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L’Edipo di Ramón Mercader

Sarantis Thanopulos

 

“Un Edipo stalinista” è un capitolo del libro “Freud’s Mexico” di Rubén Gallo, professore a Princeton. Il breve testo, pubblicato in italiano e corredato di un’ottima prefazione di Luciana Castellina, è la ricostruzione appassionata e rigorosa del caso di Ramón Mercader assassino di Trockij per ordine di Stalin. L’indagine, con divertimento del lettore, segue il ritmo narrativo del giallo ed è incentrata sull’analisi intensiva (durata sei mesi) delle motivazioni psicologiche dell’atto omicida di Mercader. Questa analisi condotta con metodi psicoanalitici “selvaggi” da un’equipe di giuristi e criminologi messicani ha indotto il tribunale a stabilire come movente dell’assassinio “un complesso di Edipo manifesto”. Come Gallo giustamente osserva, le motivazioni edipiche nell’assassinio di Trockij sembrano fondate al di là della loro ingenua definizione psico-giuridica.

Il padre di Ramón era un industriale di Barcellona. La madre, Caridad del Río, una bella donna di origini cubane a disagio nell’ambiente sociale del marito e legata ai circoli anarchici della sua nuova città, ha rotto il vincolo matrimoniale portandosi con sé i cinque figli. Il suo incontro con Leonid Eitingon, fiduciario di Stalin per l’eliminazione fisica dei suoi avversari politici, l’ha portata nelle file del partito comunista spagnolo allontanandola dall’uso delle droghe a cui era dedita. Adoratrice di Stalin ha ricoperto importanti incarichi nel partito e con Leonid ha escogitato il progetto di affidare l’assassinio di Troskij al figlio Ramón che era legatissimo a lei. Ha sacrificato il figlio alla causa. Ramón Mercader ha affermato la centralità assoluta del suo legame con la madre negando con perseveranza, dal momento della sua cattura fino alla sua morte, la sua vera identità e con essa la sua filiazione al padre. È restato in carcere per vent’anni sotto il nome di Jacques Mornard, insistendo nella falsa identità di trotzkista belga deluso anche quando quella vera è stata svelata.

Dopo la sua liberazione, quando è emigrato in Unione Sovietica, ha usato ancora una volta un cognome falso: Pavlovich López. Ha scelto di morire in Cuba, la terra della madre. L’ipotesi che uccidendo Trockij (nella realtà) Ramón abbia ucciso il padre (dentro di sé) non é arbitraria anche se segue vie più complesse della concezione freudiana del complesso edipico. Caridad è il tipo di madre (frequente nell’esperienza clinica) che usa un proprio padre ideale per neutralizzare il padre reale dei propri figli e far valere nel rapporto con loro una vocazione autocratica. Nel suo legame con Ramón, a cui chiede di incarnare l’oggetto ideale con cui lei si identifica, è significativo il fatto che il numero dei padri in gioco raddoppia: a un padre reale adottivo (Leonid) associato a un padre ideale buono (Stalin) corrisponde un padre reale biologico associato a un padre ideale cattivo e deludente (Trockij). Sullo sfondo di questa tragedia le figure, supposte riparatrici, di Leonid e di Stalin non reggono nel mondo interno di Ramón (perché non reggono nella madre).

Il desiderio del padre reale perduto affiora, nonostante il suo rigetto, sia nel nome falso belga (che è un anagramma del vero) sia in quello russo che ha una componente spagnola. In questa cornice Trockij diventa il capro espiatorio della delusione che in realtà viene da Stalin ma ciò non basta a spiegare la convinzione di doverlo uccidere. Ramón uccide per sacrificarsi. Rimette in piedi la madre assumendo il suo destino di figlio crocifisso e diventando il messia che la redime. Alza per sempre un muro tra sé e l’uomo (padre) che sarebbe potuto essere.

L’importanza della forma

Sarantis Thanopulos

 

Matteo Renzi, sindaco di Firenze e nuovo segretario del Pd, è un uomo “senza peli sulla lingua”. Ha anche una certa inclinazione per battute un po’ grevi, il che, a quanto pare, lo rende simpatico. Forte del suo alto indice di gradimento non ha esitato a trattare con aperto disprezzo un importante esponente della minoranza del suo partito. Criticato da più parti (anche la popolarità ha i suoi limiti) ha tirato dritto per la sua strada rivendicando un modo di fare piuttosto sbrigativo come suo marchio di fabbrica. È possibile che questa coerente persistenza nei modi sgarbati personalmente gli giovi: i precedenti non gli sono sfavorevoli. Non giova a lungo andare al nostro comune sentire perché lo logora.

