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Il desiderio che ama il lutto – di Thanopulos (recensione di Chiara Buoncristiani)

Il gustare: un ponte tra desiderio, corpo e alterità nell’ultimo libro di Thanopulos

Chiara Buoncristiani

In un mondo dove il “no limit” è l’offerta di base, non è facile desiderare qualcosa o qualcuno. Se le campagne di marketing ci offrono tutto quello che vogliamo – subito, dove e come lo vogliamo – è perché intercettano un funzionamento mentale che distingue il nostro tempo. Dobbiamo evitare che l’oggetto desiderato sia libero di respingere il nostro avvicinamento: così preferiamo annullare la qualità che lo rende desiderabile, la sua libertà di sfuggire, di opporci resistenza. Anche i limiti del corpo sono forzabili e superabili.

Che fine fa allora il desiderio? Si può chiamare ancora tale una spinta che non sa incontrare più un imprevisto, una sorpresa, un rischio, quella che i lacaniani chiamano la differenza dell’Altro? Freud e Lacan hanno parlato di una possibile soddisfazione del desiderio solo sul piano della rappresentazione, separata dalla sua incarnazione nel corpo, dal godimento. Il desiderio come passaggio infinito da un oggetto all’altro, in particolare per Lacan, è una perpetua ricerca maniacale di quel residuo di vitalità che però è sempre altrove. Il godimento sarebbe appunto animale e ingordo, rifuggirebbe ogni limite: impossibile comunque il lutto per la perdita del controllo onnipotente.

C’è però un modo diverso di guardare al desiderio e alla sua soddisfazione, più o meno sublimata, spiega Sarantis Thanopulos ne “Il desiderio che ama il lutto”. Obiettivo del volume (Quodlibet, 2016, p. 79) è quello dal riconciliare non solo il desiderio con i sensi, ma anche di restituire “al legame tra il desiderio e il lutto la sua centralità nella costituzione di una vera esperienza di vita, aperta alla scoperta e capace di trarre piacere dall’inquietudine che implica il suo spostamento dal suo centro di gravità”. Per l’autore incarnare il desiderio significa scoprire il senso del gusto, un “attento assaporare” che lascia il soggetto sempre “un po’ insaturo”.

Al centro del volume, particolarmente complesso e ricco, c’è l’identificazione isterica, intesa come un ponte tra il narcisismo e l’alterità. L’identificazione isterica nasce quando nel bambino ha già preso forma il desiderio di un oggetto di cui inizia a fare esperienza della separatezza da un oggetto che non può controllare (di cui anzi è stato mutilato, perché prima la madre-seno era indistinguibile dal sé) ma dal quale dipende. Senza più essere un tutt’uno con la madre, il bimbo comincia però a condividere lo stesso pathos, si immerge nella stessa acqua. La “gusta”. La madre come oggetto perduto è ritrovato come qualcosa di identico e contemporaneamente diverso da sé: “Nello stesso fiume entriamo e non entriamo, siamo e non siamo”. E questa frase di Eraclito è per Thanopulos la legge del desiderio che ama il lutto. L’identificazione isterica è un processo transizionale che media il lutto per la perdita della fusione con la madre. Attraverso questo il il bambino si apre all’esperienza soggettiva percependo per la prima volta i propri confini, non attraverso una brusca disillusione, ma entrando nel gioco della seduzione intersoggettiva all’interno di un legame di reciprocità empatica. Così si può articolare il prototipo di tutte le perdite e separazioni successive, ma anche quello di tutte le riparazioni e auto-riparazioni che verranno. E’ all’interno di un’identificazione isterica, cioè della tendenza del soggetto a svolgere “l’attività delle due persone che compaiono nella fantasia” argomenta Thanopulos citando Freud, che si può elaborare il rapporto con ciò che è altro.

Secondo l’autore la psicoanalisi si è concentrata fin troppo sul sostegno della soggettività producendo una riserva nei confronti della dimensione isterica dell’esistenza. Solo questa dimensione, che rende il soggetto “perennemente eccentrico a se stesso e ben lontano dall’ideale”, può rendere giustizia del terzo stato della mente. Non la veglia, non il sonno, ma il sogno, nel quale il sognatore recita contemporaneamente il suo ruolo e quello degli altri. E’ attraverso un’identificazione isterica che l’alterità penetra anche nel pensiero onirico della veglia. E’ così che, nella sua reverié, l’analista può immergersi insieme al paziente in quel divenire comune di affetti ed emozioni chiamato analisi.

