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Stoner – John Williams

John Williams, Stoner, postfazione all’edizione italiana di Peter Cameron, traduzione di Stefano Tummolini, Fazi editore 2012, pp. 336

«William Stoner si iscrisse all’Università del Missouri nel 1910, all’età di diciannove anni. Otto anni dopo, al culmine della prima guerra mondiale, gli fu conferito il dottorato in Filosofia e ottenne un incarico presso la stessa università, dove restò a insegnare fino alla sua morte, nel 1956. Non superò mai il grado di ricercatore, e pochi studenti, dopo aver frequentato i suoi corsi, serbarono di lui un ricordo nitido».
Sono le prime righe di Stoner, romanzo di John Williams, apparso per la prima volta nel 1965 e poi dimenticato, per riapparire soltanto nel 2006 e diventare, a partire da quell’anno, un libro molto amato e un riconosciuto capolavoro. Quelle prime righe, nella loro mancanza di colore e di promesse, sembrano una sfida al lettore: ci inducono anzi a chiederci, da subito, di cosa sia fatta una vita, di quali elementi memorabili, di quali trame visibili. Ma William Stoner, il protagonista del romanzo, è davvero tutto chiuso in quelle date e nell’ambiente dapprima familiare e contadino, poi universitario: conduce una vita lineare, con pochi sobbalzi. Il primo di essi porta il giovane agricoltore Stoner dagli studi di Agraria a quelli di Letteratura Inglese. Il secondo lo vede sposarsi con una donna bella e gelida, quasi intangibile. Il terzo lo consegna a un unico amore, aggredito dal perbenismo degli altri e presto interrotto.
La prosa di Williams sembra seguire con semplicità la vita di Stoner senza minimamente disturbarla con l’invenzione: tutto è normale, affettuoso e folle, arido e fatale. Ci sorprendiamo a capire quanta ferocia personale può esserci in un contrasto accademico, quale risveglio di emozioni in una relazione clandestina, quanto strano entusiasmo in una mai completata carriera di insegnante, quale accettazione in una morte per malattia.
A volte vorremmo ribellarci di fronte alla mitezza di Stoner: ad esempio quando la moglie riduce a pochi metri quadri il suo spazio di studio e di vita; o quando egli soccombe al conformismo dei colleghi docenti. Ma poi capiamo che forse Stoner è giunto a comprendere che le cose o gli eventi sono fatti dei sentimenti con cui noi li muoviamo o li facciamo stare dove sono, vivendoli nel tempo che ci è dato.

                                                                                                         Dott.ssa Daniela Cinelli

Note sul tema dell’immagine

Articolo pubblicato il 20 settembre 2011 su “Doppiozero

“Volevo essere una farfalla”

di Michela Marzano 

Vivere la propria immagine

Viviamo nell’epoca dell’immagine, epoca in cui siamo chiamati a fare i conti a vario titolo e a diversi livelli con il ruolo sempre più centrale che quest’ultima ha progressivamente assunto.

Attualmente l’immagine è oggetto di un sovrainvestimento, direttamente connesso con un’estensione incredibile del campo del visibile, a partire dallo sviluppo di mezzi tecnologici, applicati sia alla scienza che ai mezzi di comunicazione.

Tutto questo non può non avere effetti sul corpo, che per sua struttura è legato strettamente con l’immagine, a partire dal valore costitutivo che questa ricopre per l’essere umano sin dalla primissima infanzia[1].

Uno degli effetti che possiamo riscontrare è un disagio diffuso tra i giovani, che risultano particolarmente esposti a questo fenomeno epocale, relativo al come rapportarsi con un’immagine, presunta ideale, posta continuamente davanti a loro, sempre un passo avanti, come un miraggio irraggiungibile. Questa risulta tanto più forte e feroce nel suo potere ipnotico, quanto meno riesce ad essere mediata dalla parola o da un desiderio particolare che muove il soggetto. Un desiderio, cioè che opera a partire da un altro punto, si potrebbe dire a monte e non come un miraggio o un’illusione. Si tratta di quel desiderio che fa spazio a ciascuno, come soggetto particolare e non come essere perfetto rispondente a un prototipo preconfezionato e prestabilito.

Quando tale desiderio viene meno o vacilla, il corpo è chiamato in causa, perché può essere preso di mira,  senza alcuna mediazione soggettiva, attraverso varie pratiche direttamente agite. Il rischio è quello di una riduzione del corpo all’immagine, a un corpo bidimensionale, appiattito, dal quale si vuole tagliare fuori la dimensione della parola nel suo avere un’incidenza, cioè nella sua operatività, che è quella di tracciare i confini del corpo, di quel corpo che è diverso da un altro.

