La matrice transgenerazionale del disagio psichico
CONFERENZA DI PRESENTAZIONE DELLA ASSOCIAZIONE PSICOPATOLOGIE CONTEMPORANEE “IL CORPO SPECCHIO”, VERONA 21 APRILE 2012
Sarantis Thanopulos (Psicoanalista AFT S.P.I, I.P.A.)
La matrice transgenerazionale del disagio psichico.
Rivisitazione e rielaborazione del complesso della “madre morta”
Antonia, una mia paziente che ha un intenso rapporto di odio amore con la madre si lamenta tutta la seduta, parla delle sue ansie, delle sue angosce, delle sue preoccupazioni di salute, della sua insofferenza nei confronti della madre dei suoi sensi di colpa nei suoi confronti. Occupa tutta la seduta con un racconto ininterrotto. Alla fine della seduta mi limito a commentare: “Lei investe le sue ansie, come se le servisse mantenerle attive. Avrà a che fare con la sua paura di sentirsi viva di cui abbiamo parlato recentemente.
Nella seduta successiva mi racconta un episodio. Suo marito ha comprato un gozzo nuovo molto bello. Nel momento di far calare la barca in acqua togliendo le funi che la legavano lei ha pensato a una bara che si calava nella tomba. Poi ha reagito dicendosi che il mare è vita, si è ricordata quello che le avevo detto alla fine della seduta precedente e si è tranquilizzata.
Si ricorda un sogno che l’ha inquietata: sua figlia vomitava sangue. Le viene in mente un’emoragia, un tumore. Poi un embolo cerebrale.
Dice che non le piacciono questi sogni, che sono brutti la spaventano.
Commento che i sogni somigliano un po’ alle opere d’arte: il loro valore sta nel significato non nella scena rappresentata che può essere un campo di fiori o uno scheletro.
Resta colpita. Dice: ” Ha detto scheletro! Mi sono ricordata di un altro sogno. Dentro il mare c’era un’armatura e dentro l’armatura uno scheletro.
Le dico che quando era piccola incontrava sua madre depressa e collegava la vita che era dentro di lei con la morte di sua madre, perché più era viva più metteva sua madre in difficoltà più sua madre si eclissava. Se invece lei si ammalava sua madre si attivava di più tornava più presente. Essere viva, stare bene faceva male a sua madre, essere malata creava tra di loro più complicità faceva bene a sua madre.
Lei: “Lo sa che mi ha detto mia madre l’altro ieri? Che quando sono stata così male, prima di decidere di fare un’analisi, lei aveva un migliore rapporto con me mi sentiva più vicina, avevo più bisogno di lei, ero più affettuosa”.
Il tumore, rappresenta spesso, nella fantasia come nei sogni, la depressione, il “male oscuro” che invade il mondo interno. Ma il tumore rappresenta più specificamente qualcosa di alieno, qualcosa di estraneo che i impossessa del soggetto ipotecando il suo destino in modo infausto. Un’altra mia paziente faceva di continuo sogni in cui le veniva diagnosticato un tunore incurabile. Si è potuto comprendere con il tempo che il tumore rappresentasse la depressione di sua madre che alienava il suo mondo interno. La paziente si era identificata con la madre depressione evitando di perderla. Più precisamente aveva cercato di curare la sua depressione (la perdita della madre) incorporando la depressione materna dentro di sé.
Ho interpretato il sogno di Antonia, dicendole che raffigurava la condizione di figlia come lei la immaginava: occupata dal malessere materno che occupava il suo spazio psichico, preoccupata di una perdita che poteva diventare emorragia (perdere l’altro come perdere una parte di sé). Questa perdita poteva diventare un embolo, paralizzare la sua capacità di muoversi nella vita e di pensare con la propria testa.
***
Antonia aveva paura di trasmettere a sua figlia di sei anni il suo malessere. Questo corrispondeva alla sua oscura percezione che rischiava di trasmettere alla figlia la “madre morta” che portava dentro di sé. La madre morta è diffusamente presente nella clinica psicoanalitica anche se può configurarsi meglio nelle storie di alcuni pazienti.
La madre sufficientemente buona è una madre sufficientemente viva e desiderante che desidera un figlio vivo e desiderante, una madre suffucientemente capace di coinvolgimento e in grado di sentire e leggere le proprie emozioni senza reprimerle, tollerando la loro intensità e godendo di esse. Nella mia visuale la madre morta è la madre che non è sufficientemente viva. Evita il coinvolgimento quando supera una certa soglia e il figlio ha la sensazione che ciò che precedentemente era vivo di colpo si ritrae e diventa inerte. Questa definizione estende il tipo di situazione che descrive Green: una madre che per un grave lutto improvviso cambia profondamente e il bambino non la ritrova più. Credo, infatti che la descrizione che Green fa della madre morta può servire meglio come inquadramento di una dimensione più generale, in cui la madre si eclissa sul più bello per un lutto che interviene improvvisamente (e quindi a partire da un determinato periodo, che più è precoce più il risultato e negativo) o per un lutto che porta sospeso dentro di sé. Per quanto sia possibile pensare (perchè effettivamente può accadere) che un lutto improvviso e devastante (come la perdita di un persona molto cara) possa interferire pesantemente con la disponibilità di una madre sufficientemente viva (e perturbare anche la capacità di un ambiente sufficientemente buono, a partire da padre, di soccorrere la madre e il figlio che resta privo di lei), la situazione decisamente più diffusa e clinicamente più significativa è quella in cui la perdita che interviene ( che può non essere tanto importante sul piano reale quanto piuttosto sul piano simbolico), si incastra con un lutto precedente non risolto o insufficientemente risolto, che riguarda un oggetto importante perduto dalla madre nella sua infanzia, un nucleo melanconico in lei, non necessariamente espresso sul piano clinico e non necessariamente di grave entità. La condizione di madre morta, nel senso ampliato di madre non sufficientemente viva, si può estendere fino a includere una madre con una costituzione melanconica, depressiva, che nel suo rapporto con i figli non riesce a farsi coinvolgere sufficientemente da loro, indipendentemente dalla presenza di una perdita reale o simbolica. Questo tipo di madre tende a rendere prevedibili i figli, per rendere prevedibile il loro accudimento e evitare coinvolgimenti che superino una certa soglia, e se i figli sfuggono a questa sua esigenza, ancor più che pretesa, perde la capacità di gestirli andando in crisi evidente o ritirandosi. I figli hanno la sensazione che quando sono vivi e spontanei (ciò che li rende obiettivamente imprevedibili) la loro madre non c’è più, che è, di fatto, morta. Va da sé che questa mancanza d’incontro si verifica normalmente nella vita in varie circostanze del rapporto madre – figli anche se ovviamente in modo non eccessivamente traumatico e gioca un ruolo importante nell’ avvicinare i figli ai lutti dei genitori e alla loro testimonianza che è sempre testimonianza anche di perdite.