Legittimità dell’ultimo sogno di Sarantis Thanopulos

Legittimità dell’ultimo sogno

Sarantis Thanopulos

 

Un uomo è stato costretto a espatriare per poter morire, per colpa della legislazione italiana. Gli è stato negato il diritto di lasciare la vita nel luogo in cui l’ha vissuta, di percepire con i sensi dell’immaginazione abitati dalla memoria e aperti all’avvenire (anche quando la fine è troppo vicina) i suoni, le forme e i colori della sua città: la materia, fatta di impressioni familiari dischiuse all’inconsueto e alla meraviglia, del suo ultimo sogno.

Quando muore una persona cara, per un periodo continuiamo a viverla come se fosse ancora viva, anche se percepiamo la sua assenza. Abbiamo bisogno di mantenere una contiguità psichica, che ci è più facile se possiamo collocarla negli spazi che abbiamo coabitato. Poi, gradualmente, la lasciamo andare, quando riusciamo a farla abitare nel nostro mondo interno e ritrovarla, in modi e forme nuove, nel mondo esterno. Per chi  muore non è molto diverso. Non si muore soli, ma in compagnia di ricordi, testimonianze  di un passato attuale, che vivono nelle emozioni del momento e sono tanto più sentite e presenti quanto più si è in prossimità spaziale e emotiva con le persone e  i luoghi familiari. Così mentre gli occhi si chiudono nel sonno eterno, i sensi e i desideri si riaprono in una trama onirica di cui non ci sarà alcuna percezione di fine. Nel morire si elabora il lutto per la propria perdita e quella delle persone amate, entrando in un sogno che porta le ragioni e gli affetti della propria esistenza dove essa riacquista la sua intera potenzialità e si dissolve, senza consapevolezza soggettiva né smentita oggettiva, in un’apertura perpetua all’esperienza umana, finalmente libera della sua effettività, della prigionia delle sue condizioni oggettive. La morte è un atto doloroso e pauroso di libertà, a condizione che la vita sia stata fin in fondo esperita. Non c’è nulla di più spaventoso che morire senza aver vissuto.

L’ultimo dei sogni è un diritto inalienabile, strettamente legato al diritto alla vita. Dj Fabo è stato tradito dall’Italia, una patria per lui matrigna. Gli ha negato la possibilità di congedarsi da noi nelle condizioni migliori per sentirsi vivo mentre moriva. La nostra legislazione, profondamente ipocrita, priva i senza speranza almeno di una vita appena tollerabile, della possibilità di morire nella terra in cui hanno camminato e amato, interferendo gravemente con il loro ultimo viaggio. Che vadano a esalare i loro ultimo respiro, lontano dagli occhi dei benpensanti: come cani randagi senza fissa dimora. L’alternativa: subire il vivere come fonte di costante insensatezza, in un presente che necrotizza il passato, che rinsecchisce l’albero sprovvisto delle sue radici. Vivere nella morte, per morire già morti.

Fa parte della libertà di vivere, decidere il momento e il modo della propria morte. Lasciare il mondo in modo naturale (col rischio che sia accidentale) o per temerarietà, suicidio, eutanasia. Non esiste nessun obbligo etico se non la responsabilità nei confronti di sé -proteggere il proprio desiderio- e nei confronti dell’altro -proteggere il suo desiderio. Essere morti da vivi uccide il desiderio in se stessi e nell’oggetto amato.

Si può rifiutare l’assistenza alla morte per coloro che non sono in grado di procurarsela da sé, o perfino cercare di prevenirla in coloro che, invece, lo sono, solo se l’eclissi della possibilità di una vita degna di essere vissuta, è valutata come temporanea. Tuttavia, anche in questo caso la responsabilità che si assume è importante e la sua validità si misura solo attraverso la distanza necessaria da una compiacenza negligente nei confronti dell’esigenza di liberarsene di un dolore contaminante dell’altro. Quando la condizione di atroce inabilità a vivere è permanente, il rifiuto dell’eutanasia è inconfessabile crudeltà.

Si pretende di subordinare la vita reale a una vita astratta, avulsa dall’esperienza vera. Per una spiritualità dell’esistenza che paradossalmente riduce tutto alla pura materialità, a una dimensione meccanica dell’esistenza. La vita si riduce a una materia “cruda”, priva della capacità di sognare e di desiderare e incapace di dare rappresentazione e senso alla propria realtà. Necrofilia dell’essere, amore per i morti viventi.

