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Il ragazzo con la bicicletta

Il ragazzo con la bicicletta, un film di Jean-Pierre e Luc Dardenne, 2011.

“Il ragazzo con la bicicletta” è un film sul padre nella contemporaneità.

Il protagonista è un ragazzo di 12 anni alle prese con quella che si potrebbe definire “la ricerca del padre”, ossia la ricerca di qualcuno che con il proprio desiderio crei un posto per il soggetto che è venuto al mondo. Se da un lato l’appello di Cyril al padre naturale è insistente, fino a diventare disperato e a spingerlo verso agiti che mettono a rischio la sua vita, dall’altro egli fa un incontro. Sarà necessario un tempo, che traccia una sorta di percorso soggettivo di Cyril, per fare una scelta. Un tempo che gli consentirà di vedere e riconoscere che accanto a lui c’è qualcuno, che pur non essendo il padre naturale, gli ha fatto spazio a partire dal proprio desiderio.

È un film che mette bene in luce la disgiunzione che ben conosciamo tra il padre naturale e la funzione simbolica del padre. È solo quest’ultima che permette di fare un posto al soggetto a partire da un desiderio particolare.

È un film che non si limita, come tanti altri, a fotografare realisticamente quella che si potrebbe definire “la crisi del padre” nel mondo contemporaneo. Qui troviamo qualcosa di più, una risposta, una possibile soluzione, che non lasci il soggetto solo con la sua disperazione.

Dott. Ezio De Francesco

Shame

Shame, Gran Bretagna, 2011. Tra i principali interpreti: Michael Fassbender, Carey Mulligan. Regia di Steve McQueen.

Shame è un film del videoartista britannico Steve McQueen, uscito in Italia nel gennaio di quest’anno e premiato al Festival di Venezia del 2011 con la coppa Volpi per il miglior attore protagonista.

Il film racconta la storia di Brandon, un trentenne che vive a New York. Brandon ha un ottimo lavoro, ha un delizioso loft, è bello e affascinante. Ha un unico problema: soffre di dipendenza da sesso. In effetti la sua vita, apparentemente tranquilla, quasi banale, ruota completamente attorno al sesso. Brandon si masturba ovunque capiti, si collega, sia a casa che in ufficio, a siti porno, frequenta prostitute, si aggira famelico in dark room per soli uomini. L’arrivo della sorella, un’aspirante cantante, molto sofferente, sconvolgerà le “normali” abitudini di Brandon. Per inciso è a lei che viene affidata l’unica battuta che possa far pensare a possibili traumi presenti nel loro passato: “Noi non siamo brutta gente, veniamo da un brutto posto”. Nel corso del film alcune scene, per esempio quella in cui il protagonista, dopo un’orgia notturna, si accascia per strada da solo, disperato, in lacrime, sotto la piaggia battente, sembrano suggerire che voglia o comunque cerchi di interrompere la ronda infernale nella quale, suo malgrado, sembra costretto a girare senza sosta. Ma il film non propone un lieto fine. Restiamo, come Brandon, in sospeso: non sappiamo se nella scena finale, quando si trova sulla metro, si alzerà dal suo posto per andare a rimorchiare la provocante passeggera che, tempo prima, aveva già adocchiata e inseguita. E’ vero che nel frattempo nella sua vita sono accaduti alcuni eventi, anche dolorosi, come il tentato suicidio della sorella, che potrebbero averlo cambiato, ma non è detto.

In un’intervista (vedi la Repubblica.it del 12/01/2012) il regista racconta di aver scelto il titolo del film, dopo aver ascoltato le testimonianze di molte persone afflitte da questo disturbo, le quali continuavano a ripetere la parola ‘vergogna’ per descrivere ciò da cui erano assalite dopo aver soddisfatto ciò che Freud chiamerebbe la spinta pulsionale.