Le madri morte sono deficitarie sul piano dei movimenti del desiderio non sul piano dell’accudimento. Sanno soddisfare il bisogno, usando questa loro capacità in senso antidepressivo (come diventa evidente in ciò che la madre dice ad Antonia) ma ritirano di fronte al desiderio e si deprimono sotto la sua spinta. Finiscono per assumere un atteggiamento simile a quelllo descritto da Green:
“(…) il lutto della madre modifica il suo atteggiamento fondamentale nei confronti del figli, ch’ella si sente impotente ad amare, ma che continua ad amare, continuando ad occuparsi di lui. Ma, come si dice, “senza metterci l’anima”. (276)
La madre morta che è tale nella misura in cui porta un lutto inevaso che riguarda la sua infanzia e il suo rapporto con i genitori, introduce di fatto una dimensione transgenerazionale: sovrappone il proprio lutto al lutto del bambino (che l’ha persa) e lo rende ingestibile. Una prospettiva inedita sulla madre morta, che ci avvicina di più alla dimensione trangenerazionale, viene daWinnicott che con il suo concetto di madre con l’oggetto centrale morto, ha anticipato di molti anni il discorso di Green. Si tratta di una madre che in un periodo critico dello sviluppo del bambino è in lutto per la perdita di un oggetto che in quel momento assume una posizione centrale nella sua organizzazione psichica. La madre identifica il bambino con il suo oggetto perduto e lo vede morto. Il bambino, invece di godere del fatto di essere vivo, deve dimostrare alla madre di esserlo. Torna sempre al punto di partenza che non può essere dato per scontato ma un dato da conquistare ogni volta.
La prospettiva di Winnicott è fondamentale ma andrebbe emendata in un suo punto. Più il bambino riesce a mostrarsi vivo, più ha successo nel fa vedere a sua madre che egli non è il suo oggetto morto, più la madre sente che questo oggetto è perduto senza appello e più si dispera e si eclissa dalla relazione con il figlio. Nel fatto che il suo bambino è vivo non vede altro che l’estraneità della vita. Il bambino non ha guadagnato nulla che approdare alla percezione che quando si sente vivo sua madre è morta, che il suo desiderio fa morire l’oggetto del desiderio. La madre rivolge al bambino la domanda che egli animi il suo oggetto morto. Ciò che lei aspetta è di veder rivivere il suo morto nel bambino. Se il bambino si rifiutasse il suo essere vivo per conto suo sarebbe senza senso per lei e finirebbe per essere senza senso anche per lui. Il bambino accetta di prestare la sua vita all’oggetto della madre animandolo artificialmente (nei sogni di molti pazienti ciò viene rappresentato attraverso fantocci, manicchini o bambolotti che si animano in modo irreale). La madre si rianima perché il suo oggetto riappare magicamente alla vita. La messa in scena della resurrezione, cui il bambino si presta, crea quella illusione, quasi un’allucinazione, che aiuta la la madre a sospendere in uno stato tra la vita e la morte l’esistenza dell’oggetto dentro di sé, che rimane allo stato di “morto vivente”. Il bambino perverte suo desiderio, trasformandolo da desiderio di godimento dell’oggetto desiderato a desiderio di sua rianimazione. Sospende in questo modo una parte significativa della vita dentro di sé: alla sospensione della morte dell’oggetto della madre corrisponde la sospensione simmetrica della vita del bambino che gli presta il suo sangue.
Una mia paziente rappresentava questa situazione attraverso una moltitudine di sogni in cui lei e sua madre,o un suo corrispettivo, si trovavano in una situazione in cui sua madre giaceva malata su un letto in un ospedale o in altri posti (tra cui un sotterraneo totalmente chiuso e con solo una presa d’aria) e lei la assisteva o le stava vicino. Lei era un fantasma o accanto a lei poteva essere un fantasma che era lei o sua madre. Se lei era viva sua madre diventava un fantasma, se lei compiaceva sua madre sua madre tornava viva, ma lei diventava il fantasma di se stessa. Una cosa che può essere aggiunta alle caratteristiche della madre morta è la sua necrofilia. Investe il morto, non il vivo, è attaccata al suo soggetto morto, rifiutando la sua morte. Nega la morte, attraverso il morto vivente, non aspira a ritrovare la vita. La sua necrofilia (che trasforma il suo oggetto in un vampiro che si nutre del sangue del suo bambino) sostituisce il lavoro del lutto.
Alla origine della madre con l’oggetto centrale morto c’è una figura materna significativamente depressa sul piano della femminilità (anche se non necessariamente in modo evidente), ma non per questo fallica, con una certa preferenza per un figlio maschio, che delude la figlia, facendola, al tempo stesso, sentire deludente. Nella psiche della figlia, scoraggiata rispetto alla femminilità, il padre tende a prendere il posto della madre, rappresentando l’oggetto vitale e incoraggiante, con il quale la figlia si identifica. Egli è, tuttavia, segnato negativamente nella funzione salvifica che gli è assegnata, perché la sua scelta di legarsi a una donna con un’ identità femminile precaria, testimonia, solitamente, una difficoltà di rapporto con la donna, che rinnoverà la delusione della figlia. Quest’ultima reagisce alla delusione con la costituzione interna di una figura paterna estremamente idealizzata vissuta come autofondata e autarchica (che può essere modellata sul padre stesso depurato dei suoi aspetti deludenti o su una figura sostitutiva che si offre all’idealizzazione). Questa figura che si costituisce, sostituendo l’elaborazione del lutto, come oggetto centrale nell’organizzazione psichica di questo tipo di donna, non è un oggetto vivo, ma una costruzione in bilico che sospende la perdita senza risolverla. L’oggetto non è veramente vivo, non può ispirare una relazione viva, vera con la vita. Oggetto consolatorio è destinato a soccombere ogni volta che una perdita successiva reale o simbolica lo colpisce in pieno.
Per il fatto che chiede al figlio/a che si animi il suo oggetto morto la madre si costituisce come figura profondamente invasiva; per il fatto che la relazione con il suo oggetto idealizzato è erotizzata, come negativo della relazione erotica (vedi anoressia), si costituisce come madre fallica (collegamento che Green coglie ma non approfondisce) e impone al figlio un incontro in cui il suo autoerotismo minaccia il suo statuto di soggetto desiderante. Madre morta e madre fallica sono strettamente collegate tra di loro, la seconda essendo la riparazione di carattere squisitamente maniacale, antidepressiva della prima. La madre morta è, il più delle volte una madre ciclotimica. Essa assume la sua configurazione vera e propria nella fase di transizione in cui si compie la separazione tra il bambino e la madre.
La madre morta, nella sua estensione più generale di madre non sufficientemente coinvolgibile, è una condizione generale della patologia. Nella misura in cui la sua soglia di coinvolgimento è minima, si manifesta precocemente e la compensazione paterna viene meno, l’esito psicotico per il figlio è probabile (in concomitanza di altri fattori), come anche quello depressivo in condizioni un pò migliori. Qui la dimensione transgenerazionale è presente e si può cogliere nella parte relativamente sana della personalità, ma la condizione psicotica o depressiva vera e propria preclude la trasmissione in sé stessa. L’area in cui la madre morta assume una decisiva importanza clinica introducendo una dimensione transgenerazionale che diventa il centro del lavoro analitico è quella in cui l’incorporazione dell’oggetto perduto della madre costituisce uno spazio psichico extraterritoriale, la cripta. Questa area interessa tutte le patologie cosiddette borderline (che a mio avviso andrebbero rinominate “perversione del desiderio”, nel senso di un’alienazione del soggetto desiderante, di una perversione dell’isteria) e assume la sua massima intensità nel crinale melanconico dell’isteria: anoressia, dipendenze gravi, psicosomatosi.