 

Ciò che resta del padre – di Sarantis Thanopulos

Ciò che resta del padre

 

Sarantis Thanopulos

 

Il pericolo dell’estinzione del padre ossessiona una società che non riesce né a uscire né a stare dentro il recinto della sua storica organizzazione patriarcale -la quale sempre di più rivela il suo carattere repressivo, costrittivo. Il rischio vero, in corso d’opera, è la regressione collettiva verso l’investimento della figura di un “padre ideale” che oscura la relazione “coniugale” (la congiunzione erotica tra pari) in entrambe le sue declinazioni (etero e omosessuale). Questa figura, del tutto avulsa  dal corpo sessuale, sottomette la nostra vita a un processo di astrazione dall’esperienza erotica. Configura tutte le relazioni secondo due schemi che si rispecchiano l’uno nell’altro: i legami madre-figlio e padre-figlia. Un matriarcato patriarcale, una mostruosa disincarnazione dell’esistenza.

Cosa resta del padre reale oggi? Del significato della sua assenza possiamo apprendere molto dalla tragedia greca. In essa vanno regolarmente in scena omicidi intenzionali tra consanguinei: infanticidi, matricidi, fratricidi, uxoricidi. Tuttavia, dalle opere tragiche è esclusa l’uccisione del padre: Laio è ucciso da Edipo fuori dallo spazio tragico vero e proprio e in modo fortuito, senza che fosse riconosciuto nella sua identità di padre. Sono parimenti escluse l’uccisione della moglie e quella tra fratellou e sorella. Non sono dunque contemplati il parricidio, che incombe dall’esterno come catastrofe di cui si è inconsapevoli, né il femminicidio, l’assassinio della donna dal suo uomo, che rompe il legame di fraternità tra i due sessi.

Stando ai tragici greci -che interrogano i conflitti psichici che fondano la soggettività e non situazioni reali, concrete- la donna può uccidere i propri figli o il proprio uomo, i figli possono uccidere la madre e i fratelli maschi possono uccidersi tra di loro. Sono azioni distruttive intenzionali nell’ambito di conflitti legati alla differenza, ai pericoli di cui essa è foriera. Viceversa, il parricidio può accadere solo in modo non intenzionale. Il destino del padre (la possibilità della sua esistenza) si decide a partire da due condizioni che precedono l’intenzionalità e la socialità delle relazioni umane perché rappresentano la loro premessa: l’apertura femminile dell’essere all’alterità e la fraternità -la parità sul piano del desiderio- tra i due sessi.

L’omicidio intenzionale nel campo delle relazioni differenziate -nel senso di uccidere nel proprio desiderio l’altro, nella sua distinta identità- è una soluzione fallimentare dei problemi della differenza. La distruzione dell’altro -a cui l’hanno condotto errori preterintenzionali (sulla valutazione dei propri interessi reali)- mette l’essere umano di fronte al dilemma costitutivo della dimensione tragica della propria soggettività: chiudersi nell’autoreferenzialità, perseverando nell’azione auto/etero-distruttiva, o esporsi (trasformandosi) all’imprevisto, accettandone il rischio. Il femminicidio e la cancellazione della fraternità tra l’uomo e la donna, sono, invece, esterni allo spazio tragico perché precludono la differenza e il conflitto. La distruzione dell’apertura femminile all’alterità, preclude sia l’intenzionalità che la preterintenzionalità. È il grado zero dell’esistenza del padre e della relazione con l’altro.

La sparizione del padre è rimediabile finché le relazioni di desiderio resistono e le funzioni genitoriali non si riducono al solo sostegno e accudimento. Dove possiamo reperire dentro di noi l’apertura erotica alla vita, quindi la madre, anche il padre è reperibile, come oggetto in cui questa apertura trova la sua sponda e la sua ragion d’essere.

Dedalo: 15 ottobre, giornata mondiale dell’alimentazione.

15 OTTOBRE 2016
In occasione della giornata mondiale dell’alimentazione, l’associazione Dedalo è lieta di invitarvi a un pomeriggio di appuntamenti intorno ai disturbi del comportamento alimentare fra cultura, clinica e arte.

Ore 16.00 – 18.00 Supervisione clinica

Il dr. Domenico Cosenza, presidente ass. Kliné-Fida Milano, condurrà una supervisione di gruppo attraverso la discussione di
un caso clinico sui disturbi alimentari. Riservata esclusivamente a psicologi, psicoterapeuti, psicanalisti, per info contattare
la segreteria.

Ore 18.30 – 19.30 Presentazione del libro
“Il trattamento dei disturbi alimentari in contesti istituzionali”, a cura della dr.ssa Laura Ciccolini e del dr. Domenico Cosenza.
Interverranno Laura Ciccolini, Maria Laura Ippolito e Domenico Cosenza.

Ore 19.30-21.00 Aperitivo a buffet

Ore 21.15 Spettacolo teatrale
“SENZA” di Laura Cioni e Chiara Guarducci. Con Laura Cioni. Un monologo teatrale sui disturbi alimentari e non solo.

