’incubo), ma è nell’amore, nell’accompagnamento che il ri-conoscimento piano piano si forma. E questo vale anche per questo anomalo, stridulo, irto nuovo governo: se si formerà, dovrà ri-conoscersi nelle cose, nel confronto e nell’abitudine.

L’altro è sempre un ‘ospite inatteso’, è il tempo che gli dedichi che ne fa ‘l’atteso’.

La “disforia” dell’identità sessuale

Sarantis Thanopulos

“La Repubblica” ha ospitato recentemente il confronto tra due psicoanalisti, Lorena Preta e Vittorio Lingiardi, sul tema della “disforia” dell’identità sessuale -il sentirsi  incastrati nel sesso/corpo sbagliato- in bambini prepuberi. La disforia, che rientra spontaneamente nella grande maggioranza dei casi, è diventata fonte di ansia per molti genitori.

Preta ha posto l’accento sui medici compiacenti che, somministrando farmaci capaci  di bloccarne lo sviluppo, attuano una “sospensione” della definizione sessuale, preambolo di una “riattribuzione di genere”. Collegando il disagio identitario a istanze inconsce non immediatamente decifrabili, che richiederebbero il tempo di un’elaborazione, Preta ha deplorato l’attitudine a offrire a un malessere individuale e sociale soluzioni tecniche.  

Lingiardi ha messo l’accento sul rispetto della condizione individuale, invocando una psicoanalisi accogliente, non spaventata dalle metamorfosi delle identità sessuali. Piuttosto che privilegiare un modello di cura, in mezzo a concezioni contrastanti sull’origine del malessere, sarebbe opportuno seguire un approccio cooperativo, con un ascolto attento rivolto al singolo caso e alla soggettività.

La scienza, la filosofia, la psicoanalisi non sono, in effetti, canoni di vita. Ognuno deve sentirsi libero di gestire (con i mezzi a sua disposizione) il proprio modo di essere nel mondo. Tuttavia molte condizioni esistenziali sono oggi dettate dalla negazione del lutto e il corpo contraffatto si sta equiparando al corpo vero. Interferire con lo sviluppo psicocorporeo nell’infanzia, bloccandolo o modificandolo medicalmente, sulla base di convinzioni o comportamenti ancora da evolvere, che così si rendono definitivi, è un abuso. I genitori non devono reprimere il disagio identitario del loro bambino, né assumerlo come un dato di fatto (fato), ma cercare di comprendere cosa sta accadendo tra loro e lui, allargando, il più possibile, l’area del confronto.

La concezione dell’identità sessuale come combinazione tra anatomia e cultura, estromette l’essenziale: il legame tra psiche e corpo, la materia pulsionale del gesto erotico -che nessuna tavola anatomica può catturare ed è l’oggetto reale del condizionamento culturale. Ginevra Bompiani, intervenuta nel dibattito dalle pagine di questo giornale, ha parlato di intreccio tra immaginario e dato corporeo e dell’invenzione creativa che il primo opera sul secondo. La manipolazione sociale dell’immaginario annulla l’invenzione.  

Bompiani ha colto il punto: la manipolazione dell’immaginario conduce alla manipolazione del corpo. Sostenere che l’anatomia non debba essere un destino, per poi compiacere la costruzione di un’anatomia fittizia (la peggiore delle normalizzazioni e il più irremovibile dei destini), è una forte incoerenza che lascia spazio all’onnipotenza: la creazione artificiale di stereotipie identitarie. Ha ragione Bompiani nel dire che la scelta identitaria contestata non deve diventare una corazza da indossare.

Si può rispettare, accogliere i transessuali, senza compatirli, né assecondare la loro visuale. Della loro condizione si può “prendere cura”, se sono interessati, a partire dal reciproco lutto che è necessario fare. La dissociazione tra il dato corporeo e la rappresentazione psichica del proprio sesso interferisce con lo sviluppo del corpo erotico e limita seriamente la profondità del coinvolgimento e della soddisfazione sessuale. Una perdita significativa (più radicale nel caso dell’asportazione chirurgica dei genitali) che andrebbe elaborata insieme alla rinuncia alla nostra pretesa di una connessione senza falle tra corpo e psiche nella determinazione dell’identità sessuale.

