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La mente “incarnata”

L’uomo passa, nel corso dello sviluppo, da un tempo sensoriale, autoreferenziale, onnipotente, circolare, ad un tempo lineare, relazionale, aperto alla tolleranza della frustrazione.

Con la nascita vive una prima cesura che è contemporaneamente separazione dall’unità originaria e incontro con una realtà altra, con gli stimoli di un mondo che chiama alla nascita di una mente a partire da un corpo. Lo sviluppo del cervello non è solo una questione biologica, ma è strettamente correlato alle emozioni e agli aspetti somatosensoriali che il bambino sperimenta dai primi momenti della sua vita.

L’incontro della sua unicità di essere umano con l’ambiente determina un vissuto che si inscrive nelle trame della memoria condizionando le esperienze successive e la possibilità dell’emergere di una capacità di simbolizzazione e di mentalizzazione.

Con la nascita di un pensiero e la formulazione di un linguaggio, dalla rappresentazione di cosa si passa alla rappresentazione di parola, ma non tutto può divenire pensiero e prendere forma.

Freud identifica l’origine della mente nella risposta precoce alla mancanza originaria di un oggetto che soddisfi immediatamente il bisogno. Non è l’immediato né l’identico che genera la mente, ma l’attesa e la differenza, attesa e differenza che tuttavia non devono aprire una voragine di frustrazione e angoscia, ma rimandare ad un altrove che rimane raggiungibile nel tempo e nello spazio.

Solo nell’assenza ciò che manca, ciò che non è, può divenire pensiero e può generare la funzione per pensare, ma deve essere un’assenza piena di fiducia, basata sull’esperienza precoce di una soddisfazione differita e imperfetta, ma comunque possibile. Se questa esperienza non è avvenuta il corpo può divenire il luogo in cui un sintomo parla al posto di una voce e di un pensiero.

La sensazione di possedere un corpo e una mente che consentano di accedere pienamente all’esperienza della vita non è scontata e può essere ostacolata da traumi precoci, rapporti con oggetti assenti o patologici. La frattura che può crearsi tra corpo e mente lascia il corpo prigioniero di sensazioni scisse e persecutorie e impedisce l’accesso alla realtà esterna e alla relazione con l’altro.

Charmet spiega come un corpo saturo di proiezioni, estraneo e separato da sé, mai utilizzato, sentito come un oggetto non integrato, né mentalizzato, può divenire il luogo in cui si esprime il conflitto. Proprio questa difficoltà di integrazione talvolta rende presente solo un aspetto parziale della corporeità, come nel caso del “corpo alimentare” letto esclusivamente come “grasso o magro”. Un corpo che può divenire un contenitore di affetti spostati, luogo della dismorfofobia e del rifiuto.

Solo una mente “incarnata” può svilupparsi verso un pensiero creativo, astratto e simbolico.

Crescere, dunque, significa rinunciare all’immediatezza del rapporto con il reale, rinunciare a quello che Kluzer chiama il “dono innato della veggenza” che permette di ripresentificare ciò che non è più o di far sparire ciò che non vogliamo. Ma rinunciare alla veggenza non significa perderla completamente. Una sua quota rimane, accanto a modalità di funzionamento più evolute, manifestandosi nel sogno, nel gioco, nel sintomo, garantendo una mediazione tra sensorialità, percezione, inconscio e linguaggio.

Crescere significa rinunciare all’autarchia e all’allucinazione non condivisibile, attraverso l’accettazione dell’assenza e della perdita, con la consapevolezza che non tutto può essere significato.

Costa precisa che essere in relazione con l’altro significa avere esperienza dell’altro inteso come “uno come me, altro da me”, un altro che “come me pensa, come me sente, ma che non pensa come me, non sente come me”. La forma dell’incontro è infatti basata sulla differenza.

La relazione non deve rimanere chiusa in uno scambio costante e monotono, che satura, ma aprirsi alle variazioni e ai cambiamenti che favoriscono lo sviluppo e un rapporto sempre più mobile e complesso riscoprendo il corpo quale strumento di conoscenza. La percezione dell’altro avviene a partire dalla periferia del corpo, presso la quale accadono molte più cose di quelle concesse dal pensiero razionale. L’elaborazione che la mente produce non è che una trasformazione di questo anteriore incontro con il mondo esterno. Incontro che, come evidenzia Paliard, è sempre imperfetto, insaturo, dominato dall’equivoco, in cui la realtà non è mai data una volta per tutte.

Ma è comunque sempre a partire da un corpo in relazione che una mente può avere origine. E’ infatti necessario l’incontro con un altro disponibile ad esserci per evitare la possibile catastrofe del nascere in un terrifico vuoto di presenza e di rappresentazione. Un “altro” inizialmente indifferenziato, esperito in un rapporto di fusionalità e rispecchiamento, poi sempre più “altro” attraverso l’esperienza di una discontinuità e di una differenza dolorose, ma necessarie, per la nascita di un sé e di un pensiero.