L’evento si svolgerà presso Villa la Torrossa, Via Benedetto da Maiano 3, Fiesole (FI)
Prenotazioni: [email protected], 327-1272917

Scarica la locandina: 15 ottobre Dedalo

Disagio dei valori di Sarantis Thanopulos

Disagio dei valori

Sarantis Thanopulos

 

Il prezzo delle merci è visibilmente disgiunto dalla quantità e qualità del lavoro che è occorso per la loro produzione. La manipolazione della domanda ha scombussolato il suo rapporto tradizionale con l’offerta, agendo sulla progressiva distorsione del valore d’uso. Questo valore è legato alla specificità del modo di usare le cose, ma anche al lavoro che le realizza. Più definito è l’uso di un oggetto e più lavoro trasformativo ha richiesto la sua fabbricazione, più alto dovrebbe essere il suo valore per chi lo usa. A condizione di non confondere, quando li si usa, l’oggetto del desiderio con l’oggetto del bisogno.

Il  bisogno usa oggetti di bassa specificità (per dissetarsi o sfamarsi una cosa tende a valere l’altra, per disfarsi di una tensione sensuale può bastare un atto autoerotico), tende alla scarica della tensione psicocorporea e all’identificazione del piacere con il sollievo. Aspira alla stabilità e si oppone alla trasformazione. Di conseguenza l’elaborazione sia della cosa che lo appaga sia dell’esperienza del suo appagamento non ha, di per sé, senso.

Il desiderio è tanto più sentito e la sua soddisfazione tanto più compiuta e intensa  quanto più specifico è il suo oggetto. Realizza il piacere sotto forma di persistenza della tensione, attraverso modificazioni del suo andamento (in cui il ritmo ha una funzione importante) che le conferiscono una gradevolezza  complessa e profondamente coinvolgente. Nasce da una trasformazione della struttura psicocorporea e la promuove verso un suo compimento: l’elaborazione è necessaria sia nella “costruzione” del suo oggetto sia nel suo godimento.

La distorsione della nostra percezione/concezione del valor d’uso si fonda  sulla trasformazione degli oggetti potenziali di desiderio in oggetti di bisogno. Questo implica anche la presentazione di oggetti di bisogno (finalizzati alla scarica della tensione) come oggetti di desiderio. Perfino quando (soprattutto nel campo dell’alta tecnologia) il prodotto che entra nel mercato ha alle sue spalle un lavoro di ricerca sufficientemente creativo, il suo uso si realizza soprattutto come consumo compulsivo e distratto.

L’uso delle cose come strumento distensivo prevale ampiamente sulla loro reale utilità. Poiché la distensione permanente ha un effetto depressivo, l’aggancio all’eccitazione è necessario. Il modello non dichiarato delle merci oggi, è un oggetto eccitante e, al tempo stesso, calmante: produce eccitazione in superficie come argine  alle trasformazioni profonde e significative della struttura psicocorporea. La tecnologia, supporto materiale dell’esistenza, è vulnerabile a questa deriva, perché può essere usata per scopi stabilizzatori. È sufficiente che il supporto si sostituisca alla sostanza, bloccandola.

La trasformazione di una materia in un prodotto e la trasformazione che il suo uso crea, sono strettamente associate, quando sono espressione del desiderio. Diversamente il legame tra produttori e consumatori si interrompe con l’alienazione di entrambi. Nella catena delle relazioni sociali l’oggetto creato senza desiderio sarà usato senza desiderio.

L’eclissi contemporanea del valor d’uso e del valore del lavoro produttivo, svilisce l’appropriazione creativa della realtà e l’esperienza conoscitiva. Questa esperienza è prodotta dal processo trasformativo che ha luogo in noi e nell’oggetto che ci interessa: possiamo conoscere veramente solo ciò che, mentre lo trasformiamo, ci trasforma. La produzione e il consumo senza trasformazione degli oggetti rende opaca la nostra esistenza e, aggiungendo al danno la beffa, ci impedisce di vedere le cause dell’opacità.

Il presente stantio di Sarantis Thanopulos

Il presente stantio

Sarantis Thanopulos

 

L’uscita dell’Inghilterra dall’Unione Europea, esplosione di un bubbone che ha lungamente covato il suo potenziale infettivo, è un fatto estremamente grave a prescindere dalle sue ricadute economiche. Ha un carattere razzista innegabile e non è un fatto isolato, ma espressione di una tendenza generale, diffusa e contagiante, tra i popoli d’Europa. Segnala che il rigetto dell’alterità stia facendo un temibile salto di qualità: l’avversione nei confronti dello straniero risucchia anche il vicino di casa, lo rende irriconoscibile, un estraneo.