Come ha sottolineato una Psicoanalista francese[2], il culto dell’apparenza e dell’adorazione dell’immagine è uno dei prodotti più venduti, in vari modi e a vari livelli: “Ciò che caratterizza i nostri giorni è che questa adorazione vale per il corpo di ciascuno, cioè ciascuno ha l’idea di adorare il suo corpo e non quello dell’altro. L’adorazione della propria apparenza comporta lo sviluppo di varie tecniche di modificazione a vari livelli più o meno invasivi. L’immagine è caduta nel campo degli oggetti, pur avendo ancora il suo valore unificante”.

In questo scenario risultano così preziosi quei testi che riescono, con una maestria particolare a dare spazio e voce a una parola legata a un’esperienza del tutto singolare come ad esempio fa notare Anna Stefi in un articolo sul libro “Volevo essere una farfalla” di M. Marzano[3]: “Non voglio sapere delle sofferenze di Michela Marzano per soddisfare il mio voyerismo , né voglio sapere delle sue debolezze per quell’esigenza che tutti abbiamo, figlia dello stesso pensiero di cui l’anoressia è uno tra i sintomi, di riportare vicino a noi modelli idealizzati cui vogliamo tendere; ma voglio sapere che è possibile rivendicare, ed è qui la speranza del libro e il suo impegno etico, il ruolo che al corpo e alla propria storia spetta. Il coraggio di Volevo essere una farfalla insomma non è soltanto nell’esposizione della propria fragilità, nella messa a nudo del sé, ma più ancora nel dire oggi che di tutto questo non solo si può ma si deve parlare, se si vuole fornire spazio e terreno fertile allo svilupparsi di una dimensione critica che consenta la decostruzione di immagini e discorsi che producono devianze pericolose, devianze che abbiamo davanti agli occhi e di cui la cultura ha il dovere di occuparsi”[4].

In fondo la scrittura di un libro è anche un modo di dare un corpo alle parole. E a mio avviso, questa operazione risulta tanto più interessante, perché di un libro si può parlare e tornare più volte a parlare. Cioè dà la possibilità di rilanciare la parola, dà la parola.

[1] J. Lacan, Lo stadio dello specchio, in Scritti, volume primo, Einaudi Torino 1974.
[2] M.H. Brousse, psicoanalista a Parigi, membro dell’AMP, Conferenza dal titolo Il corpo nel XXI secolo tenuta all’Istituto freudiano di Roma il 22 settembre 2012, inedita.
[3] M. Marzano, Volevo essere una farfalla, Mondadori Milano 2011.
[4] Articolo di A. Stefi, (Doppiozero, 20 settembre 2011)

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Dott.ssa Beatrice Bosi

Il sentiero

Il sentiero, Bosnia-Erzegovina, 2011. Regia di Jasmila Zbanic. Principali interpreti: Zrinka Cvitesic, Leon Lucev.

Nella Sarajevo post-bellica Amar e Luna, una coppia bosniaco-mussulmana, si amano e desiderano avere un figlio, che però fa difficoltà ad arrivare. Ricorrono dunque all’aiuto della scienza che promette loro, purché i protocolli vengano seguiti scrupolosamente, un risultato sicuro.

Un’apparente dimenticanza di Amar fa emergere il suo sintomo: l’alcolismo. Arriva la sospensione dal lavoro e l’inizio di un percorso di terapia. Il caso però porta Amar a incontrare un vecchio compagno d’armi, che ora è diventato wahbita (il wahbismo è un movimento riformatore fondamentalista mussulmano). Amar, pian piano, si lascia catturare dai discorsi, a volte chiaramente contraddittori, (“abbiamo bisogno di soldati per costruire la pace”) e dal modo di vita dei wahbiti (pratiche religiose quotidiane, rinuncia al fumo e all’alcol, vita comunitaria, rigida separazione tra uomini e donne). Amar si trasforma dunque, abbastanza velocemente, in un fervente wahbita. Luna si sforza di ritrovare l’uomo che amava, anche per i suoi difetti, ma è come se lui fosse diventato un altro. Inoltre, dopo aver smesso di seguire i protocolli per favorire la gravidanza, Luna si ritrova, proprio ora, inspiegabilmente incinta. La vita, e sopratutto quella in arrivo, la mettono di fronte alla necessità di una scelta.

Quello che mi sembra interessante in questo film è l’aver colto come, per certi soggetti, un sintomo, ossia qualcosa che non va ma di cui non si riesce a fare a meno, possa svolgere una funzione di vera e propria tenuta della vita psichica. Ne consegue che, per poter eliminare il proprio sintomo, il soggetto deve riuscire a rimpiazzarlo con qualcos’altro che, indipendentemente dal modo in cui si presenta, viene a svolgere, necessariamente, la stessa funzione.

Dott. Ezio De Francesco