Che si chiudano le stalle quanto i buoi sono ormai fuggiti può sembrare anacronistico e sicuramente non si può chiedere a Renzi il conto di una maleducazione diffusa in cui egli è l’ultimo arrivato e probabilmente non il più importante tra i suoi interpreti. Tuttavia rassegnarsi all’andazzo non è il modo migliore di vivere e sperare che il vento cambi aiuta la respirazione almeno sul piano psicologico. Come i poeti e gli artisti sanno la forma del linguaggio può essere sostanza: l’eleganza, l’intensità, l’immediatezza, il ritmo, la finezza, la complessità della tessitura non sono meri contenitori ma il contenuto in azione, la sostanza nel suo divenire.

Quando la forma si dissocia dalla sostanza e diventa orpello retorico, guscio vuoto che nel nascondere rivela la sua inconsistenza, la vera posta in gioco non é l’ipocrisia sociale lastricata di marmo di Carrara che nasconde l’indifferenza o la cattiva intenzione nei confronti del prossimo: va in scena la paura della profondità dell’esperienza, l’aggrapparsi con tutte le proprie forze alla superficie dell’essere. La futilità emanata dalle buone maniere tutte le volte che queste sostituiscono i sentimenti motiva la diffidenza nei loro confronti come pure un certo apprezzamento della maleducazione percepita, con grande approssimazione, come immediatezza e sincerità.

In realtà l’atteggiamento irrispettoso nei confronti degli altri maschera la mancanza di intima convinzione nei confronti del proprio operare e dire, una delegittimazione prevalentemente inconscia dei propri intenti che più é forte più diventa arroganza. Più in generale l’abitudine crescente nelle relazioni pubbliche come in quelle private di considerare la mancanza di sensibilità e di pudore come prova di spontaneità e di confidenza (o addirittura di intimità) favorisce la messa in circolazione di tutte le forze che si oppongono al legame con l’altro: narcisismo, volontà di dominio, pregiudizio, diffidenza. Crea così un danno che avendo progredito nel silenzio è spesso irreparabile quando diventa manifesto. La cura delle parole, la discrezione (che è sospensione del giudizio prima di ogni altra cosa), il tatto (la sensibilità che è solidarietà nei confronti dell’idioma relazionale dell’altro) fanno sedimentare i nostri sentimenti e pensieri, ampliando i loro orizzonte, e ci predispongono all’ascolto e alla comprensione delle situazioni anche quando il nostro interlocutore è un nemico. Non antagonizzano le passioni di cui è intriso il nostro vivere ma, al contrario, mettendo un argine alla loro mancanza di responsabilità e orientandole verso il rispetto dell’alterità danno loro senso/direzione e intensità, le finalizzano come apertura al mondo. La buona forma della comunicazione non è fatta di sentimenti deboli ma di sentimenti intensi, profondi: la passione che veicola non offende, afferra.

Il “gusto” del vivere

Sarantis Thanopulos

 

Caterina Simonsen, una ragazza di 25 anni, ha espresso in un video la sua posizione favorevole alla sperimentazione animale che, ha spiegato, le ha permesso di essere ancora in vita. In cambio ha ricevuto offese e auguri di morte da parte di alcune centinaia di animalisti o supposti tali. Il dibattito sulla sperimentazione animale è fortemente ideologizzato da entrambe le parti in conflitto e il buon senso (per non scomodare il discorso scientifico) ne fa le spese. Al di là delle strumentalizzazioni, il caso di Caterina mostra ancora una volta i limiti del “politically correct”, l’impasse in cui finisce regolarmente tutte le volte in cui i luoghi comuni che difende con generosità equanime e visione aconflittuale finiscono per entrare in contrasto. Tuttavia la polemica che ha animato il periodo natalizio ha delle implicazioni indirette che meritano attenzione.

L’amore per gli animali mantiene viva e significativa dentro di sé la propria infanzia perché conserva il legame con modalità di comunicazione spontanea e riattiva le prime forme di sublimazione che hanno socializzato la passione erotica. Che in tanti preferiscono gli animali agli esseri umani non fa certo scandalo: la crudeltà umana può superare ampiamente la ferocia animale. Nondimeno nelle sue forme più estreme, e sempre più diffuse, la preferenza accordata agli animali nasconde una difficoltà di concepire relazioni paritarie, un rifiuto della propria dipendenza da legami psichicamente complessi e, a volte, tentazioni sadiche mantenute sotto controllo attraverso la loro conversione in sentimenti amorosi, protettivi. Ci sono concezioni del nostro rapporto con gli animali e con il mondo vegetale che pur nell’ambito delle migliori intenzioni pacifiche nei confronti del prossimo promuovono una visione disincarnata della vita.