La costituzione della cripta
La cripta è un concetto, elaborato da Abraham e Torok, di importanza centrale nella dimensione transgenerazionale della clinica: definisce l’incorporazione nel mondo psichico di un soggetto (figlio) di materiale psichico proveniente da un altro soggetto (genitore). La cripta, in altre parole, è un enclave della psiche di un soggetto nella psiche di un altro.
Lucio Russo dà una descrizione chiara e precisa della proposta teorica di Abraham e Torok:
“L’ipotesi proposta è che nell’Io si faccia spazio una dimensione tombale, che gli autori chiamano “inconscio artificiale” per sottolinearne la somiglianza con l’inconscio ed il suo aspetto di costruzione secondaria e difensiva. Le pareti della cripta chiudono in uno spazio interno, per difendere a al tempo stesso conservare clandestinamente, un piacere segreto e scandaloso provato dall’Altro e dal soggetto, che si è identificato con l’Altro parente. La cripta viene istituita fulmineamente, senza gradualità, dentro l’Io del soggetto a partire da una “scena traumatica pre-verbale” dimenticata e occultata, piena di carica energetica e di significanza simbolica. Tale scena si riferisce a storie, passioni, delitti, unioni incestuose, che legano due figure parentali e che incatenano l’oggetto nella posizione dell’osservatore muto, incapace di partecipare attivamente e di elaborare l’evento.” (p. 161)
Torok per spiegare la formazione della cripta distingue tra introiezione e incorporazione:
” La perdita, di qualunque forma essa sia, agendo sempre come divieto, costituirà per l’introiezione un ostacolo insuperato. In compenso del piacere proibito e dell’introiezione mancata, l’oggetto proibito verà installato all’interno di sé. E’ questa l’incorporazione propriamente detta … si distinguerà sempre dall’introiezione, che è un processo progressivo, per il suo carattere istantaneo e magico. In mancanza dell’oggetto – piacere, l’incorporazione obbedisce al principio di piacere e si realizza per mezzo di processi prossimi alla realizzazione allucinatoria …. atto sommamente illegittimo, poiché atto di rifiuto del verdetto dell’oggetto e della realtà, l’incorporazione, proprio come il desiderio di introiettare che’essa dissimula, deve sottrarsi ad ogni sguardo estraneo, compreso quello del proprio Io. … un’ulteriore differenza rispetto all’introiezione che invece …. agisce alla luce del sole. (p.229)
Sostanzialmente Torok afferma, che mentre l’introiezione, che (seguendo Ferenczi) considera come inclusione nell’Io sia dell’oggetto sia del piacere che ci lega ad esso, protegge il soggetto dalla perdita, rendendo tollerabile l’assenza del oggetto, l’incorporazione agisce come soluzione estrema contro una perdita che rende l’introiezione impossibile. Questo accade quando l’oggetto è portatore di un’esperienza di piacere illegittima che rende altrettanto illegittima l’esperienza di piacere con esso e di conseguenza impossibile la sua introiezione. L’oggetto sarebbe inesorabilmente perduto senza il ricorso all’incorporazione che consente il suo possesso seppure attraverso il suo incistamento, insieme al piacere ilegittimo, nel proprio modo interno.
Green parlando della madre morta fa un’importante distinzione tra il disinvestimento della madre e identificazione incoscia con lei che definisce come “un unico movimento in due direzioni”.
Il disinvestimento apre un buco nella relazione con la madre:
“Il disinvestimento, soprattutto degli affetti, ma anche delle rappresentazioni, costituisce un’uccisione psichica dell’oggetto, compiuta senza odio. (Si comprende come l’afflizione materna impedisce ogni comparsa di un continente d’odio capace di danneggiare ulteriormente la sua immagine).” (276)
Il disinvestimento accade consciamente ed è soggetto a rimozione. La rimozione del disinvestimento, chiarisce Green, è primaria (non dinamica). Detto in altre parola il disinvestimento non ha accesso nel secondario, neppure in forma precaria, per poter essere successivamente rimosso. Ciò significa che non tornerà mai come rimosso. Andando oltre in ciò che non è stato esplicitato da Green, ma è nelle implicazioni nel suo discorso, si può dire che il disinvestimento, in quanto oggetto di rimozione primaria e mai secondarizzato, è un trauma senza un secondo tempo. Nei sogni, si coglie indirettamente, per contrasto, attraverso la mancanza di movimento con cui il ritorno del rimosso si scontra.
L’identificazione con la madre, che nel discorso di Green occupa lo stesso posto che ha l’incorporazione nel discorso di Abraham e Torok, accade inconsciamente (senza che il bambino la percepisca, se ne renda conto), non diventa oggetto di rimozione:
“L’altra direzione del disinvestimento è l’identificazione con l’oggeto secondo una modalità primaria. Tale identificazione speculare è quasi obbligatoria, una volta che sono fallite le reazioni di complementarità (allegria artificiale, agitazione, ecc.). Questa simmetria reattiva è l’unico mezzo per ristabilire un’unione con la madre, se si vuole, con modalità simpatetica. Di fatto non si tratta di un’autentica riparazione, quanto di mimetismo, allo scopo, visto che non è possibile possedere l’oggetto, di continuare ad averlo, diventando non solo come l’oggetto ma l’oggetto stesso.Questa identificazione, condizione della rinuncia all’oggetto e della sua contemporanea conservazione secondo una modalità cannibalica, e fin da subito inconscia. In questo c’è la differenza con il disinvestimento che diventerà inconscio successivamente, perché in questo secondo caso il ritiro vale come ritorsione; esiste l’intenzione di sbarazzarsi dell’oggetto, mentre invece l’identificazione avviene all’insaputa dell’Io del soggetto e contro la sua volontà. Di qui il suo carattere alienante.” (276)
L. Russo segnala alcune difficoltà teoriche e tecniche non risolte:
“In primo luogo l’introduzione della cripta e dell’ “effetto fantasma” rivoluziona l’idea di un lavoro clinico centrato esclusivamente sull’inconscio del soggetto, attraverso l’uso di interpretazioni metapsicologiche (dal latente rimosso al manifesto) e del transfert. Si tratta, al contrario, di capire come è possibile distinguere nel lavoro clinico materiale rimosso, che appartiene all’inconscio di quel paziente, da un fantasma che è originariamente localizzabile nell’inconscio di un Altro; di operare, inoltre, traslazioni di questi fantasmi dell’ Altro sull’analista. Rimane la questione di fondo dello statuto metapsicologico di un inconscio abitato da fantasmi altrui.” (169)
L’incorporazione richiede una doppia identificazione:
a) Identificazione con la madre morta, oggetto necessario per la sopravvivenza, nei termini di una sua imitazione-riproduzione dentro di sé, per evitare la sua perdita (trattandosi di un oggetto impossibile)
b) Identificazione con l’oggetto perduto della madre che alloggia vivo-morto dentro di lei .