La “prima cosa bella” e la negazione del dolore

Sarantis Thanopulos

Capita ogni tanto che il benessere nel mondo si affidi all’assenza degli psicoanalisti. “La prima cosa bella”, rubrica di un giornale nazionale, ha riportato di recente la notizia di un fatto sorprendente accaduto a Sanguinetto, provincia di Verona. Alle Europee aveva vinto la Lega. Ma alle comunali ha vinto in modo netto, contro ogni aspettativa, il candidato, quasi di bandiera, del centrosinistra. Con una partecipazione al voto alta: il 71%.

“Miracolo” che il titolare della rubrica, laico convinto, ha voluto spiegare con un dissociazione di massa dagli psicoanalisti che, pure a Sanguinetto, infesterebbero lo spazio della Polis. Secondo la sua ispirata narrazione, il neoeletto sindaco per andare a mettersi la fascia avrebbe disdetto il suo appuntamento con l’analista. Morale della favola: “Il problema degli psicanalisti è che ti inducono a cercare il trauma e non la felicità dimenticata, finendo per convincerti che hai avuto una vita traumatica e infelice.”

Il sostenitore del “sentire e pensare positivo”, non se la prende con i trainer delle idee, dei comportamenti e dei gusti che regnano imperturbati nel nostro quotidiano. Nel suo mirino sono proprio gli psicoanalisti. È antisovranista, antileghista fiero, eppure condivide con i suoi avversari la stessa idea, che falsifica la realtà, di una “felicità dimenticata”: una “fake news” permanente che inventa il passato, occupa il presente e cancella il futuro. Per i xenofobi e i razzisti i nemici sono i migranti che appestano il nostro sacro suolo, per il progressista che sente di avere nelle mani il segreto per sconfiggerli, il nemico è il dolore che c’è nel mondo e l’esigenza di prenderne cura.

Con questa “schizofrenia” del pensiero e dei sentimenti, che da una parte combattono i “barbari” e dall’altra parte condividono i loro miti fondativi, non è per niente strano che nel nostro mondo non avanza la felicità bensì l’infelicità bieca. Sanguinetto e le tante altre eccezioni ci dicono che la partita non è chiusa, che la grave involuzione politica e culturale in cui viviamo è reversibile, a condizione di riconoscere e rimuovere le cause della comune infelicità – la colonna portante dell’astensione dalla vita. Ciò  non avviene invitando i cittadini a coltivare la loro perduta innocenza e felicità nel giardino di casa.

La “prima cosa bella” può  avere un senso puramente retorico: la nostalgia che guarda al passato, pensando di afferrare, per effetto magico, l’avvenire. Oppure, può avere un senso metaforico: rappresentare la permanenza del nostro aprirsi al mondo -che i nostri incontri iniziali con la sua bellezza hanno creato-, la meraviglia/esposizione delle prime esperienze che guardano, nostalgicamente, al futuro. Ciò che di bello c’è stato, lo è e lo sarà nel luogo della potenzialità in perenne evoluzione dell’esperienza che non si fa schiava della concretezza (della cosa che realizzata finisce, evapora) perché non è immune alla sofferenza.

Nessuno può essere felice se non riesce a soffrire. La bellezza non è anodina, la felicità non è anestesia. Conoscono i traumi: la forza di “Guernica” o della “Passione secondo Matteo” stanno nello sprigionamento della complessità e profondità piacevole della vita che sfida la morte. La presenza del dolore ci dice che siamo vivi, che la necrosi non ha vinto, la sua stagnazione, spesso sorda, segnala il suo funzionamento come ottundimento. La psicoanalisi non lo inventa, se ne prende cura, come la stregoneria, lo sciamanesimo, la religione, la psichiatria. Cerca di non racchiuderlo nei circuiti nervosi, nelle cause genetiche, nel demoniaco, nei comportamenti. Di non limitarsi a lenirlo o a reprimerlo, ma farlo fluire, renderlo fecondo.