Il teologo Vito Mancuso, intervenuto in favore di Caterina, ha esteso il diritto di vivere ai batteri (“perché fanno solo il loro mestiere senza nessuna intenzione di aggredirci”) e alle piante in generale, arrivando a chiedersi se raccogliere i frutti degli alberi non implichi una forma di furto. Citando Gandhi, secondo il quale “la violenza è una necessità connaturata alla vita corporea” (visto che non si può nutrire che sopprimendo un’altra vita animale o vegetale che sia), Mancuso giunge alla conclusione che “nessuno é innocente e nessuno è in grado di stabilire dove si debba attestare il rispetto per la vita”. L’applicazione di categorie umane alla natura non è il modo migliore per comprendere la nostra posizione in essa e, inoltre, questo modo onnicomprensivo di concepire la violenza (identificandola con ogni singolo atto del nostro vivere: non soltanto la nutrizione, ma anche l’uso dei vestiti, il camminare sull’erba ecc.) la priva, di fatto, di significato. A meno che tale definizione della violenza non abbia come sua fonte di ispirazione un rigetto inconfessabile del legame erotico, carnale con la vita.

Secondo questa prospettiva, che ignora l’etica, l’essere umano non deve mangiare la mela perché con l’atto di mangiarla, supposto violento e colpevole, afferma il suo corpo di soggetto desiderante. Un bambino non scoprirà mai il senso della sua esistenza se non sarà in grado di “mangiare” il corpo della madre godendone, se l’indebita preoccupazione dell'”innocenza” gli impedirà di scoprire che la natura amata con rispetto (le mele mangiate) si rigenera. Stiamo perdendo il “gusto” del vivere. Senza esserne consapevoli sembra farsi strada un ideale di anoressia che tende a trasformare la vita in puro spirito: l’incarnazione del nulla.

Ai bambini cattivi psicofarmaci come regalo di Natale

Sarantis Thanopulos

 

Secondo dati riportati da Consumers Reports, negli Stati Uniti l’uso di antipsicotici riservato ai bambini si è triplicato negli ultimi 10/15 anni e, in particolare, per i bambini tra i 2 e i 5 anni si è duplicato tra il 2001 e il 2007. Nonostante la Food and Drug Administration (l’agenzia governativa di protezione dai cibi e dai farmaci nocivi) raccomanda di evitare questo uso spropositato, molti medici americani, sotto l’influenza del marketing aggressivo delle società farmaceutiche, ignorano la raccomandazione e trattano i bambini con disturbi turbolenti del comportamento come se fossero psicotici, specialmente quando appartengono a famiglie disagiate che non hanno possibilità di accesso a cure di qualità e non hanno la capacità di affrontare problemi emozionali complessi.

L’impotenza delle autorità governative a mettere un argine allo strapotere delle industrie farmaceutiche va di pari passo con un cambiamento della mentalità collettiva nei riguardi del giusto modo di vivere: dalla valorizzazione della creatività, dell’intensità delle emozioni e della profondità dei sentimenti ci si sta spostando, in modo apparentemente inarrestabile, alla conformazione ad un agire automatico, secondo standard di comportamento prevedibili, programmabili e efficienti. È irrilevante che i tranquillanti non siano effettivamente in grado di produrre una reale efficienza comportamentale conforme ai modelli sociali dominanti: la cosa importante è che questa loro supposta qualità rassicuri un’opinione pubblica alla ricerca di cose concrete e di ordine che sta alla larga dalla complessità e dalle sue incertezze.

I farmaci con cui una ancora piccola percentuale di bambini è sottoposta a un trattamento palesemente repressivo che viola la loro soggettività, vengono assunti inconsciamente dalla maggioranza di adulti come strumento di controllo sociale. Il disturbo comportamentale nel bambino è il più delle volte l’unica manifestazione, inevitabilmente distorta, della sua vitalità e la sola comunicazione indiretta di un profondo malessere che lo affligge. Ciò che sta dietro l’irrequietezza e l’aggressività è una grave deprivazione psichica che la somministrazione di psicofarmaci non solo non risolve ma aggrava.