La mente nasce da una differenza sostenibile, la parola emerge da un silenzio, il simbolo stesso presuppone un’assenza. Ma le prime sensazioni devono essere significate, alcuni aspetti del mondo esterno devono essere interiorizzati, l’assenza deve divenire tollerabile affinché lo sviluppo possa proseguire.

L’incontro con l’altro, e con se stessi, può avvenire solo nella realtà, nell’accettazione della differenza, imprescindibile per la definizione della propria identità, e nella fiducia di un oggetto imperfetto, ma “reale”.

Prisca Ravazzin

Le quote azzurre di Dio

 Sarantis Thanopulos

È tornata al centro della scena politica la questione delle quote rosa solo per affondare ingloriosamente. Ci saranno lunghi strascichi ma è chiaro che la maggioranza degli uomini è ostile. Del resto molte donne sono ugualmente contrarie perché preferiscono affermarsi per conto proprio e non di certo accontentarsi delle elemosine che vengono dalla politica. L’orgoglio femminile è più comprensibile dell’egoismo maschile ma sulle quote rosa ragioni ideologiche confuse rischiano di avere la meglio sulla ragion pratica. Si dimentica, per fare un solo esempio, che le quote riservate agli studenti neri nelle più prestigiose università americane hanno aperto un varco importante nel muro di una discriminazione granitica che sfidava l’umanità stessa degli esseri umani.

Non viviamo in un mondo ideale in cui donne e uomini hanno eguali possibilità di rappresentare gli interessi comuni e di gestirli. Viviamo invece nella più netta diseguaglianza: senza quote rosa le percentuali della presenza delle donne nella vita politica (soprattutto nei ruoli più importanti) scende a cifre ridicole di cui dovremmo vergognarsi (se solo ne fossimo capaci). Si parla delle quote rosa come atto di riparazione normativo e arbitrario, che sopraffà la competenza e il merito, rimuovendo le quote azzurre. Non esiste  cosa più normativa della supremazia indiscussa della presenza maschile nei posti di responsabilità: un privilegio assoluto che non poggia sul merito ma che, al contrario, preclude a priori alle donne la possibilità di sviluppare liberamente la loro bravura.

Il valore normativo della discriminazione legata alla differenza di sesso poggia sull’assunto ideologico del Padre come fondamento della Legge. L’enorme consenso che le religioni riscuotono  non è per nulla intaccato dalla posizione assurdamente subalterna che continuano ad assegnare alla donna, in barba alla modernità. Perché le donne non si ribellano nei luoghi della vita politica e del culto contro le quote azzurre della norma di Dio (che domina silenziosamente anche le istituzioni più laiche)? Una risposta rigorosa richiederebbe una ricerca complessa (mai tentata) ma si possono individuare alcuni fattori. In primo luogo c’è una tendenza tra coloro che sono soggetti a discriminazioni consolidate e sono privi storicamente di un’organizzazione efficace a identificarsi inconsciamente con chi li discrimina. Rifiutano i propri valori considerandoli perdenti e smarrendo parte della loro identità non possono sostenere il confronto.

L’emancipazione della donna dalla sudditanza culturale e psicologica nei confronti dell’uomo sembra inarrestabile ma ci sono punti problematici di cui sarebbe meglio tener conto. A causa della loro maggiore intensità le donne sono riluttanti a impegnarsi in un conflitto di potere con l’oggetto desiderato e dànno un sostegno involontario a un’organizzazione sociale che in mille modi scoraggia la solidarietà femminile. Il punto più difficile da comprendere (e anche la questione più difficile da risolvere) è che essere donna fa paura non solo agli uomini ma anche alle donne stesse. Apparentemente più conservatrice sul piano politico la donna nella sua più profonda e intima verità rifugge le norme e l’ipocrisia sociale perfino quando si vestono di progressismo. Non è una cosa facile da vivere mentre gli uomini sguazzano nelle convenzioni.

Un’immedesimazione con l’uomo può comportare grandi vantaggi sociali e molte donne stanno scoprendo che in questo campo possono essere molto competitive. Non hanno effettivamente bisogno di quote rosa per questo, è più efficace vestirsi d’azzurro.