Tuttavia, da un altro punto di vista, non possiamo fare a meno di ribadire qualcosa che è sotto gli occhi di tutti da molti anni: viviamo in un mondo dove la vergogna è sparita. E’ quasi superfluo dirlo ma oggi a essere alla ribalta è piuttosto la spudoratezza. Basta accendere la televisione e seguire uno dei tanti talk show, oppure leggere i giornali per venire a conoscenza di scandali vari che coinvolgono politici e amministratori dello Stato, persino la Chiesa cattolica non è stata risparmiata.

Allora qual è il messaggio che questo film vuol far passare? Io credo che il regista sia riuscito a far leva sicuramente sulla vergogna, ma, paradossalmente, non tanto su quella del protagonista (non sappiamo come se la caverà con il suo godimento) quanto su quella degli spettatori. Ossia attraverso quelle scene di sesso esplicito, a volte frenetico ma assolutamente meccaniche e neutre (tant’è che l’unica volta che il protagonista sta per fare l’amore con una donna che gli piace e con la quale può nascere una storia seria fa cilecca) lo scopo sia quello di far ritrovare proprio a chi guarda il rapporto con questo affetto fondamentale che è la vergogna. Ci sembra dunque che questo film rappresenti un vero antidoto per evitare di continuare a scivolare lungo quella china pericolosa che ci vorrebbe tutti spudorati o, per dirla con una parola di uno psicoanalista francese: tutti canaglie.

Dott. Ezio De Francesco

Perché essere felice quando puoi essere normale? – Jeanette Winterson

Jeanette Winterson, Perché essere felice quando puoi essere normale?, Mondadori 2012, traduzione di Chiara Spallino Rocca, pp. 214

Una ragazza di sedici anni sta lasciando la casa dei suoi genitori; sulla porta, alla madre dice che vuole essere felice con la giovane compagna che ama, in un rapporto che in casa è ritenuto immorale e peccaminoso. La madre risponde con la frase che è diventato il titolo di questo libro sincero e toccante.

Quell’adolescente ferita ma determinata riuscirà a studiare a Oxford e a diventare una delle più note e apprezzate narratrici inglesi di oggi, a partire da quel 1985 in cui uscì il primo romanzo autobiografico, Non ci sono solo le arance. Questo, invece, non è un romanzo, ogni velo di finzione è caduto e la Winterson ricostruisce la sua vera vicenda di bambina data in adozione da una giovane madre impossibilitata a crescerla, capitata in una famiglia pentecostale, nella severa Inghilterra industriale del Nord. Ma la seconda madre, che in tutto il libro l’autrice chiama Mrs Winterson, come a distaccarsene, è una donna disturbata, convinta di vivere alla Fine dei Tempi, piena d’odio per il mondo e per le gioie più comuni. Nelle lunghe ore trascorse sugli scalini all’esterno della loro piccola casa, lasciata fuori intere notti per motivi misteriosi e arbitrari, la piccola Jeanette matura pian piano la propria resistenza, che diventerà immaginazione e poesia quando più tardi potrà scoprire nella Biblioteca della sua città il mondo dei libri: «Per me, che ero affascinata dal problema dell’identità, dal modo in cui ciascuno si definisce, questi libri furono fondamentali. Leggere se stessi come un’opera di fantasia e non solo come una sequenza di fatti è l’unico modo per lasciare aperta la narrazione, l’unico modo per evitare che la storia ci sfugga procedendo per conto proprio, per approdare, il più delle volte, a un finale che nessuno vuole».

Questa autobiografia è bizzarra e dolorosa, ma piena della luce di una ricerca, che infine si compie, forse rimarginando la ferita del trauma iniziale in una cicatrice con cui si può finalmente convivere. Nel frattempo, le emozioni e il sentimento d’amore hanno trovato nelle parole la loro via, il luogo dove comporsi e aspettare il bene possibile.