La società degli adulti non è mai stata tenera con i bambini: si può amare intensamente i propri figli e soffrire enormemente per la loro perdita senza per questo perdere il sonno per i milioni di piccoli esseri che muoiono di fame o sotto le bombe oppure sopravvivono in condizioni disumane di abbandono e di sfruttamento. Confluiscono in questa crudeltà negata, a cui fa da copertura l’indifferenza, un miscuglio di sentimenti inconfessabili: il bambino dalla passione ineducabile che esiste in ogni adulto (e si oppone ai compromessi di cui è lastricata la vita) è scomodo e vulnerabile ed è per questo inconsciamente temuto, rifiutato, odiato.

L’ambivalenza che l’adulto prova nei confronti delle ragioni infantili dentro di sé spiega la mancanza di compassione di cui spesso i bambini (come insieme sociale) sono vittime in piena contraddizione con l’amore che è loro rivolto. Tuttavia l’attacco ai bambini non aveva mai avuto nel passato il carattere repressivo ideologico che sta assumendo nella società di oggi. La violenza della repressione farmacologica è potenzialmente più grande di quella di un attacco di bombe perché tende a distruggere la radice stessa dell’essere umano. Stiamo andando verso un futuro in cui non ci saranno più adulti a odiare la loro infanzia ma bambini mai diventati adulti.

Niente orchidee per i giornalisti

Sarantis Thanopulos

 

I giornalisti sono una delle categorie professionali più in difficoltà, a causa di un loro programmatico ridimensionamento che è iniziato prima della crisi e fa parte dei fenomeni sottovalutati che l’hanno determinata. La precarietà dei posti di lavoro nei giornali aumenta di giorno in giorno, i compensi si riducono al minimo accettabile (se va bene) e i giovani che intraprendono questa strada si trovano nella condizione di un volontariato a tempo indeterminato. Questo andazzo riflette notoriamente un’industrializzazione sfrenata dei media che offre sempre di più un prodotto uniforme a basso livello culturale e ad alto tasso di spettacolarizzazione e riserva notorietà e denaro a pochi personaggi-immagine. I giornalisti e le testate indipendenti resistono a denti stretti ma sicuramente non prosperano e gli sforzi di tanti giovani appassionati del web non possono contrastare lo sviluppo di un mercato di notizie tanto remunerativo quanto insostenibilmente leggero come qualità.

La libertà di stampa è in grave pericolo, con tutti i sinistri presagi che la conoscenza della storia ci impone, ma questa volta la minaccia prende la forma di una “mutazione antropologica” che ha carattere globale e si sviluppa in modo autonomo dalla censura politica di regimi locali. Non è in gioco semplicemente l’esistenza della stampa come potere indipendente necessario per la democrazia ma anche la sopravvivenza dei giornalisti come categoria sociale che ha un ruolo essenziale, assolutamente centrale nella costituzione della società civile. La loro funzione va al di là dei giornali e delle riviste in cui scrivono o delle linee politiche che seguono: sono portatori di un modo di pensare e di una cultura del vivere frutto di frequentazioni e influenze culturali plurali e di sedimentazione di fermenti eterogenei sia confluenti sia contraddittori.

Non si può essere giornalisti veri senza al tempo stesso essere “conduttori” buoni degli stimoli, desideri, emozioni, sentimenti e pensieri che attraversano la società. Ben oltre che trasmettere notizie e approfondirle i giornalisti mettono in comunicazione, con la loro presenza viva, gli ingredienti che costituiscono la coscienza collettiva: la verità filosofica/scientifica, la verità artistico/letteraria e la verità della vita quotidiana. Sono (indipendentemente dalle loro opinioni personali) una parte fondamentale del tessuto connettivo che dà consistenza al concetto di cittadinanza, all’idea di una comunità di pari oltre le differenze di sesso, ceto e religione e gli idiomi sessuali, culturali e politici.

Il giornalista è il nostro modello di cittadino consapevole dei suoi diritti, sufficientemente critico (scettico quanto basta), informato sulle cose del mondo e attento alle trasformazioni sociali che lo coinvolgono; soprattuto egli è la rappresentazione della laicità della polis, della sua vita spogliata/liberata della sacralità. L’identificazione dei cittadini con il giornalista è un elemento misconosciuto ma importante dell’equilibrio psichico della collettività nell’oscillazione tra desiderio ribelle alle convenzioni e adattamento alla realtà e tra bisogno di autorità rassicuranti e fiducia nelle proprie possibilità. La de-significazione progressiva della figura del giornalista così come l’hanno prodotta due secoli di civiltà non è, quindi, solo un attentato alla libertà d’espressione e alla verità dell’informazione: comporterà, se continuerà, anche la fine di un importante riferimento esterno per la nostra libertà interiore.