La doppia identificazione tende a ristabilire dentro il soggetto posseduto la relazione identificatoria della madre con il suo oggetto centrale congelato vivo-morto in lei, che domina le sue relazioni di desiderio, e determina la sua presenza in esse.
Ciò che accade nel mondo psichico del figlio è una scissione: una sua parte si aliena riproducendo contenuti psichici materni e un’altra parte incista l’area alienata isolandola. In questo modo la parte aliena alloggia all’interno di una “cripta” e di essa la parte restante non sa nulla. Il soggetto non alienato continua a confliggere con il suo impossibile oggetto di desiderio ignaro di ospitarlo dentro di sé. Confliggendo si protegge da esso e, e contemporaneamente ne garantisce la permanenza, anche se si tratta di una permanenza precaria cui solo l’incorporazione dell’oggetto garantisce una certa solidità. Una parte importante dell’energia psichica del soggetto è assorbita dal mantenimento dell’identificazione endocriptica.
Non è facile stabilire di che materia sono fatte le pareti della cripta. La melanconia endocriptica offre ricche configurazioni, e suggestioni, sul piano clinico ma presenta non pochi problemi sul piano metapsicologico. Credo sia possibile differenziare una parete interna e una parete esterna corrispondenti a due diverse maniere di entrare in relazione con la madre.
a) Il soggetto investe il proprio disinvestimento da parte della madre, identificandosi con gli aspetti morti, atarassici di lei, vissuti come onnipotenti. Questa identificazione che esalta la morte del desiderio nei confronti dell’altro come strumento di una piena autoreferenzialità, di cui è garante l’oggetto idealizzato dentro la madre supposto autarchico, è la materia principale della parete interna della cripta.
b) Il soggetto privilegia un conflitto con gli aspetti eccitati, maniacali della madre all’interno del quale desoggettivizza la relazione di desiderio. Il disimpegno soggettivo nei confronti del desiderio (Green 1993), che occupa un posto centrale nella relazione di transfert all’interno della situazione analitica, demanda alla madre la soddisfazione di ogni desiderio, sostenendo la sua esaltazione, e insieme garantisce il suo fallimento, perché questo oggetto totalizzante e invasivo deve restare irreversibilmente frustrante per essere arginabile. La conflittualità basata sul disimpegno soggettuale sposta costantemente l’investimento della soggettività non alienata verso l’esteriorizzazione dell’invasore, distogliendola dalla sua presenza interna. Essa costituisce in questo modo la parete esterna della cripta.
L’oggetto contenuto nella cripta, modellato sulla figura paterna idealizzata da parte della madre, si configura come potenza desessualizzata, ma al tempo stesso erotizzata (non erotica): fonte di una domanda permanente di eccitazione, che lo mantiene in piedi, è totalmente indisponibile come fonte di ispirazione di una relazione erotica differenziata e complementare, basata sulla reciprocità del coinvolgimento e sullo scambio. Perché si possa comprendere adeguatamente la sua costituzione endocriptica bisogna partire dalla natura fallica della madre morta (nellla cui psiche prende forma in origine, costituendosi come suo oggetto centrale vivo morto, esposto sempre alla possibilità di una perdita che lo può far apparire definitivamente morto). Questa madre, che ha grandi difficoltà di coinvolgimento profondo nelle sue relazioni, ha una organizzazione psicocorporea finalizzata all’eccitazione e alla scarica in superficie. Di costituzione essenzialmente ciclotimica, che riflette la natura del suo oggetto centrale, oscilla tra un versante di esistenza melanconico e un versante di resurrezione maniacale (spesso avvolti nel silenzio). Nell’incontro erotico primario con il suo bambino lo usa come oggetto da eccitare, che la eccita. Investimento profondamente autoerotico della relazione che mira a mantenere eccitato e eccitante il suo oggetto interno, di cui il bambino diventa l’incarnazione materiale. Il bambino e eccitato e coinvolto dalla madre che non riesce a coinvolgere e la cui eclissi di fronte a ogni tentativo di suo coinvolgimento lo fa sentire mortalmente colpevole. Il piacere che gli viene imposto senza poterlo gestire soggettivamente, che mina alle sue radici la soggettivazione del suo desiderio è un piacere che non può vivere né respingere, perché gli viene presentato come unica forma di godimento possibile. Questo piacere, insieme mortale e necessario, viene congelato nella cripta, insieme all’oggetto nel nome e in funzione del quale viene perpetrato. Questa prospettiva (la perversione delle dinamiche del desiderio e del piacere nella relazione primaria tra una madre fallica e il suo bambino, che è funzionale al mantenimento dell’oggetto centrale morto della madre in uno stato di animazione, vita artificiale che congela la sua perdita) diverge dalla prospettiva di Abraham e Torok, e su questo tornerò successivamente.
La madre fallica è nell’impossibilità di riconoscere la separatezza compiuta dei figli da lei se non come menomazione di sé. I figli si sentono abbandonati, quando la madre li percepisce come separati e li disinveste, deprimendosi, o travolti dalla sua eccitazione nel momento che li vive come suo prolungamento narcisistico nella realtà esterna, realtà che nel suo intimo, la ferisce. L’investimento narcisistico dei figli diventa il baricentro di un legame profondamente antinomico tra loro e la madre, perché da una parte non possono riconoscersi in un’esperienza di piacere invasiva che trascende la loro soggettività e, dall’altra parte, tendono, malgrado tutto, a investire gli aspetti eccitati, fallici, di lei, che la rendono, seppur maniacalmente, viva, piuttosto che esporsi al contatto con i suoi aspetti morti, depressi. L’identificazione con l’oggetto fallico della madre può costituire la principale reazione a questo tipo di legame, diventando il luogo di un congelamento del dolore che caratterizza tutti i casi di trasmissione transgenerazionale. Perché questa trasmissione diventi criptofora prenda forma sono necessarie due condizioni: a) che la madre fallica abbia un significativo vissuto depressivo nellla fase di separazione tra lei e il figlio; b) che l’invasività della figura materna superi una soglia ipotecando pesantemente la relazione differenziata con il figlio.
Il rapporto conflittuale con l’oggetto, che occupa la psiche non alienata dall’identificazione, è sovradeterminato dal disinvestimento. L’oggetto smette di essere oggetto di domanda di godimento. Il disinvestimento è correlato alla rinuncia del proprio desiderio che è avvertito come pericolo per l’oggetto, ma anche per il soggetto stesso, che rinunciando alle sue mire di appropriazione rischia di precipitare in un rapporto a senso unico, finendo per diventare preda dell’oggetto che desidera. Parlare di disinvestimento del proprio desiderio di godimento è più appropriato che parlare di diinvestimento della madre. Quest’ultima resta fortemente investita perché il bambino cerca di restituirla in tutti i modi alla vita. Il desiderio si perverte: da desiderio di godimento di un oggetto vivo si trasforma in desiderio di animazione di un oggetto morto. La paura di perdere la madre e la paura correlata di essere invasi, schiacciati dalla madre restaurata secondo una propsettiva fallica, sono esperienze traumatiche preverbali che arrivano a un loro secondo tempo. Ciò che viene rimosso primariamente e non arriva al secondo tempo del trauma ( perché rimane senza rappresentazione nel secondario) è la percezione che quando si è vivi la madre è morta (la cui morte ricadendo sul bambino provoca in lui la sensazione che quando ci si sente vivi ci si può morire). Non arriva parimenti al secondario (e rimane dunque rimossa primariamente) la ferita narcisistica di essere disinvestiti dalla madre. Questa ferita, tuttavia, è compensata dalla gratificazione narcisistica, con accesso al secondario, che deriva dall’animazione della madre. [Ciò che non ha accesso al secondario riesce a rientrare con il rientro in gioco della passione].