“Sfrimma” (apri): la ferita come presagio della poesia

SarantisThanopulos/Enzo Mancuso

Sarantis Thanopulos: “Caro Enzo, le tue poesie raccolte in “Sfrimma” (Ed. Mesogea) sono intensamente, profondamene erotiche. Sanno dell’odore della terra e delle foglie bagnate d’acqua piovana. Assaporano il sale della breccia marina. Sognano il corpo della donna carezzandone l’ombra. Affondano nel travaglio delle madri partorienti e  respirano con i loro sospiri silenti. Amano viaggiare in compagnia del canto degli uccelli. Si addentrano nei vicoli dei villaggi sperduti. Pescano nel fondo dell’anima, negli occhi incantati dalle favole, salgono indomite dall’alba alla notte, impenitenti.

Il loro eros non teme la fatica, i sentieri  impervi, le lande desolate, non prende scorciatoie, non accelera i passi. Conosce la delusione, ma non si fa esperto di tattiche e strategie. Non impara e non insegna, rifugge  le parole accattivanti e i bei sentimenti. Tu canti l’amore della vita con la sofferenza che intuisce, la passione discreta che non demorde. Che pensi di questo mondo aspro, inospitale  sul quale il tuo inchiostro sonoro incide parole vive?

Enzo Mancuso: “Caro Saradis, parli di mondo aspro e inospitale e la mente immancabilmente si accende nel ricordare il paesaggio che ha accompagnato il mio sguardo, in quelle terre di argilla e di gesso e  lingue di sale che affiorano e sembrano sanguinare sotto il sole implacabile dell’isola. Mi sono sempre chiesto se quello che si è disvelato ai miei occhi nei primi anni dell’infanzia non abbia per certi versi  influito sulla formazione del carattere o suggerito un certa disposizione a guardare il mondo, favorendo un gesto, una postura più incline alle sinuosità o asprezze di quella natura. Mi piace pensare che l’intimità che si è creata con quel paesaggio si sia trovata, ad un certo punto, in qualche snodo del mio cammino, che con la sua lingua muta abbia detto la sua e che io l’abbia sentita quella sua non voce e in qualche modo ne abbia tenuto conto. Mi piace, ancora, pensare che quel paesaggio mi è parente, inciso nella carne viva del mio stato di famiglia, che quel suo bianco sanguinamento, quella ferita, sia presagio avverato della mia che  porto con me nel mondo.

Sarantis Thanopulos: “Il tuo è un dire politico, fondato sul sentimento erotico, che incede senza arroganza. Il suo senso si rivela di più quando le tue poesie le leggi. Le pause, le esitazioni lo scandiscono, le virgole e i punti lo chiariscono, il tono della voce misura la sua estensione, senza racchiuderlo in uno spazio definito. Non è un discorso che persuade: ascolta e, interrogandosi, interroga, ha la natura dell’aporia rivelatrice. Mi piace la sua costruzione civica, il suo intrecciare la poesia tragica e l’insegnamento di Socrate, la verità che vive nel dialogo, mai convinta di sé, perché conosce la solitudine ma non ne fa uno scudo. “Sfrimma” in siciliano significa “apri”. L’asprezza del mondo ferisce il sentimento, ma il sangue bianco della ferita non acceca il tuo sguardo aperto sulla vita.”

Enzo Mancuso: “Si, è nella voce che il mondo si avvera. Le immagini, i pensieri  superano la soglia di astrattezza, si fanno respiro e così vita. Leggendo e mettendoci la voce riesco a sentire quanto lontano o vicino io mi trovi, in quel momento, dall’intimità del vero tra me e l’altro me che ascolta. Ho passato la mia vita cantando, il canto è stato ed è ancora per me una semina che non conosce buona o  cattiva stagione, lo devo fare, anche se fuori tira vento o piove, sotto la neve e sotto il sole e quella voce deve resistere a ogni tentazione di avvolgere nel damasco del virtuosismo l’autocompiacimento e il vuoto. Per tornare alla lettura  io trovo nelle pause, nelle virgole, in quelle che tu chiami estensioni della voce, una benedizione attraverso cui la mia introspezione affiora e si fa visibile.