Donne e uomini alfa

 Sarantis Thanopulos

Le streghe non son tornate: al loro posto sonno arrivate le donne alfa. Hanno un appeal meno inquietante delle streghe ma sono piuttosto insipide e (ahimè) poco ammalianti. Osservate dal punto dell’Eros sono un’espressione del Thanatos, viste nella prospettiva di Alison Wolf, economista del King’s College di Londra, “sono donne intelligenti, colte, benestanti che ricoprono lavori che un tempo erano appannaggio esclusivo degli uomini con la stessa frequenza e in condizioni di parità”. Conclusione disarmante: “Le grandi donne sono accanto ai grandi uomini”

Le donne alfa sono la spensierata riproposizione in campo femminile di un concetto volgare (o ameno, dipende dalla prospettiva) ma supposto scientifico: il maschio alfa, animale dominante tra gli animali e, per gentile concessione, anche tra gli esseri umani. Elisabetta Ruspini, esperta del campo, ha indicato tre anni fa come tipico esempio di questo genere Berlusconi: “uomo tenace, caparbio, pragmatico, che si è fatto da solo, che ha successo con le donne, che fa anche dello humor”. Questa sullo humor ce la poteva risparmiare ma l’amore è cieco, si sa.

I maschi alfa esistono: hanno paura delle donne e fanno tutto il possibile per evitare un vero contatto con loro. Che gli uomini abbiano una certa (variabile) paura nei confronti delle donne è fatto risaputo e di per sé non è esecrabile. L’erezione del desiderio richiede per l’uomo una capacità femminile di coinvolgimento profondo (perdersi) e questa può essere in parte acquisita mediante identificazione ma l’equilibrio non è facile perché è comunque necessario un appoggio al corpo e al desiderio della donna. Le identificazioni incrociate tra gli amanti sono importanti nell’incontro erotico ma perché lo scambio funzioni la differenza tra di loro deve essere garantita. La donna resta il referente di una qualità erotica di cui l’uomo solo fino a un certo punto può appropriarsi e la sua partecipazione coinvolgente è indispensabile. In assenza di una reale disponibilità della donna il rischio per l’uomo è un’erezione/eccitazione senza reale godimento perché manca il coinvolgimento o un’identificazione con l’esitazione della partner che blocca l’erezione. Si può preservare l’erezione, propendendo per un godimento di superficie e fregandosene di quello che l’oggetto desiderato vuole e fa, ma l’invidia nei confronti della profondità femminile favorisce un’inconscia paura di castrazione e rinforza la a pretesa di una soddisfazione autarchica. Ci si sente tanto più virili quanto più si può fare a meno di amare una donna, anche per un’ora sola, e  desiderando tutte e nessuna si sceglie un destino poligamico in apparenza e a-gamico nella sostanza.

Ci sono donne che ammirano questo tipo di uomo: hanno paura di essere femminili e trovano nei maschi che rinunciano ad essere uomini e amarle il loro modello di un’autosufficienza miserabile ma immaginata potente. Le donne alfa devono stare con uomini alfa dice Wolf che aggiunge:”ci sono cose peggiori che essere single, tipo frequentare un uomo Omega”. Uomini omega, il più basso scalino sociale, sono gli sfigati: non animali dominanti ma domestici.

Dagli uomini e dalle donne alfa si salvi chi può. La loro inconsistenza sul piano di un ragionamento scientifico non impedisce una loro consistenza sul piano della perversione del desiderio come accade con il razzismo che persiste alla demolizione delle sue insostenibili argomentazioni. D’altro canto cosa sono gli arzigogolamenti  sugli esseri alfa se non una forma velata, ma virulenta, di razzismo che sostituisce l’amore per la differenza con la differenza tra eletti e reietti?

Il desiderio e i disagi nella civiltà

Sarantis Thanopulos

Il libro “Nuovi disagi nella civiltà”, è un dialogo stimolante e rigoroso di Francesca Borrelli, che ne è la curatrice, con Massimo De Carolis, Francesco Napolitano e Massimo Recalcati. La passione che lo anima pone questioni vere, lontane dalla desolazione dei dibattiti sul nostro presente che ignorano il passato e inventano il futuro. Ha senso parlare oggi del disagio psichico così come Freud l’ha definito o ci troviamo di fronte a nuove forme più insidiose di malessere? E se il lavoro della morte (che Freud per primo aveva intuito), diventato manifesto attraverso due guerre mondiali e la Shoah, ha ripreso a crescere, dopo l’illusione di una sua estirpazione, diffondendosi in silenzio, possiamo continuare a ignorarlo nelle nostre analisi della crisi che ci affligge e alla quale nessuna riorganizzazione di superficie può porre rimedio?

Il cambiamento nel campo del disagio psichico è evidente. C’è un uno spostamento innegabile del dolore verso l’orizzonte melanconico dell’isteria: il luogo in cui l’altro amato/odiato rischia di precipitare nel nostro mondo interno in un abisso di perdita irreparabile. Ciò mette in gioco il narcisismo -l’uso consolatorio di un oggetto ideale come specchio di sé- e sostituisce il senso di responsabilità (il rispetto dell’altro desiderato) con un senso di colpa improprio (colpa di desiderare, di amare). Questo senso di colpa è minato dalla vergogna (la ferita dell’amor proprio e il senso di inadeguatezza a cui espongono le delusioni quando l’idealizzazione viene smentita dalla realtà) e non crea nessuna riparazione ma una tendenza verso l’evasione, la distrazione dalla propria interiorità.