I tentativo di animare la madre privilegiando tutto quanto potrebbe eccitarla e tenerla su, ed evitando ogni cosa la potrebbe mettere a disagio fa parte di un movimento psichico non alienato del soggetto che ha una regolare iscrizione sia al processo primario sia a quello secondario (dal quale viene poi in gran parte rimosso). Qui l’influenza transgenerazionale si traduce principalmente nel fatto che il soggetto sovrappone al lutto proprio (per la perdita del suo oggetto di godimento) il lutto della madre aiutandola a negare questa perdita, a dimenticarla piuttosto che elaborarla funzionando principalmente come suo farmaco antidepressivo. Su questo piano porta in analisi l’esigenza di curare la madre piuttosto che se stesso. Rigorosamente parlando non si tratterebbe di trasmissione ma di sconfinamento del problema di una generazione nella sucessiva.
La dimensione transgenerazionale assume il carattere di una trasmissione endocriptica (che si incista nell’incoscio del soggetto) quando il bambino cerca di incarnare/ reincarnare l’oggetto vivo morto della madre: qui ciò che deve essere animato è l’oggetto della madre (questa è la condizione necesaria perché lei non si deprima). Le due dimensioni dell’animazione dell’oggetto del desiderio solitamente coesistono e l’individuazione della cripta sul piano clinico è ardua. La sua presenza si configura principalmente come costante sottrazione all’elaborazione delle dinamiche fantasmatiche, quando diventa evidente che una parte del paziente resta irremovibile nonostante un lavoro fruttuoso di collaborazione. Questa parte comincia ad essere accessibile solo quando la cripta comincia ad aprirsi.
Il lavoro fondamentale è verso il recupero di tutte le possibili forme di desiderio il cui ritorno del desiderio riattualizza tutto (inclusa la rabbia e la paura di distruzione dell’oggetto) e spinge verso il ritorno della passione, tendendo a riaprire la cripta. La visualizzazione del fantasma endocriptico accade nei sogni sotto la spinta del desiderio che investe simbolicamente il contrasto tra le parti morte e le parti vive della madre (Come ad esempio in una mia paziente che ha sognato una donna mummificata moribonda ma non morta nell’armadio della madre; la donna era la madre stessa).
Un mio paziente sognò una volta che si incontrava con una ragazza che gli piaceva. C’era una forte attrazione e un desiderio genuino, intenso di “scopare”. L’incontro erotico era pieno di passione, del tutto naturale, ma a un certo punto si lui si fermava perchè realizzava la presenza sulle lenzuola di un liquido, qualcosa come sangue acquoso, lavato. Associa: come quello che si vede nei macelli.
Tra le implicazioni patologiche del conflitto, da non confondere con l’alienazione endocriptica, sono frequenti: a) lo sviluppo di un’inclinazione masochistica (espressa soprattutto come nevrosi di destino), con cui si cerca di fissare su un piano di sfida permanente il desiderio vissuto come soccombere al desiderio dell’altro; b)o lo sviluppo di istanze autoerotiche – autistiche (che si generano come autoriparitrici di fronte a un’alterità che ferisce mortalmente).
Segreti familiari e trasmissione
Spesso vengono presentati come segreti familiari inconfessabili crimini o misfatti effettivamente commessi (tradimenti, abbandoni, bigamie, incesti, omicidi), che sono diventati verità ufficialmente nascoste, mai comunicate e riconosciute all’interno della “storiografia” familiare, anche quando crimini e misfatti sono stati commessi all’esterno del ristretto ambiente familiare. L’esperienza clinica ci insegna, tuttavia, che tali segreti costituiscono in realtà una sorta di “segreto di Pulcinella”, sono segreti non apertamente riconosciuti ma in qualche modo “sulla bocca di tutti” (e di cui si scopre puntualmente che i pazienti sono a conoscenza). La funzione di tali segreti è quella di occupare uno spazio di comunicazione tra dire e non dire, che cattura e neutralizza le spinte di un rimosso mai verbalizzato (psichicamente registrato ma mai elaborato secondo la logica del processo secondario), che rappresenta il segreto vero, profondamente indicibile. Il contenuto nucleare di questo segreto (nascosto innanzitutto al soggetto che lo detiene) è invariabilmente lo sconfinamento violento del desiderio materno nella psiche del bambino, che espropria quest’ ultimo di una parte significativa della gestione soggettiva del proprio desiderio e lo costringe a scegliere tra la sua sopravvivenza e la permanenza dell’oggetto desiderato. Questo tipo di segreto, mai pensato in termini dicibili, che ha le caratteristiche di un nodo melanconico irrisolto (nella misura in cui la sopravvivenza del soggetto necessita la rinuncia all’oggetto invadente e alla parte di sé implicata nel desiderio nei suoi confronti) si propaga attraverso le generazioni successive, secondo strade complesse che si articolano prevalentemente attorno alle vicissitudini degli incastri nella coppia genitoriale e la loro influenza sullo psichismo dei figli. Spesso il segreto è all’origine dei misfatti concreti, che si costituiscono come scheletri nell’armadio delle famiglie, diventando una sua estrinsecazione distorta, ma a volte rimane del tutto silenzioso e privo di sbocchi fattuali. In entrambi i casi l’esito inevitabile, che rende il segreto invisibile accessibile all’osservazione analitica, è l’ammalarsi manifesto di uno o più soggetti delle generazioni successive alla sua costituzione.
La violazione del desiderio del figlio, in epoca preverbale, non nasce nel luogo di un desiderio illegittimo della madre adulta. Qui la prospettiva di Abraham e Torok appare problematica:
” Ci vorranno anni per venire a sapere che questo figlio naturale, senza padre, ospita nell’inconscio il fantasma di un padre un tempo amato dalla madre e che, per via di concussioni politiche, era stato chiamato “porco” dal nonno materno. ” Sono quel porco di tuo marito” questa è la metafora che, una volta enunciata, permette di raggiungere la traiettoria di Edipo: ” Poiché sono quel porco di tuo marito tu non potrai rifiutare di amarmi”. (E’ il punto di aggancio del fantasma mediante cui lo si può ricondurre all’Edipo). La metafora è stata ottenuta a prezzo dell’introduzione di un personaggio fantomatico nell’Inconscio. Questo fantasma è la figura nata dall’amore interrotto e vilipeso della madre, un amore conservato nel suo Inconscio e trasmesso nell’inconscio del figlio (Torok 347 – 349)
Tutto il materiale clinico proposto da N. Abraham e M.Torok ripete questo schema. Un amore illegittimo del padre o della madre che si trasmette nell’inconscio del figlio in epoca preverbale. Questo approccio ha fatto scuola ma si scontra con evidenti, direi insuperabili, difficoltà metapsicologiche. Come fa un evento traumatico in epoca adolescenziale o post adolescenziale a diventare inconscio ed essere trasmesso all’inconscio dei figli? E’ molto più credibile ipotizzare che tale evento traumatico sia la riattualizzazione di un antico e precoce trauma.