Dott.ssa Daniela Cinelli

 

Le parole per dirlo – Marie Cardinal

Evidentemente non è un caso che l’incipit di questa autobiografia sia una dedica rivolta all’analista che “mi ha aiutata a nascere”. 

Il titolo Le parole per dirlo indica che c’è qualcosa di difficile da dire. Dire cosa? L’indicibile, l’impossibile, la Cosa, come la chiama la scrittrice.

Nelle prime pagine che risultano essere una sorta di radiografia “dell’inizio di un’analisi”, l’autrice è abitata da una domanda: “(…) la Cosa, questa colonna del mio essere, ermeticamente chiusa, piena di buio in movimento, come facevo a parlarne?”.

Il corpo è in primo piano, un corpo che perde sangue, un corpo chiuso, tappato, da nascondere, che finisce per rintanarsi in bagno.

Tutta una serie di cure mediche, peraltro invasive, non avevano risolto il problema.

Un atto segna l’inizio dell’analisi: la fuga dall’ennesimo ricovero. “La pazza”, così l’autrice chiama la parte inaccettabile di sé, finalmente si concede uno spazio, quando riesce a dire a se stessa: “Forse esisteva una via tra me e qualcun altro. Magari fosse vero! Magari potessi trovare qualcuno che mi ascolti veramente!”.

L’analisi ben documentata nei suoi passaggi cruciali ha dovuto trattare il rapporto con la madre che era fondamentalmente un “legame di morte”, quello più difficile da sciogliere in un’analisi. Questo legame affondava le sue radici nella congiuntura della nascita della protagonista, quando i genitori erano sul punto di divorziare. La madre, in effetti non aveva desiderato la sua nascita e aveva tentato in vari modi di interrompere quella gravidanza, senza però poter ricorrere all’aborto, per motivi religiosi. L’angoscia che ritorna sul corpo a partire dall’infanzia trova qui le sue radici più profonde. Prima della perdita del sangue c’erano altri sintomi infantili, ad esempio periodi in cui vomitava ogni sera la cena.

Ad analisi inoltrata inizia un’attività di scrittura, destinata a prendere sempre più spazio nella sua vita. Prima scrive su dei quaderni che nasconde, poi deciderà di ricopiarli con la macchina da scrivere. L’autrice dice di non sapere il perché di questa attività di riscrittura, sa solo che nel farlo prova una grande soddisfazione. Fino alla scoperta sorprendente che le parole “contengono materia viva”. Le parole che definisce: “quegli astucci pieni di vita, contenuti a loro volta, quando sono scritte, negli astucci delle lettere”.

L’analisi porta a dare un peso alle parole, è questo che scopre l’autrice, e che spiega così bene quando, a proposito dell’interpretazione di uno dei due sogni che le hanno permesso di terminare l’analisi, dice: “Perché mai avevo scelto alcuni particolari e trascurato altri? Perché sentivo l’inconscio pesare laddove poi mi diressi”.

Sono le parole alle quali darà corpo attraverso questo libro solo una volta finita l’analisi, una volta trovate appunto “Le parole per dirlo”.

Dott.ssa Beatrice Bosi

Volevo essere una farfalla – Michela Marzano

Volevo essere una farfalla è un libro autobiografico in cui l’autrice narra del suo viaggio lungo e sofferto per oltrepassare quello che chiama “il muro” dell’anoressia.

L’autrice mette  ben in luce che al cuore, all’origine della sua anoressia c’è un “no”, che si è iscritto precocemente rispetto al rapporto con l’altro, in questo caso la madre. A tal proposito che parla di un’interruzione “troppo precoce” del legame con la madre, di un’assenza che ha significato un abbandono.

Laddove si è spezzato qualcosa per sempre, c’è una ferita insanabile, che ha a che fare con l’essere abbandonata, con una perdita ingestibile, con un vuoto troppo grande.