Dietro il disinvestimento della vita reale Freud aveva visto la pulsione di morte ma non è necessario scomodare una tendenza biologica alla distruzione per spiegare la paralisi psichica che sottende la nostra civiltà. Questa paralisi, che produce violenza senza passione per nascondere la sua illegittimità, deriva da un processo sociale di sclerotizzazione della relazione di desiderio. La relazione del desiderio in sé stessa non è cambiata: ciò di cui necessitiamo è un modo nuovo di vederla se vogliamo comprendere e fronteggiare la malattia (psicosociale) che la altera. Possiamo ancora vedere l’amore per l’altro come “desiderio di essere desiderato “, secondo Hegel (e Lacan), senza ingabbiare il senso del godimento (e del coinvolgimento) nel contratto sociale?

Nel suo nucleo originario e irriducibile alle ragioni dell’altro, il nostro amore è “spietato”: insegue il godimento (la soddisfazione profonda del desiderio) e ignora la soggettività dell’oggetto desiderato, che lo rende autonomo da noi. Quando questa pretesa è delusa si mantiene vivo sotto forma di odio. A un secondo livello (radicato nel primo) riconosciamo che è l’odiata soggettività dell’altro, la libertà del suo desiderio (la possibilità e il bisogno di amare altro da noi), a renderlo vivo è desiderabile, e desideriamo che sia desiderante e non semplicemente che ci desideri. L’amore è desiderare di essere desiderati da un altro che essendo desiderante desidera anche altro da noi: questa è la condizione perché un vero godimento (che esige un partner vivo perché libero) possa diventare possibile.

Questo amore che definisce  il contratto sociale (invece di essere definito da esso) rientrerebbe in forma emendata nel discorso di Hegel, se Proust non ci avesse orientati verso un’altra possibilità: l’amore è desiderio della tensione tra l’essere e il non essere desiderati (tra la certezza e l’incertezza di esserlo). Che posto ha questa tensione (che è libertà) nella nostra epoca?

Io speriamo che me la cavo

Sarantis Thanopulos

Ezio Mauro in un recente editoriale dopo aver elencato lucidamente una serie di motivi che facevano disperare sul futuro del governo che stava nascendo, concludeva che, proprio per questo, Matteo Renzi era condannato a far bene. Come dire che un medico, che manifestamente non sa che pesci pigliare, sia condannato, perché non può fare altrimenti, a salvare il suo paziente. Non potendo scappare dall’ospedale, come sicuramente l’ipotetico paziente avrebbe fatto, gli italiani potrebbero essere tentati a assecondare la conclusione paradossale di Mauro. In realtà tutti nel loro intimo sanno bene che dal nuovo governo e dall’attuale situazione politica (Berlusconi, Renzi, Grillo) non ci si può aspettare nulla di buono come, più o meno, dalla polmonite. Nessuno, anche il più incallito degli ottimisti, scambia la malattia con il rimedio e la rassegnata speranza di resurrezione nasconde appena il ragionevole pessimismo collettivo.

L’idea che gli italiani siano tradizionalmente alla ricerca dell’uomo della provvidenza (diventata un luogo comune) non è credibile: nessuno degli uomini che ha preteso di incarnare in sé l’avvenire del paese ha mai ottenuto una vera maggioranza di consensi. Ci si avvicina di più alla comprensione della realtà attuale rispolverando un libro di venticinque anni fa: “Io speriamo che me la cavo” di Marcello D’Orta. Il titolo del libro, una presentazione di temi scritti dai bambini di una scuola elementare della provincia di Napoli, è dato dalla frase con cui uno degli alunni conclude un suo tema sulla “fine del mondo”. Il libro era stato presentato all’epoca come genuino spaccato di una realtà difficile vista con gli occhi dei bambini, in cui, nonostante la corruzione, la camorra e l’abdicazione dell’autorità statale, l’onestà e la dignità continuavano ad essere dei valori pur tra mille contraddizioni e difficoltà.

Riconsiderandolo oggi, quando i suoi protagonisti di allora sono diventati adulti e con il senno di poi, il suo senso si rivela diverso: speranza di una salvezza personale avulsa dalla prospettiva di un riscatto collettivo -reso inverosimile dal clima di stagnazione che col passare degli anni si esteso dalla periferia di Napoli e dal sud a tutto il paese. Nulla può rappresentare meglio l’atteggiamento psicologico degli italiani nei confronti della paralisi permanente in cui vivono da parecchio tempo, di questo narcisismo di sopravvivenza che, sotto la superficie della delega irragionevole al demagogo di turno, funziona come argine contro l’angoscia di un drammatico sconvolgimento della loro vita.