Tra i tutti i narcisismi identitari, il più insidioso è quello delle piccole differenze, quando le dispute tra contrade diventano un muro invalicabile. Sostituire la prossimità con l’indifferenza, colpisce l’apertura alla vita nelle sue radici, cancella l’altro come parte di sé. La convinzione di poter fare da soli è il primo passo verso il più catastrofico dei conflitti, quello che si dissocia dal desiderio.

L’analisi del voto rende questa prospettiva, ormai a portata di mano, raccapricciante. Genitori/nonni hanno votato contro il figli/nipoti, in grande maggioranza favorevoli alla permanenza. Non è stato un conflitto generazionale, ma un figlicidio: la rottura della catena di trasmissione tra le generazioni, il rifiuto di passare il testimone, la pretesa di istituire il passato come futuro. Non è una bizzarria inglese: è la mentalità anonima che governa i nostri destini. In definitiva, cos’è il razzismo se non la più radicale chiusura alle trasformazioni, l’impossibilità di riconoscersi nel cambiamento che imprime la presenza di un figlio, del creato comune partorito dall’incontro e dallo scambio?

Sarebbe bello riporre nelle nuove generazioni le speranze di un riscatto, tifare per la  loro voglia di ribellarsi. Non è così semplice. Il vecchio governa il mondo impadronendosi del nuovo, corrompendolo. I giovani inglesi saranno favorevoli all’Europa, ma è stata la loro massiccia astensione dal voto, pari al fervore per un mondo aperto, a favorire il campo avversario. Pare che le pessime condizioni meteorologiche non li abbiano invogliati. L’appuntamento con l’avvenire può attendere.

Il principio che sottende la nostra esistenza è il vecchio che non passa: lo stantio. Il cattivo odore lo si percepisce, ma ognuno lo attribuisce a ciò che preferisce (le scelte abbondano). Si ritiene che la saggezza della vecchiaia stia nell’esperienza che consente di calcolare, con uno spirito di prudenza, possibilità e pericoli. In realtà il vecchio saggio è guidato dalla passione e, memore dei suoi errori, misura la vita con un’inedita apertura del pensiero e degli affetti, che lo riporta a sentirsi giovane. I tempi sono ingenerosi con lui, l’hanno privato del suo specchiarsi nello sguardo ardito dei giovani. Siamo fermi tra la gioventù appassionata che non addiviene e la vecchiaia saggia in pensione, in mezzo ai contabili di tutte le età: l’aritmetica è la loro arte del vivere.

Il legame tra uno sviluppo tecnologico impressionante e la produzione crescente di malessere, mostra che non è la  crisi economica a determinare la crisi etica (il disagio della civiltà in cui siamo immersi): è vero l’opposto. La fredda gestione numerica del lavoro e delle risorse, la dittatura impersonale che ci domina, è espressione di una ripetizione del medesimo. Al raggrinzamento della vitalità di un corpo sociale raffermo, corrisponde una concentrazione immensa dei beni materiali. Non sono beni finalizzati a un piacere reale, ma a riprodurre gli ingranaggi che li producono. Il trionfo annunciato dello scheletro sulla carne viva.

 

 

 

La vita non si addice ai bambini di Sarantis Thanopulos

La vita non si addice ai bambini

 

Sarantis Thanopulos

 

 

Centinaia di bambini sono annegati recentemente nei nostri mari. La notizia lascia il tempo che trova, nessuno ci fa caso. L’assuefazione, ormai conclamata, alla loro morte, non misura un’indifferenza generica, ma la nostra dissociazione dal loro destino, perfino l’auspicio inconscio che muoiano. D’altra parte che ci fanno le schiere di bambini in giro per il mondo, se non a testimoniare la nostra ferma determinazione di restare orfani di loro?

Ben inteso, la zavorra chiamata “bambino”, il cui sacrificio dovrebbe salvare la barca di una società a rischio di naufragio, non corrisponde all’esserino in carne e ossa che vive in casa nostra o gioca nel cortile. È l’infante anonimo che non conosciamo direttamente, ma semplicemente sentiamo, perché è parte della materia umana universale di cui siamo fatti. L’infanzia è la parte attraverso la quale la  nostra materia, indipendentemente dalla sua declinazione individuale, respira, odora, si ciba della musica e dei sapori della vita e sogna.

Non vogliamo che muoiano i “nostri figli”, ma i “bambini”: un modo di desiderare, sentire e pensare che rappresenta il nucleo della nostra esistenza, le radici nella terra viva del mondo che nutrono l’albero della nostra vita. E nulla ci importa del pericolo di inaridirci. Tanta è la paura di sentire il flusso del vivere nelle nostre vene in un ambiente sociale privo di garanzie e sempre meno solidale e più infido.