La trasmissione diretta della cripta è matrilineare. Questo non significa che non esistano uomini criptofori. Il processo di formazione della cripta, così come è stato descritto, può riguardare indifferentemente la figlia come il figlio. Tuttavia, l’uomo criptoforo non può trasmettere la sua cripta perché non si costituisce come oggetto primario, necessario come la madre (per lo stesso motivo un uomo fallico, non criptoforo – prodotto di un conflitto con una madre depressa nella sua femminilità e di un’identificazione con un padre la cui virilità è sinonimo di indisponibilitá e di ostilità autoreferenziale nei confronti della donna – non può determinare la produzione di un figlio/a criptoforo/a). Nondimeno, può in presenza di una madre criptofora rinforzare il meccanismo di trasmissione della cripta.
Perché si costituisca un soggetto criptoforo è necessaria la concatenazione di tre generazioni: nonna depressa sul piano della femminilità, madre morta/fallica, figlio/a criptoforo/a. Spostata in avanti di una generazione (e quindi mettendo al suo inizio la madre morta con l’oggetto centrale fallico) la catena dei tre anelli ci dà la chiave della trasmissione della cripta. La figlia o il figlio della madre prima criptofora incorpora direttamente la cripta, mettendosi in contatto diretto con la nonna fallica. Ciò accade perché la cripta, l’elemento più estraneo e inaccessibile nella madre (perché inaccessibile alla madre stessa), che rappresenta il punto più insidioso della sua invasività, è anche il luogo della permanenza materna più stabile, per i motivi cui ho accennato parlando della relazione tra la madre fallica e la madre prima criptofora. Teoricamente, la trasmissione della cripta può continuare per molte generazioni, ma la catena a tre anelli ci dà una formula di lettura molto attendibile, per l’inquadramento della situazione clinica. In effetti, la madre prima criptofora (secondo anello della catena) è tipicamente “portatrice sana”, cioè apparentemente silente sul piano dei sintomi, ed è suo figlio o sua figlia (secondo soggetto criptoforo e terzo anello della catena) che manifesta un disagio psichico evidente. In altre parole, ci vogliono tre generazioni perché il dolore congelato nell’oggetto materno fallico si estrinsechi diventando clinicamente manifesto.
Il padre può intervenire indirettamente a tutti i livelli della trasmissione, favorendola o contrastandola, ma il livello cruciale in cui la sua partecipazione può risultare decisiva è quella della madre fallica, madre potenziale della prima criptofora. Come si può osservare nell’esperienza clinica è l’incontro di una madre fallica con un particolare tipo di padre che rende la costituzione della cripta inevitabile. Questo tipo di padre è figlio (non necessariamente criptoforo) di una madre a sua volta fallica, nei confronti della quale non è riuscito a definirsi compiutamente. Nel momento della paternità vede nella moglie che cerca di appropriarsi del figlio la propria madre, nei confronti della quale si sente in debito; così abbandonando alla moglie il figlio restituisce alla madre ciò che le aveva tolto con il proprio matrimonio, cioè se stesso.E’ questa condizione del padre che fa la differenza, perché se è vero che il più delle volte la donna fallica e un uomo devoto a una madre altrettanto fallica tendono a scegliersi reciprocamente, questo non è, tuttavia, una regola assoluta. Si potrebbe dire che nel punto cruciale della trasmissione transgenerazionale due donne falliche non consanguinee di due generazioni successive si incontrano e si sovrappongono attraverso un uomo: sua moglie e sua madre.
Il ruolo del padre diventa importante e la sua perdita (assenza) diventa significativa (coprendo a volte quella della madre) se lui non dà una sponda alla madre, né riesce a indirizzare, estroflettere il dolore del figlio verso la vita, sia offrendogli la possibilità di un altro tipo di rapporto, sia facendo recuperare indirettamente ciò che è sepolto vivo nell’inerzia della moglie diventata madre morta, ciò che è la parte viva di lei che lui ha desiderato e amato. Soprattutto se sarà capace di dimostrare, accanto alla comprensione nei confronti della compagna e della devozione nei confronti del suo dolore, la capacità di un desiderio da rivolgere altrove, ad altre donne, ad altre persone ad altre situazioni, non per tradire abbandonare ciò che di vivo e desiderabile ha perso in lei, ma per titrovarlo e farlo rivivere.
Condizioni oggettive possono impedire a un padre potenzialmente capace di fare la sua patte, di essere all’altezza delle aspettative dei figli, ma tipicamente carenze personali e condizioni oggettive sfavorevoli si intrecciano. Le carenze possono essere riassunte in questo modo: un uomo devoto alla propria madre morta che si lega alla moglie più per l’attaccamento alla sua parte morta (che deve rianimare, trattandola come la propria madre: compito che non fa altro che perpetuare e dal quale del resto non fa altro che scappare) che per desiderio della parte viva di lei (perché la madre morta, ricordiamolo, entro una certa soglia rimane in parte viva e coinvolgibile). Un padre carente di questo tipo crea effettivamente la situazione descritta da Green (1982): o si attacca troppo all’assistenza della madre addolorata dimenticando il figlio o lascia soli entrambi nel loro destino (o, aggiungerei, si alterna in questi due modi di fare). Agli occhi del bambino il padre può apparire come colui che gli ha rovinato la madre, deprimendola, come colui che la cura o come il suo liberatore da lei (Per il figlio il prezzo è una sopravalutazione della capacità dell’uomo di resistere alla prova, per la figlia un’identificazione impropria con l’uomo. Una mia paziente ha sognato che sprofondava nelle acque di un lago. Un uomo in una barca riusciva a farla tirare su, riemergere attraverso una corda. Emersione come erezione, alternativa a essere pescata, sedotta).
Parlando della madre morta Green si riferisce alla costituzione di una triangolazione precoce tra il bambino, la madre e l’oggetto sconosciuto di lei. L’ oggetto sconosciuto e il padre si condensano creando un Edipo precoce. Volendo essere più precisi potemmo dire che non si tratta di un Edipo precoce: il padre emergendo nella sua funzione è confuso con le caratteristiche dell’oggetto sconosciuto della madre.
Sintetizzando la madre morta, fallica assume il suo significato nell’incontro con uomo che non è in grado di offrirle una sponda adeguata alla sua parte coinvolgibile o peggio ancora si incastra con le parti morte di lei. La trasmissione transgenerazionale e una funzione alterata della coppia (il necessario punto teorico, epistemologico, di partenza).