La dissoluzione progressiva dei legami dei cittadini con la polis e la loro trasformazione in individui coltivatori del proprio giardino, che sottende l’investimento narcisistico del futuro, vanno di pari passo con la convinzione che la soluzione della crisi verrà da sviluppi esterni alla loro volontà, sui quali non possono influire. Come nelle epidemie, nelle carestie e nelle guerre si fa ricorso all’esperienza, direttamente vissuta o trasmessa dalle generazioni precedenti, dell’alternarsi della cattiva e della buona sorte e si aspetta il sole dopo il diluvio con l’auspicio che ciascuno fa per conto suo che non tocchi proprio a lui affogare.

C’è del buono in questo atteggiamento (che esprime fiducia nel mondo in cui si vive e nel suo avvenire e proietta il singolo individuo oltre le avversità) ma a parte il fatto che è meglio prevenire le catastrofi invece di aspettare la loro fine, bisogna pure essere consapevoli che nel persistere nell’attesa di tempi migliori si raschia il fondo del barile.

Voyeurismo contro Dr House

Sarantis Thanopulos

La competenza dei medici in Germania è alta. Ciò non ha impedito a un cittadino tedesco di rischiare la morte dopo una serie di errori diagnostici impressionanti. Soffriva di grande affaticamento ma i vari medici a cui si era rivolto non riuscivano a individuare il suo problema. Al sopraggiungere di un progressivo deterioramento della vista e dell’udito, è stato operato di cataratta e gli é stato prescritto un apparecchio acustico. Il quadro clinico ha continuato a peggiorare ma i medici non riuscivano a collegare tra di loro le diverse declinazioni di un malessere fisico oscuro. Quando la pompa cardiaca è arrivata a funzionare solo a un quarto della sua potenza l’uomo si è rassegnato all’idea di un trapianto.

Qui è entrato in scena Jűrgen Schäfer, un cardiologo di Marburg appassionato della serie televisiva Dr House. Schäfer si è reso conto che il caso somigliava in modo impressionante a quello di un paziente di Dr House curato per avvelenamento da cobalto. Gli esami hanno confermato la presenza di altissimi livelli di cobalto nel sangue e nei tessuti dovuti alla rottura di una protesi all’anca impiantata anni prima.

La storia del paziente tedesco è una metafora efficace della parcellizzazione delle visuali di cui soffriamo. Questa parcellizzazione è il cobalto che intossica la nostra esistenza, che impoverisce la nostra comprensione (offuscando la nostra vista e ottundendo il nostro udito e le nostre sensazioni) e fiacca il nostro senso della vita (riducendo drammaticamente la potenza del desiderio dentro di noi).

Il tramonto delle teorie/prospettive teleologiche (conseguenza di una giusta critica a modelli astratti che imprigionano in schemi predefiniti la vita reale) ha portato via con sé non solo la finalizzazione predefinita dell’esperienza ma anche la possibilità stessa di una finalizzazione. Eppure il gesto dell’artista che abita in ognuno di noi se da una parte non può creare nulla di vero quando cerca di riprodurre un oggetto ideale che lo precede, dall’altra non approda a nulla se a un certo momento le diverse prospettive che lo animano non prendono la strada di una loro connessione che le fa convergere verso il punto in cui la potenzialità diventa finalità, direzione verso una forma. Il riduzionismo che domina la nostra concezione della realtà è l’accostamento di sguardi isolati non comunicanti la cui molteplicità (scambiata come ricchezza di approcci) dà la falsa impressione di una visuale globale.

Dr House rappresenta per il nostro immaginario l’amore per le connessioni che stiamo smarrendo: il suo sguardo clinico che predilige la complessità è carico di passione conoscitiva che rinunciando all’ottimismo della volontà (la perseveranza nel battere la testa contro il muro) trasforma, a ragion veduta, il pessimismo della ragione in fiducia nella verità. Il suo personaggio ci piace perché rimette in movimento la nostalgia di Sherlock Holmes, il ricordo di un mondo in cui l’intelligenza compiaciuta della sua capacità investigativa ma legata al senso di responsabilità amava espandere la comprensione del mondo senza ambizioni di potere.

In antitesi al Dr House si aggira nel nostro paese un giornalista abusivo che va in giro a praticare la forma più illegale (e impunita) delle intercettazioni: carpire con l’inganno (fingendo un’identità che non ha) i pensieri privati altrui. È la personificazione del voyeurismo che ispira la frammentazione del nostro sguardo sulla realtà: il piacere di penetrare, violare lo spazio dell’invisibilità che falsificando il legame con la conoscenza rende falsa anche l’identità del soggetto investigante.

