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L’effetto piatto di Conchita Wurst

Sarantis Thanopulos

Un giovane cantante austriaco ha deciso di proporsi come “drag queen”, nome con cui si definiscono gli uomini dello spettacolo che si esibiscono vestiti in modo femminile. Voleva dimostrare che “ognuno può essere quello che vuole”. Con il nome artistico di Conchita Wurst e in vestito lungo, capelli lunghi, baffi e barba curata ha stravinto pochi giorni fa competizione canora Eurovision. La sua canzone, che ha come tema il risorgere della fenice dalle sue ceneri, è piuttosto mediocre ma ha un’impostazione accattivante. La presenza di una “drag queen” nella competizione ha scatenato reazioni scomposte soprattutto in Russia (ma anche in altri paesi, Austria inclusa) mentre il successo finale ha fatto gridare alla vittoria della tolleranza.

Non si ha l’impressione, in verità, di vivere in un mondo molto tollerante e, inoltre, l’elogio della tolleranza come valore in sé ha risvolti che meriterebbero più attenzione. Tollerare potrebbe essere una cosa buona come potrebbe non esserlo e non tanto in funzione del suo oggetto (tollerare la differenza di costumi ha un valore opposto al tollerare la fame nel mondo) quanto piuttosto per fatto che la tolleranza può aver senso solo come premessa necessaria di una capacità di comprensione. È importante saper tollerare il dubbio, l’incertezza, la delusione che le esperienze inconsuete possono generare per poter comprendere e gestire meglio la relazione in cui si è impegnati e aprirla al cambiamento (scongiurando il pericolo di azioni reattive, impulsive). Bisogna ammettere, tuttavia, che il più delle volte la tolleranza è interpretata come un “vivere e lasciar vivere” che disimpegna dalla la relazione con l’altro e consente di evitare a priori le frustrazioni.

Essere quello che si vuole essere, la slogan di cui Conchita si è fatta portavoce, è una rivendicazione che soffre della stessa ambiguità della professione di tolleranza: cambia completamente il suo senso a seconda che l’altro sia incluso nel suo orizzonte o escluso. La definizione del nostro modo di essere indipendentemente dalla nostra relazione con l’altro è ciò che i greci chiamavano ubris: assenza del senso dei limiti, arroganza. L’impostazione androgina della propria identità tende ad annullare l’interdipendenza erotica tra i sessi e insegue il fantasma di un’autarchia sessuale che consentirebbe alla donna di godere come l’uomo e all’uomo come la donna. Va in scena l’autoerotismo (di cui l’araba fenice è una nota rappresentazione) che se da un lato esercita una fascinazione inconscia sulla parte onnipotente, autoreferenziale del desiderio dall’altro minaccia la parte che ama la diversità (e la libertà) dell’oggetto desiderato perché l’androgino crea una confusione di identità in cui la differenza dell’altro può cancellare la propria. L’effetto globale è perturbante: un misto di attrazione e di repulsione.

Ciò che si rigetta nella “donna barbuta” non è l’aspetto “mostruoso” sul piano estetico (che serve da copertura del motivo reale del rigetto) ma la confusione tra desiderio rivolto a se stessi e desiderio rivolto all’altro. La tolleranza di cui andiamo fieri spesso non è altro che il risultato di un maquillage che opera in superficie e riduce l’effetto perturbante a un’immagine piatta, addomesticata, quasi pubblicitaria. Tollerare veramente significa patire intensamente la problematicità della nostra dipendenza dall’altro, sentire fin in fondo lo sgomento (e il terrore) di fronte a un desiderio di libertà “dal” legame, restare dentro la tensione che forgia questo desiderio secondo la sua unica possibilità: libertà “nel” legame.

Soggetti geneticamente determinati

 Sarantis Thanopulos

La determinazione genetica dell’autismo era data per acquisita. Nell’ambito di un’offensiva a vasta scala che ha manipolato l’impostazione della ricerca scientifica e l’interpretazione dei suoi dati, conferendo una falsa obiettività ad assunti ideologici di partenza, gli studi davano l’incidenza dei fattori genetici nell’eziopatogenesi dell’autismo al 80-90 per cento. La stessa cosa era accaduta con la schizofrenia. Per decenni si è insistito ossessivamente sulla sua determinazione genetica fino a quando questa pretesa non è stata smentita in modo inoppugnabile e si è dovuti accontentare della trasmissione ereditaria di fattori di predisposizione alla malattia (un’ipotesi di buon senso che tuttavia non tiene conto della complessità del rapporto tra patrimonio genetico e ambiente).