L’impasse della medicina

Sarantis Thanopulos

 

La durata dei corsi di specializzazione in medicina è stata ridotta da cinque a quattro anni per motivi esclusivamente economici: risparmiare sugli stipendi degli specializzandi. Questa decisione, che sarebbe stata impensabile fino a pochi anni fa, è passata sotto silenzio per via della crisi ma anche perché è legittimata da un fenomeno che si sta consolidando ovunque: lo strapotere della tecnologia nel campo della ricerca scientifica che tende a trasformare i medici da studiosi dell’essere umano in tecnici. Il piacere della scoperta (della ricerca conoscitiva) rischia di essere schiacciato dal sentimento di onnipotenza che produce l’identificazione narcisistica con dispositivi meccanici sempre più efficienti e ammirevoli.

La bio-ingegneria, che pure ha consentito grandi progressi (e che con la nanotecnologia in arrivo consentirà un controllo sul nostro corpo fantascientifico), da strumento di applicazione della conoscenza medica è diventata il suo paradigma normativo che, travestito da pragmatismo, detta in modo autoritario le sue condizioni. In nome di una verità oggettiva pura si pretende di eliminare le incertezze a cui è soggetta ogni conoscenza per il fatto che essa è indissociabile dal desiderio. Se é vero che si può conoscere solo ciò che resiste al nostro desiderio è altrettanto vero che non lo si può fare a prescindere da esso. L’inseguimento di un’ideale di obiettività assoluta (priva di desiderio) produce una virtualizzazione della realtà, uno spazio di devitalizzazione dell’esperienza che va ben al di là dello spazio virtuale informatico. Nella medicina attuale l’eccesso di voler vedere, lo sviluppo esponenziale della capacità di penetrare il corpo umano in tutti i suoi spazi, inibisce la dialettica tra il visibile e l’invisibile che fa della scienza uno strumento di apertura alla vita. In una prospettiva che privilegia solo la visibilità si vede sempre meglio la stessa cosa. Se le cose andassero in questo modo nella scienza, Newton non avrebbe visto null’altro che una mela che cade e Einstein sarebbe rimasto prigioniero dello spazio tridimensionale.

Lo sguardo del clinico è, secondo Foucault, “sapiente” -sa quello che vede (ma si può anche dire: vede solo quello che sa)- e “vergine” -vede la cosa come se la vedesse per la prima volta. Sullo sguardo vergine si sta affermando la dittatura dello sguardo sapiente, che rende fisso, unidimensionale lo spazio dell’immaginazione. È la tensione tra i due sguardi che crea l’immaginazione, il movimento creativo che consente al desiderio di non ripetere all’infinito lo stesso percorso ma di scoprire strade nuove, modi diversi e imprevisti di esistere. La verità non è un dato immobile ma la scoperta di un accesso al mondo. Privo di verità, del desiderio che incontra la realtà (l’unico possibile realismo), l’ideale scientifico della medicina dei nostri giorni, la ragione computazionale, sostituisce l’immaginazione/intuizione col calcolo. L’immaginazione rischia, è esposizione, decentramento del soggetto della ricerca dalla sua autoreferenzialità; il calcolo isolato dall’immaginazione misura solo l’inerzia. Per la cecità del suo troppo calcolato vedere la Medicina rischia di pagare un prezzo amaro: per la prima volta dopo un secolo di grandi speranze la tendenza all’aumento della durata media della vita inizia à invertirsi (secondo l’affermazione ufficiale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità). I medici dovrebbero ricordare che l’essere umano non è un essere “esatto”, che le misurazioni troppo precise afferrano il vuoto, smarrendo ciò che pretendono di misurare.

La psicologia dell’impostura

Sarantis Thanopulos

 

Lo spettacolo che Berlusconi continua a dare è più che mai surreale. Un condannato con sentenza definitiva va in giro senza che nessuno si preoccupi di dargli una sistemazione, giuridica o di eccezione, definitiva: dentro o fuori. Questa sospensione della decisione, rivela che, politicamente parlando, Berlusconi ha sempre alloggiato nella zona grigia di un’esistenza non vera: per vent’anni abbiamo convissuto con un morto che abbiamo amato o odiato credendolo vivo. La presenza di questa figura tragicomica, in cui il carnevale e la quaresima convivono con tetra noncuranza, è stata una perpetua messinscena che ha eluso con perseveranza sia le regole giuridiche sia la vita. Nei momenti in cui la percezione dell’interesse collettivo si fa oscura l’attenzione è tutta sull’impostore (restando divisa tra negazione e denuncia) e si dimentica l’impostura.