La cruda stupidità

Sarantis Thanopulos

I rigurgiti xenofobi in Svizzera, il confronto incomprensibile delle forze politiche italiane su riforme che prescindono dall’oggetto da riformare (e di cui l’unica cosa che si sa è la scritta “wanted” su un foglio bianco), i sermoni quasi quotidiani con cui il ministro tedesco Schauble rivolge ai greci ammonimenti alternati con incoraggiamenti (egualmente privi di un reale significato), hanno una cosa in comune (forse tutto sommato non viviamo nel regno dell’assurdo). La cosa in comune è la cruda stupidità a cui sono condannati gli esseri umani quando si rompe il loro legame con la cultura.

Questa affermazione può sembrare azzardata: non tutti gli xenofobi svizzeri sono incolti, la maggior parte dei politici italiani è sufficientemente istruita e sicuramente Schauble avrà riccamente fruito della grande cultura tedesca. Ugualmente azzardato sembrerebbe supporre che la folla che da qualche parte e in qualche epoca assisteva impassibile allo spettacolo di un re che camminava nudo per strada fosse più ignorante del bambino che ha rotto l’omertà di uno sguardo collettivo. Si sarebbe tentati piuttosto a pensare che in quella circostanza fosse in gioco la spontaneità, l’innocenza degli occhi infantili. Eppure lo sguardo di quel bambino non era uno sguardo vergine ma uno sguardo colto.

Siamo abituati a confondere, un po’ pigramente, il sapere con la cultura mentre, in realtà, la cultura è ciò che connette il sapere con il desiderio e il piacere di vivere. Un bambino che connette l’esperienza conoscitiva elementare di cui dispone con la sua voglia di vivere ha una capacità di giudizio più incisiva di un adulto che usa il suo sapere per difendersi dalla vita. Della cultura si possono dare diverse definizioni ma la sua funzione essenziale è quella di espandere il piacere dei sensi oltre i confini della pura sensorialità senza, tuttavia, tradirla. Questo richiede un uso valorizzante degli oggetti desiderati che implica il rispetto della loro intrinseca natura e consistenza.

È difficile nel bagliore tecnologico in cui viviamo, che ottunde i nostri sensi, accettare l’idea che la mortificazione costante di ciò che desideriamo rende il sapere manipolativo e la nostra vita sterile e istupidita nella sua ansia iperproduttiva. La complessità delle ragioni che ci stanno portando a vivere senza cultura può scoraggiare la ricerca di soluzioni e pavimentare la strada della rassegnazione ma esiste un punto in cui la messa a fuoco dell’intero problema assume una certa chiarezza: la rottamazione del passato produce una rottamazione della cultura. La rottamazione del passato è l’opposto della sua trasformazione/rivoluzione che fa della storia una cosa viva. Mentre la rivoluzione del passato è l’opera di una cultura che si rigenera nelle cesure della storia e dischiude la porta al futuro, la rottamazione produce roba riciclabile o materiale inerte che solidifica l’esistenza ostacolando il suo movimento.

Nei rottamatori dietro l’apparente odio per il vecchio è nascosta un’inconscia necrofilia: l’ossessiva rimessa in circolo delle cose scadute del passato che hanno esaurito il loro potenziale di uso. L’arte del riciclaggio, della riconversione (per usare un’espressione più nobile) sta diventando un valore importante nei nostri giorni, il che è del tutto comprensibile data l’enorme quantità di materiali inutilizzabili che stiamo accumulando. Fino a che punto siamo disponibili a riconoscere che questo supposto valore è il risultato di un intasamento culturale e psichico che ci sta narcotizzando, fino a farci apparire il giardino dei luoghi comuni come terra promessa?

Gli psichiatri non sanno ridere

Sarantis Thanopulos

 

Sul British Journal of Psychiatry è stata pubblicata una ricerca sulla correlazione tra gli attori comici e quattro aspetti di personalità: esperienze inusuali (pensiero magico, credenze nella telepatia e nei fenomeni paranormali, esperienze percettive anomale), difficoltà nel mettere a fuoco i pensieri o distraibilità, elusione di intimità, tendenza verso comportamenti impulsivi e antisociali. Secondo i ricercatori dai dati raccolti emerge un’impressionante somiglianza tra gli elementi creativi necessari a produrre comicità e gli elementi che caratterizzano lo stile cognitivo di soggetti che soffrono di schizofrenia o di sindrome maniaco-depressiva. La schizofrenia lieve faciliterebbe il pensiero anticonvenzionale; il pensiero maniacale favorirebbe la formazione di originali connessioni umoristiche delle idee.