Il lutto e la sua elaborazione
L’elaborazione del lutto richiede una buona identificazione isterica del bambino con la madre. L’identificazione isterica porta il bambino oltre l’identificazione narcisistica che, come Freud ha ben capito, è molto vulnerabile alla condizione melanconica. Grazie alla possibilitá di identificarsi istericamente con la madre, in via di separazione, creando contemporaneamente al persistere della sua identificazione con lei anche una relazione in cui lei è riconosciuta nella sua differenza, il bambino può elaborare la perdita della madre come parte di sé e riconoscerla nella sua separatezza senza deprimersi. La madre distaccandosi porta con sé una parte delle qualità del bambino che avevano bisogno della sua contiguità psicocorporea per consolidarsi e svilupparsi, ma anche qualità che il bambino, sempre nell’ambito della contiguità (e del correlato senso di onnipotenza), che si era illusoriamente attribuito. L’identificazione consente al bambino di ritrovare l’oggeto perduto dentro di sé (introiettando quella parte delle sue qualità che gli appartengono, ma hanno bisogno di un rinforzo per consolidarsi) e la relazione di ritrovarlo contemporaneamente fuori di sé (esteriorizzando la parte delle sue qualità che non gli appartengono veramente). In questo modo da una parte consolida una parte significativa delle sue qualità congenite presenti soprattutto come potenzialità in attesa di una definizione, introiettando assieme all’oggetto anche una relazione di contiguità, di reciproca risonanza; e, dall’altra parte, ritrova quel che non può più essere (ciò che si era illuso precedentemente di essere) nella madre separata da lui, recuperandolo in termini di avere. Introiezione/interiorizzazione e esteriorizzazione dell’oggetto vanno di pari passo, strettamente collegate tra di loro di modo che tra l’oggetto interno e l’oggetto esterno si stabilisce una relazione di reciproca interdipendenza. L’oggetto interno non sarà mai vivo se l’oggetto esterno non è disponibile (anche nell’ambito delle sostituzioni e di differenziazioni delle possibilità che l’ambiente offre) e l’oggetto esterno non è raggiungibile se l’oggetto interno non è vivo (l’oggetto ritrovato dentro di sé non è rivolto alla vita). Oggetto interno e oggetto esterno, grazie al fatto che, una volta pienamente costituita, l’identificazione isterica diventa una cerniera permanente dello psichismo, restano perennemente collegati tra di loro in termini di relazione complementare: l’oggetto interno (prodotto di identificazione ), ciò che noi condividiamo con l’altro, è l’altra faccia dell’oggetto esterno (prodotto di differenziazione), ciò che non condividendolo come comune proprietà desideriamo). Si riproduce in questo modo tra l’oggetto interno e l’oggetto esterno una parte della nostra relazione del desiderio con l’altro. In questo modo la relazione di desiderio è introiettata (il che consente oltre che a rionoscere ciò che si cerca nella vita e la strada per accedervi, anche di vivere anche a lungo senza una relazione di desiderio stabile senza deprimersi).
Nell’identificarsi istericamente con la madre, il bambino assume in transizione l’alterità di lei dentro di sé (l’introiezione delle sue qualità, in cui lui si riconosce come soggetto, non abolisce la differenza di lei, il movimento di “importazione” é riconosciuto; la madre è e non è lui). In altre parole l’articolazione tra il processo di introiezione e esteriorizzazione dell’oggetto è l’identificazione transizionale con ciò che è dell’oggetto e non del soggetto. La cosa importante non è la permanenza in transito della madre altra dentro di sé ma la tensione interna che questa permanenza produce e l’apertura nel nostro modo di essere che la tensione favorisce.
Una questione importante nell’elaborazione del lutto è la capacità di esiliarsi, di emigrare. Il movimento dell’esilio (che costituirà il luogo dell’originaria fusione con la madre come luogo perduto) per ritrovare l’oggetto perduto in un altro luogo. L’oggetto è sempre ritrovato. L’elaborazione del lutto contiene un aspetto fondamentale del sogno: il sognatore non ritrova l’oggetto dove era, ma in un altro luogo e per farlo si esilia; il sogno e il lutto sono un esilio, un esilio isterico perché il soggetto che emigra resta
al tempo ancorato nello luogo iniziale (o, per meglio dire, porta con sé questo luogo). L’esilio non porta il soggetto solo in avanti nel tempo, verso il futuro. Lo porta anche, a ritroso, verso il passato che lo precede (e questo movimento fa parte del suo sviluppo, della sua evoluzione). Portando l’alterità della madre in transizione dentro di sé, il bambino accoglie ciò che nella storia di lei precede la loro comune esperienza, sviluppa una sensibilità di condivisione nei confronti di ciò che lui non ha direttamente vissuto e che può solo indirettamente (istericamente) vivere attraverso di lei. Questo tipo di testimonianza di cui si fa carico, lo introduce nel mondo che lei ha scoperto e vissuto prima di lui, così che l’estensione della sua vita in un passato che non gli appartiene direttamente, estende nel futuro la portata della sua presa sulle cose della vita. La trasmissione intergenerazionale trova qui il suo significato piu pieno.
In questa trasmissione il ruolo del padre è di grande importanza e centralità. Nella relazione madre-figlio il padre è indirettamente presente attraverso la parte della madre che si impegna nel legame erotico con l’uomo. Con quest’altro nel desiderio della madre il bambino si identifica. Qui il padre, non ancora “terzo “, si configura, nella percezione del bambino, come segno della differenza all’interno di una relazione diadica, dando prefigurazione a l’ “altro” che il bambino sente di star diventando per la madre e a all’ “altro” che la madre sta diventando per lui. Attraverso l’identificazione con il padre il bambino inserisce nell’identificazione (fino a quel momento esclusiva) con la madre un rapporto differenziato, arrivando all’identificazione isterica. La presenza del padre garante della differenza rende possibile l’esilio a ritroso e consente anche che l’eredità dei genitori,con la quale il bambino esiliandosi si identifica, sia assunta secondo il suo modo di essere e il suo desiderio.
In presenza di una madre morta l’oggetto resta sempre immobile allo stesso posto, impedendo l’esilio e il lutto. La caratteristica dell’oggetto centrale morto nella madre è che non lo si può ritrovare, la sua presenza costante impedisce il suo ritrovamento. L’identificazione con l’oggetto vivo morto della madre sostituisce l’ identificazione isterica. Nell’isteria patologica l’identificazione (tu sei me) tende a trattenere la relazione (sei diverso da me e ti desidero per questo) a causa dell’invasività dell’oggetto (l’identificazione con l’aggressore prevale sulla relazione di desiderio). Nella condizione che deriva da un complesso di madre morta pienamente costituito l’identificazione alienante (sono ciò che tu vorresti che tu/io sia) sequestra l’identificazione isterica. Il recupero del padre è di grande importanza a causa delle sue qualità esteriorizzanti (verso la realtà della vita) che favoriscono il versante dell’esteriorizzazione del lutto e l’uscita dall’empasse dell’interiorizzazione di una madre alienante che gira a vuoto.