Quando l’immagine concreta di un bambino morto attraversa il buio dell’anonimato e sconvolge la nostra vista, per il breve tempo necessario alla sua rimozione, solo l’autoinganno ci convince che una compassione vera è tornata a farsi sentire in noi. In realtà l’effetto è perturbante e deriva dall’improvvisa sovrapposizione del bambino ignoto, lasciato morire, con l’immagine familiare del bambino “vero” che ci sta accanto.  Rivela, nel grado in cui ciò accade, che amiamo nel “nostro” bambino l’estensione della nostra esistenza e il giocattolo che ci consola (e ci diverte in senso antidepressivo) più che la materia umana, calda e coinvolgente, di cui è testimonianza.

Il desiderio inconscio di morte che il genitore coltiva nei confronti del figlio è fisiologico come il desiderio di morte che il figlio ha nei confronti del genitore. Una parte delle preoccupazioni e delle premure che i genitori rivolgono ai figli è dovuta al senso di colpa per il loro desiderio che essi muoiano. Tuttavia, è della vulnerabilità, inermità dei figli (in cui si riflettono) che i genitori, responsabilizzati e ansiosi, desiderano veramente liberarsi. In modo analogo i figli, desiderando la morte dei genitori, vogliono liberarsi dei limiti che essi pongono. Il conflitto inconscio di interessi si risolve quando la curiosità, l’esposizione senza riserve dei bambini alla vita, che li rende vulnerabili, è protetta, garantita dalle limitazioni poste da genitori e non impedita nel suo dispiegarsi.

Il mondo in cui viviamo, esposto alle scorrerie di banditi di ogni tipo, ferisce gravemente l’infanzia che ci abita, nel punto in cui lo sguardo vergine, aperto alla saorpresa, alla meraviglia, si congiunge allo sguardo sapiente, adulto. Lasciar perire dentro di noi l’infanzia ferita, ci obbliga a sostituirla con un “poppante saggio”, ossimoro di un essere umano nato già grande e realista. Saltando l’esposizione e la scoperta nel presente dell’esperienza, ci proiettiamo in un futuro privo di sogni, regno di un pragmatismo astratto dalla vita. L’Erode dei nostri tempi prepara la strada a un nuovo messianismo: uccidendo i bambini, crea un avvenire di redenzione consolatoria per il cinismo.

 

La punizione e i diritti umani di Sarantis Thanopulos

La punizione e i diritti umani

Sarantis Thanopulos

 

Anders Breivik –il folle pluriomicida norvegese- sta scontando la sua  pena detentiva. Recentemente, una giudice del distretto di Oslo ha stabilito che i suoi diritti sono stati violati durante la detenzione. La sentenza ha fatto scalpore: quanta premura per un mostro crudele! Nick Kohen, opinionista del “Guardian”, ha scritto in un articolo, intitolato “I diritti umani non stanno mai in piedi da soli”, che tali diritti sono invenzione dell’illuminismo e devono coesistere con la democrazia. Si reggono sul consenso dell’opinione pubblica, che deve essere persuasa. Specialmente in tempi di populismo alimentato dalla crisi dei profughi.

La combinazione del realismo politico con il relativismo etico nel discorso di Kohen, è segno della confusione che regna nel nostro modo di intendere la giustizia e, di conseguenza, la democrazia. Il consenso è condizione necessaria della democrazia che, tuttavia, diventa sufficiente solo in presenza della giustizia: l’ugual diritto dei cittadini di realizzare il loro modo di vivere secondo le loro potenzialità e le loro inclinazioni. La giustizia è protetta dal consenso, ma non deriva da esso: essendo il fondamento della condizione umana, la parità di tutti sul piano del desiderio non si decide per votazione. È il grado di uguaglianza dei cittadini all’interno della Polis che decide della possibilità della maggioranza (necessariamente variabile) di rappresentarli tutti nella gestione dell’interesse comune. Conseguentemente, la gestione del conflitto politico attraverso il suffragio universale è tanto più democratica quanto più aspira all’uguaglianza. Nella direzione opposta, più si allontana dall’uguaglianza, più il consenso maggioritario diventa strumento di conformazione di tutti a un principio totalitario.