Questo studio che fa suo lo stereotipo del legame tra psicosi e creatività mostra lo smarrimento d’identità che affligge la psichiatria dopo la rescissione temeraria del suo legame con la psicoanalisi e la fenomenologia. Oggi la psichiatria da una parte appare appiattita sulla psicofarmacologia e dall’altra parte si trova confinata nello spazio di una ricerca empirica priva di orientamento e complice di una attività classificatoria ossessiva e sterile. Perduta la propria cultura insegue affannosamente letture del comportamento basate su criteri vaghi e disinvoltamente applicati su campi di esperienza molto dissimili e crea correlazioni e schemi di pensiero che ingabbiano l’esperienza vissuta. La vocazione alla reclusione delle istituzioni psichiatriche è tornata in auge in modi più sottili e pervasivi che nel passato.

La psicosi non è fonte di creatività: è la sua morte. Si continua con perseveranza a scambiare la psicosi con la follia in barba all’esperienza clinica (con la quale molti psichiatri di oggi hanno scarsa dimestichezza). La follia è il ritorno della passione e della creatività (un processo dinamico e non un modo inusuale di pensare statico e caratterizzante una determinata personalità) con cui il soggetto caduto nel vuoto psicotico cerca di riparare la perdita di senso che ha colpito la sua esistenza. Nel pensiero maniacale c’è una dispersione della creatività: la rapidità delle associazioni è tale da impedire la fertilità delle loro connessioni. La mania è un aborto della creatività e l’euforia che produce è una droga interna che, come Freud ha intuito, si basa sul risparmio psichico ottenuto col venir meno delle inibizioni.

Il risparmio psichico ottenuto con l’eccitazione maniacale, che allontana il soggetto dal coinvolgimento emotivo profondo, è diverso da quello che è all’origine della comicità e trasforma l’energia resa libera in riso. Questo secondo tipo di risparmio non annulla il coinvolgimento ma lo connette (per usare parole di Freud) “allo stato d’animo della nostra infanzia, nella quale non conoscevamo il comico, non eravamo capaci di motteggiare e non avevamo bisogno dell’umorismo per sentirci felici di vivere”. La creatività nella produzione della comicità ha a che fare con la libertà di esplorazione e di sperimentazione del gioco infantile la cui riappropriazione da parte dell’adulto favorisce l’elaborazione del lutto. La scoperta del lato comico delle cose non è evasione dal dolore della perdita ma apertura alle possibilità insospettabili di ritrovamento dell’oggetto perduto che la vita offre. Gli psichiatri britannici che hanno cercato la creatività nel luogo in cui essa è negata risentono della fascinazione farmacologica e, senza esserne consapevoli, concepiscono la comicità come droga.

Storia di ordinaria infelicità

Sarantis Thanopulos

 

Una donna ha congelato il cadavere di sua madre nel freezer di casa e si è comportata per quattro anni nei suoi rapporti con il mondo esterno come se la madre fosse ancora viva. Non le è stato difficile: è una di quelle persone in cui la solitudine appare come marchio del destino che scoraggia gli interrogativi degli estranei.

Quando recentemente la verità è stata scoperta la donna si è giustificata dicendo che non avendo altre risorse per vivere non aveva altra scelta che continuare a percepire la pensione della madre. Non è una motivazione da poco: congelando la morte della madre ha continuato ad avere una casa privata e a nutrirsi lontano dalla promiscuità delle tavole della Caritas. É sopravvissuta psichicamente con il minimo di conforto materiale che le condizioni oggettive le consentivano. L’alternativa sarebbe stata il suicidio. Vivere con il cadavere della madre nel proprio congelatore può sembrare inimmaginabile, assurdo ma non a chi vive già nel congelamento parziale del suo legame con la vita.

La nostra concittadina ha messo nel congelatore la madre, nel momento in cui il suo cadavere stava già in decomposizione, in accordo con il fatto che il loro rapporto era da sempre sospeso dentro di sé perché fin dall’inizio ipotecato dal fallimento. Il bambino sospende il rapporto con la madre quando la naturale imprevedibilità del suo desiderio invece di coinvolgerla la mette in crisi. Crea una madre inaccessibile e in questo modo la difende da sé stesso. Congelare il corpo della madre già in disfacimento, che riattiva l’antica paura di un’eclissi inesorabile e la rabbia per l’abbandono, significa proteggerla trasformando la sua liquefazione in ghiaccio. Tuttavia il congelamento non è solo compattamento, è anche conservazione, dilazione del uso dell’oggetto in attesa di un futuro migliore.

Un gesto folle sul piano reale mantiene la speranza sul piano del sogno, una speranza flebile che basta per sopravvivere. C’è vita soggettiva (seppure nascosta) nell’agonia sospesa di chi è finito ai margini della società che è, invece, assente nell’indifferenza nei confronti dell’emarginazione mostrata da chi decide i destini della collettività. Dell’ordinaria infelicità (che è parte riconosciuta del paesaggio sociale e non fa scandalo) non si teme lo squallore ma la domanda di cura che, pur nella rassegnazione, veicola. Che sempre più gente finisce nell’indigenza non crea una vera inquietudine, una consapevole ribellione. La domanda di attenzione, di solidarietà e di cura non ha dalla sua parte i numeri. O, per essere più precisi, resta inascoltata quando la vita si misura in termini quantitativi e la qualità dell’esistenza è un’aspirazione irrealizzabile, l’opzione ingenua dei disadattati.