A fare da contraltare c’è il rapporto con il padre, rispetto al quale dice di essere stata presa nei suoi “ideali tirannici”, ovvero dover essere la più brava. Era l’unico modo che aveva per sentirsi amata dal padre.

Il passaggio attraverso diversi tentativi di cura la vedrà approdare ad un percorso d’analisi, fatta in un’altra lingua, il francese, che la porterà a guarire.

Nella sua lettura dell’anoressia – che risulta estremamente interessante – tiene insieme due versanti che coabitano in una sorta di paradosso: “L’anoressia porta allo scoperto quello che non va nel profondo. È un’occasione per rimettere un po’ tutto in discussione. Ma è anche una protezione. Che mette a distanza la disperazione, che contiene il magma che si agita all’interno”. E aggiunge: “Si deve solo capire che non è tanto il “sintomo” che fa soffrire, ma la sofferenza che si trasforma in sintomo. Per negoziare con la realtà il prezzo della propria libertà”, ossia ci vuole un tempo per poter accedere a quella sofferenza profonda che l’anoressia mette in luce e nasconde contemporaneamente e il percorso di terapia è chiamato a rispettare questo tempo.

È così che l’autrice scardina uno dopo l’altro tutti i luoghi comuni sull’anoressia e la bulimia, sottolineando che non esistono le anoressiche e le bulimiche, e sostenendo l’importanza della singolarità di ciascuna persona.

È un libro che parla dell’inconscio, della psicoanalisi e di quanto sia importante correre il “rischio di parlare”. Ma è anche un libro che è attraversato interamente dal tema dell’amore.

Si può dire che quest’ultimo va a braccetto con l’anoressia e lo si vede bene quando dice:“L’amore si appoggia sempre e solo su tutto quello che ignoriamo di noi stessi. E che, nonostante tutto, non conosceremo mai”.

Grazie all’analisi l’amore e il rapporto con l’altro si muovono su fili nuovi per questa donna che sin da piccola sognava di fare la scrittrice e per la quale la lingua francese, una lingua diversa dalla lingua materna ha rappresentato un’opportunità nuova di dirsi.

 

Dott.ssa Beatrice Bosi

 

Diari di pietra – Carol Shields

Carol Shields, Diari di pietra, Voland 2009, traduzione di Barbara Ronca, pp. 360

Daisy è nata nel 1905, in un villaggio del Manitoba, Canada. Sua madre, l’ingenua Mercy Stone, sta cucinando quando accusa dei dolori tanto forti quanto imprevisti. Muore inconsapevole dandola alla luce e sembra che il suo ultimo respiro sussurri alla nuova nata di aprire gli occhi e vivere. Il marito Cuyler Goodwill, operaio in una cava di calcare, non si darà pace e costruirà sulla tomba di lei una torre di pietre, che diventerà addirittura un’attrazione turistica.
Emersa da questo evento luttuoso, Daisy vive la sua lunga vita fra il Canada e lo stato americano dell’Indiana, si sposa, resta vedova dopo pochi giorni, si risposa a 31 anni col ritrovato Barker Flett, figlio della sua antica vicina di casa, che per anni si è occupata di lei. Gli anni del Novecento passano, le amiche, i figli, le perdite. Daisy è una donna ordinaria, la cui vita si staglia appena su paesaggi severi e affascinanti e sulle varie esistenze di coloro che accanto a lei conducono le avvincenti avventure della normalità. In una scrittura semplice e luminosa, di capitolo in capitolo e di decennio in decennio, un destino si definisce, si compie: la narrazione è l’unica via per dare un senso alla vita. In età più che matura, Daisy diventa la Signora Pollice Verde tenendo una rubrica giornalistica di consigli sul giardinaggio: forse l’intreccio inestricabile di vita e morte che ha segnato la sua nascita può disciogliersi, forse si può imboccare la via della vitalità e della certezza. L’ultimo capitolo vede un’intera esistenza riapparire grazie alle piccole testimonianze degli oggetti ritrovati dai figli, ricette, liste di libri letti, pacchi di vecchie lettere. In inglese, daisy vuol dire margherita, ed è strano che proprio quel fiore sia stato dimenticato nel giorno dell’addio.