La comprensione dell’impostore, che non è l’ideatore ma l’incarnazione dell’impostura, e del contratto che dà origine alla sua esistenza, diventa più accessibile se si usa l’attore come suo metro di misura. L’attore è intensamente “isterico” nel suo lavoro: è e, contemporaneamente, non è il personaggio che interpreta. La profondità e la credibilità della sua interpretazione dipende dalla sua capacità di assumere transizionalmente e sperimentalmente l’altro nel suo mondo interno senza rinunciare alla sua distinta identità. Di questo ci serviamo come spettatori per poter identificarsi a nostra volta con il personaggio sulla scena, mentre manteniamo la debita distanza e differenza, e mettere dentro di noi in tensione due diversi modi di essere. L’attore ci aiuta a aprirci all’alterità senza farsi alienare da essa, di restare eccentrici rispetto alla nostra concezione della vita e diversi dal personaggio ufficiale che le nostre coordinate socioculturali ci assegnano.

L’impostore, invece, é fatto di narcisismo privo di desiderio: diventando tutt’uno con il personaggio che recita, può agire esclusivamente in funzione dell’amor proprio ma a condizione di appiattirsi sulle aspettative, magiche per definizione, che gli altri gli assegnano. Non inganna il suo interlocutore ma, da una posizione di potere che eccita, accetta di essere parte dell’inganno da cui entrambi dipendono. Nessuno aspetta realmente che le promesse sulle quali apparentemente regge il contratto dell’impostura siano rispettate, perché la loro funzione è di mantenere uno stato di attesa messianica togliendo investimento all’impegno nella vita vera. Quando i meccanismi di soddisfazione dei bisogni e dei desideri materiali e psichici sono inceppati e sentirsi vivi espone al rischio di ferite intollerabili. nasce una domanda insistente di impostura: far diventare il proprio desiderio un’aspettativa onnicomprensiva, indefinita che non può essere delusa finché ci sarà un oggetto consolatorio che può, con la sua presenza, rinviare a tempo indeterminato la sua impossibile realizzazione. L’impostore é chi incarna questo oggetto ed è, tra coloro che si riconoscono nel bisogno dell’autoinganno, il meno vivo, il più determinato a persistere nella sostituzione degli oggetti perduti del suo desiderio con la facoltà di disporre di cose di cui ha smarrito la chiave di godimento. È il morto che inseguendo la vita che si é lasciato sfuggire ha l’illusione di esser vivo.

Berlusconi si è infilato in un vicolo cieco (come prima o poi succede a tutti gli impostori) ma siccome il vento dell’impostura continua a spirare forte non è sorprendente che il suo fantasma continua a stare con noi.

Parole d’esperto

Sarantis Thanopulos

 

Una donna di 31 anni presentatasi come “magra”, ha scritto a Pamela Stephenson Connolly titolare di una rubrica del Guardian, per dire che è attratta da uomini più anziani di lei e obesi che “più brutti sono tanto meglio è”. Fantastica che diversi uomini di questo tipo la “girino” l’uno all’altro. La eccita “l’idea di alzare i loro stomachi per cercare i loro peni che è sempre difficile trovarli e sono un po’ nel loro lato morbido”. La giovane donna, che ha una buona vita sessuale, si fa aiutare da questa fantasia per avere l’orgasmo. Tuttavia si sente colpevole e malata per cui non si è mai confidata col suo uomo.

La posizione di Stephenson Connolly, psicoterapeuta specialista nel trattamento dei disordini sessuali, è rassicurante: le fantasie sono private e la lettrice non é obbligata a condividerle con altri; non sono il prodotto di una mente malata ma “un esercizio creativo progettato per alleviare paure sessuali e un’immagine negativa del corpo”. Avviatasi sulla strada dell’approssimazione la specialista offre una sua teoria sulla genesi della fantasia della sua interlocutrice: “Gli uomini immaginati non sono pronti per far sesso. In qualche modo tu hai sviluppato un’eccitazione che ti tiene al sicuro cosicché nonostante sei “girata” tra di loro continui a mantenere il controllo. Può essere anche che la loro bruttezza ti aiuti a sentirti salva e sollevata dall’ansia di essere giudicata fisicamente tu stessa”. Pur tenendo conto dei limiti della consulenza a distanza e della necessità di una certa generalizzazione che consente a un esperto di comunicare con i tutti i lettori del suo giornale, è difficile non restare colpiti dalla banalità delle risposte date.