Sfortunatamente (ma non incomprensibilmente) nell’esperienza reale la validità del principio di uguaglianza è confermata più da esempi negativi che da esempi positivi.  La dissuasione prodotta delle catastrofi a cui conduce la violazione del principio della fraternità umana, è più forte della persuasione derivante dalle situazioni di prosperità che il suo rispetto garantisce. Di conseguenza l’amministrazione della giustizia si fonda eticamente sulla punizione dell’infrazione del diritto dell’altro e non sulla premiazione del suo riconoscimento. Ciò che è punito è l’hubris: l’espandersi in modo disordinato, arrogante del proprio spazio senza alcuna preoccupazione per lo spazio dell’altro.

La punizione è proporzionata al grado di intenzionalità e non a quella del danno, perché deve sancire, di fronte ai capaci di intenderlo, il principio di inviolabilità di un limite e non essere usata come vendetta. Tuttavia, in ogni misfatto intenzionale il danno provocato aumenta proporzionatamente alla sua componente di preterintenzionalità: l’intenzionalità di danneggiare che supera la capacità di intendere l’entità del danno. L’hubris vera e propria è questa e la punizione assume qui il suo significato catartico: “Per te, capace e, al tempo stesso, non capace di intendere (ora o per sempre), e per tutti noi che ci vogliamo capaci, valga l’inammissibilità assoluta del fatto da te compiuto; chiunque lo compia sarà duramente sanzionato”.

La sanzione ripristina un limite invalicabile. E per questo non può a sua volta valicarlo. Ragion per cui, una volta punito secondo legge per la sua intenzionalità/preterintenzionalità e non per l’entità del danno, Breivik non può essere discriminato nei suoi diritti di detenuto. È improbabile che questo serva a restituirgli la sua umanità. Ma serve a noi per conservare la nostra.

 

 

L’Europa Felix di Sarantis Thanopulos

L’Europa Felix

Sarantis Thanopulos

 

Di notte, al sognatore insonne, aiutato da condizioni atmosferiche favorevoli, può capitare di vedere uno spettro: è l’Europa che si aggira nello spazio senza sogni. Dove sta andando l’Unione Europea nessuno lo sa, a partire da chi (si suppone) la sta guidando.

Il ministro degli interni Britannico è riuscito a convincere una parte, decisiva, dei deputati del suo partito che la Gran Bretagna dovesse rinnegare la propria proposta di ospitare 3000 bambini profughi, accampati a Calais e non accompagnati dai loro genitori. L’argomento che ha usato è singolare: l’accoglienza dei bambini avrebbe incoraggiato tanti altri genitori a inviare all’estero da soli i loro bambini, alla ricerca di un avvenire, esponendoli a pericoli enormi. Al ministro non importa granché trarre dal suo stesso ragionamento le necessarie implicazioni: se in giro per il mondo c’è tanta disperazione da non vedere altra via d’uscita che mandare i propri figli allo sbaraglio, né i mari, né le montagne, né i cannoni la fermeranno. O la si ascolta o, prima o poi, ci sommergerà tutti.

Se la Gran Bretagna volge lo sguardo altrove, l’Austria costruisce muri. Chissà se la barriera del Brennero riuscirà a salvare le sue valli felici dai barbari che si affollano alle loro porte. L’unica cosa sicura al momento è che questa barriera permetterà alla vera barbarie che la (ci) abita dall’interno di occupare il potere (non sarebbe la prima volta).

Si sa, l’Inghilterra, l’Austria, l’Europa sono isole (la Grecia no: per lei saranno guai). Gli organismi isolati pensano di essere autosufficienti, immuni da inconvenienti. Lontano dal contatto con la vita si ammalano gravemente. Tutto quello che non riesce a essere messo in movimento, a trasformarsi nella relazione con ciò che è esterno, gira a vuoto e diventa disordine permanente. Il disordine è proiettato fuori e il vuoto cimiteriale che si crea internamente è percepito come ordine. Più si combatte il persecutore esterno, costruito paranoicamente, più si rafforza il persecutore interno: la distruttività senza limiti che viene dal vuoto interiore. Nulla è più invasivo e pericoloso della morte psichica che dall’interno defluisce irrefrenabile verso l’esterno.

Il problema della migrazione è una grande difficoltà del presente complicata dalla miopia del passato. Quando il tempo è bello è facile distogliere lo sguardo dalle nuvole che si addensano all’orizzonte. Appare felice la vita quando gli occhi non vedono ciò che può disturbare. Solo che nel momento in cui piove non basta aprire l’ombrello; è necessario trasformare la pioggia in proprio alleato, piegare la forza della cattiva sorte alle ragioni del vulnerabile paesaggio soleggiato. Fatica scoraggiante. È più semplice chiudersi in casa, sognare a occhi aperti un cielo per sempre azzurro sulle pianure fiorite.