Dott.ssa Daniela Cinelli

Amy e Isabelle – Elizabeth Strout

Elizabeth Strout, Amy e Isabelle, traduzione di Martina Testa, Fazi editore 2010, pp. 480

Siamo a Shirley Falls, una cittadina del New England, Stati Uniti. Amy e Isabelle hanno sedici e poco più di trent’anni, sono figlia e madre, legate da un “filo nero” che può anche allungarsi, consentendo all’una e all’altra di vivere in parte la propria vita, ma mai spezzarsi. Amy frequenta il liceo, fuma di nascosto con l’amica Stacy e avverte in sé il fascino maturo del professor Robertson, supplente di matematica. Isabelle lavora come segretaria nella maggiore industria del luogo, cerca di essere efficiente e non si cura delle colleghe, ma non può impedirsi di pensare al proprio capoufficio, il distratto Avery, e insieme alla vita com’è e come avrebbe potuto essere.
Amy ed Isabelle sono divise dal troppo amore che provano l’una per l’altra, dal reciproco bisogno, dalla vita banale che conducono e dal destarsi in loro di una confusa ansia di felicità. Attorno alle loro vicende, fatte di una quotidianità densa e difficile, ma anche di un’insospettabile grazia, la città si anima e si spegne, le stagioni si susseguono modificando ogni angolo di quel piccolo mondo provinciale, e insieme gli umori e le paure di tanti altri protagonisti. Desiderate e fantasticate, le figure maschili sono al tempo stesso onnipresenti e fuggitive, assenti, prive di spessore. La soluzione, allora, sarà quella di riuscire da sole: Isabelle dovrà imparare a lasciar andare, a sopportare la separazione, scoprendo nell’amicizia femminile una rete che inviti finalmente alla confessione. Amy, dal suo canto, dovrà accettare la propria crescita, la forza serena della propria bellezza giovanile, la lontananza in cui tutti noi maturiamo.

 

Dott.ssa Daniela Cinelli


Cineforum

Si comunica che l’Associazione DAI propone un’attività di cineforum che si svolgerà in sede a partire dal mese di Ottobre 2012. L’attività sarà organizzata nel seguente modo:

  • Breve presentazione del film in questione da parte di uno dei due organizzatori

  • Visione del film scelto

  • Breve commento da parte di uno dei due organizzatori per aprire il dibattito. Subito dopo viene lasciata la parola a chi vuole intervenire e la discussione è coordinata, stimolata e moderata dagli organizzatori

Questa attività offre la possibilità di affrontare di volta in volta tematiche di interesse generale come: l’adolescenza, la famiglia, la funzione paterna e materna, la femminilità, la scuola, l’amore, il disagio giovanile, etc.

I FILM IN PROGRAMMA:

In via di strutturazione

 

 

Biografia della fame – Amélie Nothomb

Libro anoressia - Biografia della fame - Amélie Nothomb - FIDA Federazione Italiana Disturbi Alimentiari
Testo di Amélie Nothomb, Biografia della fame, Voland, Roma 2005

Rispetto a “Metafisica dei tubi“, “Biografia della fame” è un avanzamento temporale ulteriore nel percorso autobiografico della Nothomb, una sorta di secondo tempo cinematografico.

L’autrice introduce un tema fondamentale della sua esistenza, in modo del tutto originale: la fame. Dice: “La fame sono io” e spiega: “Per fame intendo quel buco spaventoso di tutto l’essere, quel vuoto che attanaglia, quell’aspirazione non tanto all’utopica pienezza quanto alla semplice realtà: là dove non c’è niente, imploro che ci sia qualcosa“.