“Le Troiane” e “Elena”: la persistenza della donna

Sarantis Thanopulos

Si è conclusa la stagione 2019  delle rappresentazioni tragiche a Siracusa, nell’antico teatro greco. Quest’anno sono state messe in scena due opere di Euripide: “Le Troiane” e “Elena”. Euripide -criticato da Aristotele per le libertà narrative prese e per la supposta incoerenza dei suoi personaggi- è stato accusato da Nietzsche di tradimento nei confronti della tragedia perché l’avrebbe portata fuori dal contesto dionisiaco (Eschilo)/ apollineo (Sofocle) in cui doveva restare. In realtà, Euripide, destabilizzando i canoni della tradizione, ha portato all’estremo il conflitto non dichiarato, e rimasto irrisolto, tra lo stato democratico/imperialista ateniese e la poesia.

Con “Le Troiane”, opera rappresentata il 415 a.C, egli porta sulla scena una  critica severa nei confronti della politica egemonica di Atene, davanti a  suoi cittadini contenti di sé e già imbarcati nell’insensata spedizione contro Siracusa. Denuncia il disastro umanitario che la politica espansiva della loro città sta continuando a provocare. L’assassinio del figlio di Ettore, fine dell’illusione di un possibile riscatto, svela il significato della logica guerrafondaia in ogni momento storico e luogo: il presente che uccide, insieme al passato, il futuro.       

Nel marasma (dei vincitori greci e dei vinti troiani) le donne resistono. Al centro della dolcezza del vivere e dell’amarezza della distruzione, sono sempre loro a mantenere la continuità del senso della vita, a proteggerlo dall’insensatezza. Sia quando sono ancora desideranti, erotiche (Andromaca, Elena) sia quando sono scavare e irrigidite dal dolore (Ecuba). Anche quando confliggono -seguono paradigmi femminili differenti, perfino opposti- restano unite. In ogni donna coesistono la fedeltà al legame amoroso (Andromaca) e la libertà  di disporre del proprio corpo (Elena). Cosa sarebbero le donne senza la libertà di sedurre ed essere sedotte e la fedeltà a se stesse, nell’essere fedeli all’oggetto amato?

Tre anni dopo “Le Troiane”, quando la rovina finale si è abbattuta sugli ateniesi in Sicilia, Euripide ha fatto di Elena il personaggio centrale di una sua tragedia, cambiando radicalmente la prospettiva sulla sua figura tracciata dalla leggenda. Elena non aveva tradito il marito. Al suo posto nel letto di Paride c’era stato un fantasma, un idolo fatto di etere, e lei era stata trasferita dagli dei in Egitto. La guerra dei Greci contro i Troiani, con la distruzione finale di Troia e la morte di tantissimi uomini, era stata generata da un’illusione ottica.

La storia si chiude con un insolito happy end. Menelao e Elena vanno dalla cattiva sorte alla buona e non viceversa. Tuttavia l’opera, che  ha ispirato la commedia attica, conserva tutta la sua potenza tragica. Riprende il discorso di “Le Troiane” e mostra come la visuale strumentale con cui i maschi fanno della donna, da loro temuta, un oggetto potentemente  erotico che mai veramente posseduto non li possiede, produce solo immagini ingannatrici nel nome delle quali essi si uccidono (come soggetti erotici in primo luogo).

Euripide mostra che la vera “bella Elena” non è un prodotto dell’immaginario collettivo  che  sottomette la donna ai canoni difensivi della sessualità maschile, la Marilyn Monroe addomesticata, inoffensiva che fa sognare tutti, e nessuno conosce, incontra. È la capacità della donna di persistere come soggetto di desiderio e di saggezza profonda sulla vita, anche in condizioni proibitive. A questa persistenza nessun uomo può avere approdo a buon mercato, senza fatica e rischi.Trasformando Menelao in Ulisse e Elena in Penelope,  Euripide li fa ricongiungere lontano dall’Itaca, nell’esilio condiviso degli amanti.