Si idealizza il panorama smarrito, in realtà il difetto di vista. L’idealizzazione del passato, tipica delle civiltà in crisi di identità, è un’invenzione a posteriori della realtà, il rifiuto di farsi carico degli aspetti scomodi dell’eredità lasciata dagli antenati, che impedisce di conquistarla (Goethe).

Più si vive riflettendosi, in modo consolatorio, in un passato idealizzato, più i problemi del presente sono avvertiti come pericolo che viene dal futuro e si avanza nella vita come talpe. Il futuro diventa un muro bianco su cui, prima di andare a sbatterci, si proiettano le immagini di un mondo incantato mai esistito. Beati coloro che, pensando di difendere la loro felicità, camminano, con convinzione pari alla loro cecità, sulla strada dell’inferno. È stato sufficiente fare del passato un paradiso perduto.

 

La norma e l’eccezione di Sarantis Thanopulos

La norma e l’eccezione

 

Sarantis Thanopulos

 

Donald Trump, candidato quasi certo dei Repubblicani alla presidenza degli Stati Uniti, ha compreso la posta in gioco nell’elezione di Sadiq Khan, laburista di fede musulmana, a sindaco di Londra. Com’è noto, Trump ha messo al centro del suo programma elettorale l’impegno di bandire, temporaneamente, l’ingresso negli Stati Uniti a tutti i musulmani. Quando gli è stato chiesto cosa avrebbe fatto, una volta eletto, con Khan, che ha manifestato l’intenzione di visitare gli Stati Uniti, ha risposto: “Ci saranno sempre eccezioni”. Ha aggiunto che aveva visto con piacere l’elezione di Khan e gli augurava di fare un buon lavoro.

L’eccezione rappresentata dall’elezione di un musulmano alla testa di una delle più importanti capitali dell’Europa, funzionerà come conferma della norma -l’esclusione del diverso dal governo della comunità- o segnerà, invece, l’inizio di una sua irreversibile destabilizzazione? I populisti xenofobi optano consapevolmente per la prima cosa. Scindere gli stranieri integrabili, o già integrati, dalle folle degli immigrati che invadono tumultuosamente la terra dove il caso e la necessità li hanno gettati, consente di assimilare i primi ai propri modelli di chiusura verso l’altro e rinforzare l’argine nei confronti dei secondi.

Checché se ne pensi, la xenofobia o il razzismo non sono che debolmente associati al narcisismo delle differenze, piccole o grandi. Il colore della pelle, il modo di vestirsi, i costumi, i credi religiosi, i modi di pensare sono soltanto fattori facilitanti l’azione discriminante o puri pretesti. La radice del rigetto dell’altro è nella dissoluzione delle relazioni di scambio a favore dei rapporti di potere unilaterali, nel trionfo dell’arbitrio sulla libera circolazione del desiderio. Il rigetto non respinge il deviante, lo costituisce come tale: lo usa  come puro annesso della propria esistenza o, se questo non è possibile, lo fa sparire dalla propria vista. Annessione e espulsione vanno di pari passo: tutto quello che può servire all’ottundimento dei propri sensi è depredato con avidità e ciò che può risvegliarli è buttato via/ annientato.

L’evidente squilibrio di Trump non è lo spostamento dal proprio centro di gravità di chi patisce eventi travolgenti che lo investono con forza imprevista, né il decentramento, non scevro di rischi, della propria esistenza di chi si sporge verso l’alterità, aprendosi alla vita. Trump si squilibra nel suo allontanarsi dalla vita, rifiutando il disordine e gli sconvolgimenti che ne fanno parte. Nel combattere l’imprevedibilità (che come ogni calcolatore cerca di forzare a suo favore), distorce il suo modo di sentire, pensare ed essere, creando un modello del vivere che è parimenti statico e bizzarro. Cerca di costruire un mondo a sua immagine e somiglianza, secondo un personale capriccio che non tiene conto dell’altro (se non per motivi strumentali), ma solo di ciò che gli garba: ciò che non scompiglia le sue carte.

La xenofobia, nelle sue forme organizzate più estreme, tende a sfociare nella configurazione della norma nella sua forma pura: l’agire come eccezione dalla vita. La violenza del suo linguaggio riflette la violenza del suo impatto sul tessuto vivo dell’esperienza. Nel confronto con l’equilibrio sempre in movimento, instabile del mondo reale, lo squilibrio immobile, pietrificato del potere normativo rivela la sua azione implacabile di sterminatore.

Di stermini della differenza la storia è piena. Le loro avvisaglie sono regolarmente ignorate, tanto forte è il richiamo all’ordine nei periodi di tempesta.Vale poco l’esperienza che la catastrofe si annida in questo richiamo.