È la stessa fame che ritroviamo nella lingua che dichiara di parlare “il fraponese”, che è un insieme di due lingue il francese e il giapponese, unite dal piacere, paragonabile a pezzi dei suoi cibi preferiti. È la lingua della quale ha fame, della quale si nutre.

E insieme alla fame c’è la sete, che per l’autrice ha un’importanza altrettanto vitale: “Se scendevo appena all’interno di me, mi imbattevo in territori di un’aridità stupefacente, sponde che attendevano la piena del Nilo da millenni“.

L’autobiografia si svolge in una sorta di percorso circolare e attraversa gli anni del nomadismo familiare in Paesi molto distanti tra loro: dallo strappo dolorosissimo dal Giappone, alla Cina, a New York, al Bangladesh… fino ad attraversare, ormai tredicenne, quello che definisce un “cataclisma” provocato, ovvero l’anoressia.

È il periodo in cui decide di smettere di mangiare e di far sparire la fame tanto amata.
Rimarrà solo il nutrimento delle parole, il dizionario è il nutrimento alternativo, insieme alla lettura che l’accompagna sempre.

Nel punto in cui sceglie ancora una volta di rifiutare la morte, si apre la strada della scrittura.
In una sorta di logica circolare ritornerà nei due luoghi più significativi della sua vita, quelli della sua lingua “fraponese”: il Belgio, dove approda per la prima volta a diciassette anni, e in cui inizia a scrivere, e poi il Giappone ritrovato, che le consentirà di continuare quella che è diventata la sua attività di scrittrice.

Dott.ssa Beatrice Bosi

Metafisica dei tubi – Amélie Nothomb

Amélie Nothomb - Metafisica dei tubi - FIDA Federazione Italiana Disturbi Alimentari
Testo di Amélie Nothomb, Metafisica dei tubi, Guanda, Parma 2005

L’autrice ripercorre in modo del tutto originale e fantasioso i primi tre anni di vita di una bambina nata in Giappone da una famiglia belga. Il cuore pulsante del romanzo è il tema del primo impatto con la vita.

Risulta particolarmente toccante la descrizione del passaggio fatto da questa bambina da “tubo” ridotto allo svolgimento di tre attività di base (la deglutizione, la digestione e l’escrezione) alla sua vera nascita quando aveva già più di due anni di vita, grazie a una congiuntura del tutto singolare.

All’autrice non sfuggono i passaggi fondamentali che portano un essere vivente a diventare un essere umano.

In primo luogo lo sguardo: “La vita inizia laddove inizia lo sguardo” e precisa “lo sguardo è una scelta“, che in quanto tale comporta una rinuncia. Questa insondabile scelta che porta a dire di si alla vita e al rapporto con l’altro, è un segnale della nascita dell’essere umano.

È così che la bambina stabilisce la sua nascita a due anni e mezzo dalla sua venuta al mondo, “sotto lo sguardo della nonna paterna, per grazia del cioccolato bianco”, cioè a partire da un desiderio particolare dell’altro. La nonna belga è stata quella figura fondamentale che ha messo per prima piede nella sua memoria e che ha contribuito a liberarla dalla morte.

Successivamente l’autrice spiega con estrema cura e precisione la scoperta del linguaggio, come ha imparato a parlare, la congiuntura particolare delle prime parole che ha pronunciato, il rapporto del tutto singolare che instaura tra la lingua francese e quella giapponese.

Altro tema che fa da contrappunto a quello del primo impatto con la vita è quello dell’attrazione per la morte, che la bambina sperimenta in modo particolare in un episodio che risale ai tre anni di vita.

Il pregio di questo piccolo romanzo autobiografico risiede nel far vedere molto bene quanto per l’essere umano la nascita sia un fatto che va ben al di là di questioni meramente biologiche, e quanto sia strettamente connessa alla presenza dell’altro, al suo desiderio e all’incontro con il linguaggio.

Dott.ssa Beatrice Bosi