Il potere assoluto, l’arbitrio che diventa legge, ha il suo regno dove l’agire umano diventa manipolazione pura di numeri. La pretesa che il calcolo, l’obiettività pura, sia il canone della vita è l’ambizione tanto determinata quanto compulsiva di uomini totalmente privi di scrupoli che facendo del dominio degli altri la loro ragion d’essere cercano di portare le relazioni sociali nello spazio a loro più propizio: la negazione dell’esperienza soggettiva. Sono l’incarnazione del capitalismo nella sua nuda essenza e con la desoggettivazione dell’esperienza, che compulsivamente promuovono, portano l’umanità all’azzardo, al dominio del caso sulla necessità. Sembra che di questo non vogliamo sapere niente (il cane si morde la coda): gli scrupoli diventano rassegnazione quando le ragioni soggettive dell’esistenza sono duramente sconfitte.

Stato di eccezione

Sarantis Thanopulos

 

Le offese sistematiche rivolte a un ministro a causa del colore della sua pelle sono l’ennesimo segnale inascoltato del declino del nostro paese. In un paese psichicamente sano questa violazione dei diritti di un cittadino e, al tempo stesso, della dignità delle istituzioni democratiche sarebbe stata sanzionata severamente.

Da noi tutto è permesso perché le cose hanno perso la loro caratterizzazione e specificità per ragioni di necessità che nessuno sa chi ha stabilito. L’accidia che soggiace al fervore dei cambiamenti sperati offusca la nostra vista. A dispetto delle motivazioni addotte l’accordo tra Renzi e Berlusconi è frutto degli inganni che questo offuscamento promuove. Solo dove l’immobilità, travestita da necessità, detta le regole è possibile che un cittadino sia elevato al di sopra dell’ordinamento giuridico diventando oggetto di un trattamento di eccezione che lo rende diverso dagli altri di fronte alla legge.

Oggi il nuovo che avanza fa in fretta a logorarsi. Perfino quando difende principi importanti e giusti lo fa a prescindere dall’insegnamento della storia: le buone intenzioni finiscono nel nulla se sono perseguite con metodi sbrigativi e si appoggiano a intese opportunistiche realizzate sotto forma di eccezione dalle regole comuni. Viviamo nello spazio claustrale di una stagnazione totale che ricorda la situazione angosciante descritta da Bunuel in “L’Angelo Sterminatore”: un gruppo di borghesi non riesce a uscire dalla stanza nella quale è confinato, nonostante le vie di uscita siano pienamente accessibili sul piano della realtà esteriore, a causa di forze interiori invisibili legate all’inerzia che sottende le loro dinamiche (e la loro mentalità) di gruppo. La feroce critica di Bunuel, che andava al di là della denuncia della società franchista, della chiesa cattolica e della borghesia, è quanto mai attuale. Lo stato di eccezione in cui versiamo non è né quello di una legislazione di emergenza né quello di una rivoluzione che depone un ordinamento giuridico per sostituirlo con un nuovo. Ci troviamo piuttosto dentro un processo di lenta ma inesorabile alterazione della relazione tra l’anomia del desiderio (nella sua forma sorgiva) e l’insieme delle regole che sostengono la sua socializzazione. La posta in gioco in questa relazione è la possibilità di trasformare il disordine di cui è foriera la pulsione in quanto espressione di vita in un ordine che garantisce il rispetto e la permanenza del suo oggetto e quindi la sua soddisfazione reale.

Il disagio della civiltà deriva dal fatto che questa trasformazione tende a slittare difensivamente nella costituzione di un ordine chiuso che sostituisce le relazioni di desiderio con i rapporti normativi, di forza. Dal momento che non può prevedere altro che la sua perpetuazione, la norma antagonizza la libertà del desiderio e quindi la sua soddisfazione. Nella nostra epoca la repressione delle pulsioni ha raggiunto un limite intollerabile creando un’imponente domanda di liberazione la cui soddisfazione richiede una rivoluzione del nostro modo di pensare le regole e il diritto. La resistenza al cambiamento che questa prospettiva comporta, alimenta uno stato di eccezione permanente che non è a-nomia ma iper-nomia: dittatura di una norma non scritta che (come legge incontestabile, “pura”) rescinde il legame della regola con il godimento.

Sotto l’inconcludente effervescenza di superficie della nostra esistenza prende forma la violenza più distruttiva: l’espansione di una materia psichica inerte che sostituisce la carne viva del desiderio e cancella il movimento della vita.