Tra gli “esperti della psiche” e i loro “utenti” si sta realizzando un cortocircuito che annulla l’efficacia della loro comunicazione. Al disagio si risponde con parole che servono a far sentire le persone che soffrono al sicuro, a tenere la situazione sotto controllo. Nulla è più rassicurante che usare parole e idee che sono di tutti, sguazzare nei luoghi comuni e nelle frasi fatte.”Basta che se ne parli”, sembrerebbe essere la tendenza in voga, perché poi funzioni ci pensa la divina provvidenza. La “talking cure” (la cura che parla), espressione inventata da Anna O. paziente di Breuer (amico di Freud e autore con lui degli “Studi sull’isteria”), non è un “parler pour parler”: dà parole alla sofferenza del desiderio, le offre la possibilità di un senso condiviso che, per prima cosa, destabilizza un discorso sociale impersonale che della sofferenza non sa rispondere e non sa cosa farsene e lo obbliga a riformularsi.

Dire che non siamo obbligati a condividere le nostre fantasie private con gli altri è solo un’ovvietà che serve a silenziare la domanda della lettrice del Guardian: la comprensione del senso di colpa che le impedisce di stabilire un’intimità vera con il suo uomo. Attribuire poi carattere di progetto creativo a una fantasia ripetitiva e statica in cui la protagonista cerca di tenere a bada, trasformandola in eccitazione, una situazione di sopraffazione da parte di uomini “brutti” (non desiderati) significa ignorare la sua difficoltà di sognare liberamente, a occhi chiusi o aperti, l’incontro con l’altro desiderato. La cosa veramente importante in questa fantasia, di cui si vede solo la superficie, è il punto in cui può aprirsi alla vita: il desiderio che persiste nella ricerca del suo oggetto al di là dei suoi aspetti sgradevoli e manipolativi (con il loro carattere sconfinante, eccessivo) e nonostante l’eccitazione che si prova a resistergli rendendolo mansueto, inoffensivo.

Gemelli per sempre

Sarantis Thanopulos

 

Milioni di persone sono rimasti incantati vedendo su You Tube il filmato di due neonati gemelli che si abbracciano mentre l’infermiera francese Sonia Rochel fa loro il bagno. A guardare bene il filmato la scena richiama in realtà sentimenti d’angoscia: l’abbraccio è un falso sapientemente costruito dall’infermiera che manipola i due piccoli corpi in modo da tenerli legati perfino quando terminato il bagno li avvolge in un asciugamano bianco, con un gesto finale che tradisce la costrizione di fondo (e fa apparire per un attimo il panno come sudario).

È nota la tendenza a enfatizzare la somiglianza dei gemelli (vestendoli, per esempio, in modo uguale) per esaltare l’importanza di un legame evidente di sangue. Questo atteggiamento potrebbe apparire incongruo visto il carattere perturbante del sosia che attiva la paura di confondersi con l’altro, perdendo la propria distinta identità. Sennonché l’accentuazione della gemellarità ha un significato apotropaico: esorcizza l’effetto perturbante del doppio, normalizzando il fantasma dell’indifferenziazione che lo determina. In fondo si tratta di una questione di giusta distanza tra sé e l’altro, di equilibrio tra il legame fondato sull’identificazione e la relazione costruita a partire dalle differenze. L’effetto perturbante, che testimonia il radicamento in noi del bisogno della differenza, difende quella lontananza dell’oggetto desiderato che tiene vivo il desiderio e lo rende lungimirante. L’investimento della gemellarità, il nostro aggrapparsi alle somiglianze, porta al consolidamento della consuetudine e al trionfo del già visto e del già vissuto che separa l’estraneo dal familiare e rende la presenza dell’altro omogeneizzante, consolatoria. Ma ogni cosa puramente consolatoria è falsa: ci protegge dalla verità della vita (che è indissociabile dal conflitto) e alimenta l’inerzia psichica (l’unica vera malattia dell’anima).

Le mani dell’infermiera che spingono i due gemelli verso l’abbraccio creano un consenso che non è rivolto in realtà al gesto forzato dei fratelli ma allo sguardo degli stessi spettatori consenzienti che vogliono vedere solo ciò che li consola, che per definizione non esiste realmente ma è un’invenzione. Va in scena una concezione della fraternità depurata dal dissenso e dalle divergenze, tutta piegata sull’uniformazione dei pensieri e dei vissuti e sull’illusione di solidità e di sicurezza che crea l’assenza di movimento. Nel filmato i due gemelli soffrono l’utero artificiale in cui sono di nuovo rinchiusi per esigenze, è il caso di dire, “sceniche”. Il loro corpi, le loro braccia si incontrano, si contrastano si evitano, si scontrano. Non sembrano tanto interessati l’uno all’altro ma alla conquista di spazio, alla definizione del loro movimento vitale.