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L’endogamia psichica, che incastra il padre nel registro del materno, abolendo la differenza dei sessi e delle generazioni, ha il suo asse di riferimento nell’identificazione rivalitaria di una donna con un fratello morto, che consolida in lei la costituzione fallica (facendole occupare nella catena descritta precedentemente il posto della prima criptofora) e determina la sua vocazione ad accoppiarsi con un uomo rinunciatario.
Possiamo ora riscrivere la trasmissione del segreto transgenerazionale in modo più incisivo, tenendo conto del fantasma del fratello morto, che è un elemento costante dell’ esperienza clinica in questo campo.
L’identificazione della madre fallica, soggetto primo della catena di trasmissione, con una figura paterna idealizzata, che produce un oggetto centrale vivo-morto dentro di lei, tende a eclissare nel suo mondo interno la relazione bocca -seno e pene-vagina e a trasformare l’oggetto di desiderio in protesi. La cavità investita fantasmaticamente è quella anale che trattiene l’oggetto complementare (il pene) negandone la differenza e l’esteriorità, diventando luogo di un lutto congelato, inaccessibile.(Ricordo che K. Abraham, nella melanconia l’ogetto deludente viene espulso analmente e successivamente il suo “cadavere fecale” viene incorporato oralmente). Quando sta per diventare madre di un figlio maschio (oggetto, tenacemente desiderato, di un’auto-integrazione che supplisce alla relazione di complementarità), questa donna vede in lui la reincarnazione del padre idealizzato su cui esercitare un diritto di possesso senza limiti.
Il figlio maschio muore: la situazione tipica è aborto, nascita prematura infausta, morte durante il parto, morte subito dopo o nei primi mesi di vita. La cosa significativa: morto sul nascere.
La morte del figlio agisce sulla madre su due piani:
– rinnova la ferita narcisistica ricevuta dalla propria madre che non si riconosceva in lei (ferita dalla quale doveva proteggerla il figlio)
– rinnova la delusione nei confronti del padre (che aveva inevitabilmente frustrato la sua identificazione idealizzante con lui)
La madre si trova immersa in una situazione di lutto impossibile, perché il vero oggetto perduto, cioè la madre come oggetto complementare del suo desiderio, è inaccessibile, sepolto sotto le macerie di due oggetti protesi, il padre e il figlio, con cui aveva negato la prima perdita. Tenta quindi di sostituire il figlio morto, rimanendo di nuovo incinta, ma nasce una figlia femmina. La madre, tutta spostata sulla strada della negazione, esige che la figlia incarni il figlio morto, pretende che mantenga in vita il suo oggetto centrale morto, morto di nuovo. La tratta come sua protesi virile travolgendola. La figlia non ha scelta: se sceglie di sottrarsi, la madre precipita nella depressione e la sua perdita senza appello è intollerabile. Compiace di conseguenza lo strabismo della madre, che evita la lacerante diplopia, e incertezza, determinata dal desiderio di un figlio maschio e la presenza di una figlia femmina. La figlia incorpora in questo modo, l’oggetto fallico della madre, come manichino inerte cui dà vita, prestandogli la sua carne e il suo sangue. Diventa in questo modo il primo soggetto criptoforo.
Il centro dell’organizzazione psichica di questa donna diventa l’identificazione rivalitaria con il fratello morto che si sviluppa su due piani scissi tra loro: la parte alienata, criptofora, ospita l’identificazione; la parte non alienata prova un’insanabile rivalità verso il fratello, che non trova sbocchi possibili sia perché la morte di lui rende impossibile un confronto reale, sia perché la sua formidabile idealizzazione alloggia nella parte alienata, il che la rende ancora più inaccessibile. Diventata a sua volta madre di un maschio la donna esigerà che il figlio maschio incarni il fratello che giace vivo-morto nella cripta dentro di lei, per legittimare in questo modo l’usurpazione della sua eredità. Ma questo figlio, che vivrà per conto suo, sarà pure, per la parte non alienata di sé, lo strumento di una soddisfazione dei suoi sentimenti di rivalità.
Non è necessario, perché si produca tutto questo, che a morire sia il primo figlio o che il morto sia figlio unico. La morte rende il figlio, cui tocca in sorte, “figlio” per eccellenza (a causa della contiguità della figura dell’oggetto idealizzato con la morte). E’ il morto che deve vivere e se il figlio resta vivo deve rivivere al posto di un altro.
Messa bene a fuoco nel caso di una morte effettiva, l’identificazione rivalitaria con il fratello morto può prodursi anche in sua assenza. Non è necessario che muoia un figlio: ha quasi la stessa valenza il fatto che non sia stato concepito. La madre sterile di figli maschi e senza fiducia nel suo destino di donna percepisce come sterile e insensata la sua esistenza e può coinvolgere una o più figlie nel progetto “Frankestein” del trapianto nel loro corpo morto di donna (perché disinvestito del suo interesse e desiderio) dell’anima virile di un figlio maschio mai nato, sempre sul punto di morire e sempre sul punto di nascere. (Una mia paziente non omosessuale, ma decisamente fallica, mi raccontava del piacere che provava qualche volta quando una donna amica si appoggiava su di lei. Provava un picere che era legato al fatto che in quel momento si sentiva maschio)
Quando esiste un figlio vivo, che precede la nascita della figlia, la possibilità che quest’ultima diventi criptofora si riduce e l’identificazione rivalitaria con il fratello può svilupparsi in campo aperto senza scissioni. In altre parole se un figlio vivo è già disponibile per incarnare il fantasma del morto vivente, la pressione materna sulla figlia che viene dopo di lui perché assuma questo carico diminuisce. Tuttavia, nella misura in cui questo figlio produce una forte delusione narcisistica nella madre, come accade ad esempio se portatore di handicap, e non può adempiere alla sua funzione (perché la sua presenza conferma la morte che dovrebbe smentire) la figlia è chiamata in servizio per sostituirlo. La sventurata risponde.
Sintetizzando, l’identificazione rivalitaria con il fratello morto può prendere forma indipendentemente dalla morte reale di un fratello. La morte reale rende solo più immediatamente individuabile e leggibile la presenza di questa identificazione sul piano clinico, perché rende più acuto il dolore materno e più evidente la partecipazione della figlia. Si può parlare del fratello morto come di una configurazione fantasmatica che è il corrispettivo nella psiche della figlia del fantasma di un oggetto centrale allo stato di morto vivente nella psiche della madre, incarnato in un figlio maschio reale perduto (fisicamente o anche psichicamente) o mai nato ma intensamente desiderato.
In conclusione la trasmissione transgenerazionale può essere vista come una “giostra” nella quale ogni personaggio che vi sale (madre, padre, figlio, figlia) ha una propria posizione un proprio dramma. All’interno di questo contesto non ha senso che figura della madre fallica sia trattata come capro espiatorio (considerata , sbrigativamente, come causa automatica e irreversibile del disastro). La sua presenza testimonia una passione rimasta priva di interlocutore (sia nel rapporto di questa madre con i propri genitori sia nel rapporto con il marito all’interno della sua coppia coniugale) e richiede un’assunzione di responsabilità, che diventa la questione analitica centrale.