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L’appetito vien guardando?

È da tempo ormai che il palinsesto televisivo straborda di programmi che parlano sotto varie forme di cibo. Dai classici di un tempo che per lo più si proponevano e si propongono di intrattenere mostrando l’arte culinaria, partendo dall’antesignana Wilma de Angelis per finire alla moderna Benedetta Parodi o ai vari Masterchef, il mondo mediatico ha investito e ci ha investito di una programmazione selvaggia su sfide ai fornelli tra gente comune, reality sulla consacrazione di un nuovo grande chef, scambi di inviti a cena, riorganizzazione di pessimi ristoranti, sperimentazioni di cucine stomachevoli, fino ad arrivare ad obesi che si fanno “curare” da nutrizionisti, personal trainer, diet-coach, da soli o in gruppi rinchiusi in comunità o al trattamento di persone affette da disturbi alimentari.

Da un lato il cibo è rappresentato come oggetto d’amore, perfino erotico, attraverso il quale si fa arte, si coccola, ci si prende cura di sé e degli altri, si ama. Dall’altra diventa feticcio, perversione autodistruzione da cui si deve essere salvati attraverso il sacrificio, la sofferenza per tornare ad essere “normali” e liberi dal mostro-cibo.

E tutto questo dentro una programmazione schizoide in cui “Il boss delle torte”, dove si costruiscono sculture incredibili con i dolci, e “grassi contro magri” dove una persona obesa e una anoressica sono costrette per una settimana a scambiarsi l’alimentazione, sono separati da pochi minuti di pubblicità.

Perché due rappresentazioni così diverse dell’oggetto cibo fanno così ugualmente presa sul pubblico televisivo? E magari sul medesimo spettatore?

C’è un certo masochismo nell’immaginare di godere e subito dopo di assistere agli effetti devastanti di un godimento estremo. Riempirsi gli occhi di cibo permette, forse, di riuscire a sentire una certa pienezza di stomaco e questo rende l’eventualità di distruggersi mangiando uno spauracchio evitabile, perché l’unica cosa di cui ci si riempie davvero sono le ghiandole salivali.

In questo chi è malato di anoressia aveva già scoperto la valenza quasi magica dell’immaginazione avendo spesso l’abitudine di cucinare pietanze ipercaloriche e obbligando i propri familiari e amici a mangiarle standosene a guardare colmandosi degli odori e delle bocche altrui che masticano “Io mi sazio del vostro ingrassare”.

In tutto questo il cibo che nutre, che toglie la fame, dov’è? Da nessuna parte. La fame non è contemplata: si cucina per soddisfare un piacere e si fanno diete drastiche per aver voluto esagerare con quello stesso piacere, atteggiamento che ha messo a rischio la vita.

In accordo con il mito di Eros e Thanatos, da una parte vince la pulsione di vita, dall’altra vince, o rischia di vincere, la pulsione di morte.

L’organismo vuole morire solo alla propria maniera” (Freud “Al di là del principio del piacere” 1920). In questo caso mangiando. Come avviene ne “La grande abbuffata” (Marco Ferreri, 1973) film geniale e visionario in cui i protagonisti si ritrovano in una villa per cucinare e mangiare, mangiare e cucinare, fino a morirne, affogati nel cibo e nel sesso, nel godimento, che di per sé si sviluppa nell’immediatezza e invece diventa senza fine.

Ma nei reality non c’è spazio per il dramma che si compie e da cui non si torna indietro. E allora puntualmente ricompare la pulsione di autoconservazione  e si cerca in maniera alquanto surreale aiuto in un programma televisivo.

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E di nuovo un programma di cucina. E ci si chiede, ma allora, come si fa a non eccedere, a non scavalcare il limite tra il sacrosanto soddisfacimento di un piacere indiscutibile e il godimento senza fine? Forse tra cuochi provetti e casalinghe creative, dobbiamo imparare dagli chef: il segreto è nelle porzioni, signori, nelle porzioni. Piccole, anche di TV.

Dott.ssa Stefania Boldrini