L’idea dell’altro da sé è di là da venire (passerà prima attraverso la madre e solo il legame di lei con il padre la renderà realmente vivibile) e quando finalmente nasce l’amore fraterno esso non ha senso senza l’odio. L’abbraccio contiene l’odio della lotta: è la forza propulsiva dello scontro che facilita l’incontro che lo rende consistente, solido. Si dice che si odia solo chi si ama (o che si potrebbe amare) ma sarebbe più preciso dire che si ama solo chi si odia (o che si potrebbe odiare). La dissociazione dell’odio dall’amore affligge in modo evidente la nostra civiltà e non c’è modo peggiore di affrontarla che avvolgerla d’amore immaginario. C’è molta violenza nel nostro sguardo se quando non trova l’amore lo inventa e la perdita della capacità di sentirsi perturbati ci impedisce di comprenderlo.

Vittime e carnefici

Sarantis Thanopulos

Commemorando la strage di Nassiriya alla Camera la deputata del M5S  Emanuela Corda ha mostrato un coraggio che solo il candore che rifugge la falsità può imporre al buon senso dettato dalla prudenza. Con parole essenziali, che si addicono al lutto, ha ricordato accanto ai 19 italiani anche i 9 iracheni deceduti insieme a loro, arrivando a includere il giovane kamikaze: nel suo modo di vedere “anch’egli fu vittima oltre che carnefice». Uno sguardo che mette insieme le vittime ad esso più care e quelle più sconosciute e distanti è uno sguardo aperto al mondo, che rinuncia alla facile distinzione tra buoni e cattivi. Questa distinzione (uno steccato che allevia la nostra ansia) ci costringe a guardare il muro della caverna di cui siamo prigionieri, incapaci di vedere in presenza della luce (secondo la metafora di Platone). Anche la più evidente delle verità è invisibile nel buio: la nostra classe politica intenta a guardare per terra, cercando di evitare le bucce di banana, non riesce più a vedere, come si suol dire, oltre la punta del suo naso.

Il discorso di Corda ha scatenato proteste indignate segnate dall’inganno della semplificazione: “I kamikaze erano assassini e basta”. Il più retorico è stato il democratico Giacomo Portas che ha invitato Corda a guardare in faccia i parenti delle vittime italiane. Questo abuso del dolore altrui ha costretto Corda (criticata all’interno del suo stesso movimento) a chiedere scusa. Ai parenti delle vittime bisogna offrire, oltre che  solidarietà (la condivisione della sofferenza), una risposta che dia senso alla loro (nostra) perdita, che renda comprensibili e emotivamente gestibili le cause di un disastro, e non un’idealizzazione del sacrificio che ci allontana dalla vita vera.

Dire che i kamikaze sono assassini non basta, limitarsi a questo non serve a nulla. Cosa significa in un mondo sempre più globalizzato e sempre più diviso (una contraddizione a cui prestiamo poca attenzione) che una parte consistente del movimento islamico sia prima diventata un nostro nemico, poi dimora privilegiata del fanatismo religioso e, infine, terreno di cultura di atti criminali folli? Vivendo in sempre maggiore contiguità con altre culture non può che destare preoccupazione il fatto che questa contiguità è tutt’altro che scambio e prossimità ma degenera in riserva reciproca e separatezza. Di ciò che lasciamo correre abbiamo l’intera responsabilità specie se l’indifferenza ci fa cogliere impreparati dalla violenza. Il carnefice è agito dalla violenza di cui egli è la prima vittima e limitarsi a condannarlo senza riconoscere la nostra responsabilità nella produzione della violenza che l’ha plasmato, significa rifugiarsi in un vittimismo forgiato dall’insincerità che toglie autorevolezza e senso alla nostra condanna.

Dire che il kamikaze di Nassiriya è carnefice ma anche vittima è dire (auspicare) che il suo gesto non è irreversibile che la malattia che l’ha creato si può curare. Se il nostro vicino nel mondo multiculturale in cui dimoriamo diventa il più perfetto e irrecuperabile degli estranei la nostra vita diventa calcolo coperto dai falsi sentimenti. Siamo tutti nudi e bisogna decidersi se la nostra nudità è ferita narcisistica che dobbiamo coprire con la falsità (la nudità sotto vestiti immaginari) o se è esposizione all’altro e alla vita (spogliarsi delle riserve).

Esporsi è un rischio ma non è qui che sta in agguato il carnefice (anche se questo è il luogo in cui lo colloca la nostra diffidenza). Il carnefice passeggia in mezzo a noi: gli fa strada la nostra ipocrisia.