Una doccia fredda per gli ardori genetisti è arrivata anche nel campo dell’autismo: uno studio congiunto del King’s College di Londra e del Karolinska institute di Stoccolma, di gran lunga il più vasto fatto finora, ha attribuito la genesi della malattia per metà a fattori genetici e per metà a fattori ambientali (nell’ambito di una complessa interazione). Per quanto riguarda i fattori ambientali i ricercatori non sanno dare risposte ma ipotizzano genericamente complicazioni di parto, problemi collegati allo stato sociale, alla salute e allo stile di vita dei genitori, alla nutrizione materna oppure all’esposizione all’inquinamento durante lo sviluppo cerebrale primario. Pur di non dare la dovuta importanza agli aspetti emotivi si arrampicano sugli specchi puntando tutto su fattori organici o comunque materiali.

Che strana è la percezione del mondo da parte di questi scienziati che studiano un mondo desertificato in cui gli occhi non sentono, non desiderano. Il loro pensiero non ascolta le emozioni e la sensualità dell’esperienza vissuta che lo fanno nascere e il loro sguardo spoglia il mondo della qualità affettiva che lo abita. Il privilegio assoluto accordato al substrato organico della nostra esistenza  porta a un risultato assurdo: la verità della casa in cui alloggiamo diventa la solidità della sua struttura, delle sue tubature e della sua rete elettrica (o della tecnologia che la governa) e non il modo di abitarla, di usarla, di viverla. Sembra un pensiero folle ma si preferisce ignorare che molti scienziati di oggi ragionano in questo modo.

La nostra esistenza materiale non è il nucleo della nostra esistenza psichica (la sua intrinseca spiegazione) ma piuttosto la sua superficie. Se le condizioni oggettive della vita umana diventano la predeterminazione  della nostra soggettività siamo condannati a vivere nella periferia della nostra esperienza eccitandosi per non sentirsi morti. Non è un’ipotesi fantascientifica ma una tentazione molto potente che sta alla base di tanti problemi sociali diffusi che cerchiamo di risolvere in termini giuridici moltiplicando le norme.

C’è del metodo nella follia: le quantità sono più manipolabili delle qualità e consentono una concentrazione di potere (ad alta tecnologia) mai immaginata prima. Viviamo in una democrazia formalmente sofisticata ma sempre più indebolita sul piano della sostanza.

La filosofia  è sempre più impotente di fronte a una scienza che non immagina, non sente. In un mondo privo di anima è comprensibile il ritorno di un interesse di massa per la religione. La psicoanalisi resiste come alternativa laica nella cura del dolore ma a volte finisce accerchiata: come si può affrontare il problema dei bambini che hanno perduto il loro approdo alla vita se continuiamo a sprofondare in un mondo di isolamento affettivo?

Twittare per (non) esistere

Sarantis Thanopulos

Non esiste “celebrità” dello spettacolo, politici inclusi, che non “twitti”. Perfino il nostro presidente del consiglio, a cui l’alta responsabilità della sua funzione consiglierebbe di fare (in modo sobrio) più che dire, si diletta a giocare con frasi ad effetto che lasciano il tempo che trovano (non tanto buono). Cosa spinge i personaggi della mondanità che dominano lo spazio pubblico, a ricorrere ad aforismi che non potendo essere distillati di saggezza (questo prodotto manca nei magazzini) sono regolarmente insapori o gaffes vere e proprie (nel migliore dei casi)? Questi personaggi non devono al Twitter il loro successo e la loro celebrità né hanno bisogno di usarlo per farsi conoscere e apprezzare. La loro mania è dovuta ad altro: il bisogno compulsivo di comunicare il loro pensiero, scaricandolo in realtà a causa della difficoltà di lasciarlo sedimentare per dare forma e espressione compiuta ai loro vissuti e alle loro visioni.

Si può vivere in una rete illimitata di relazioni e con i media pronti a dare risonanza a ogni propria opinione e sentire nondimeno di non essere in comunicazione con il mondo vero. La società dello spettacolo appiattisce l’immagine per motivi vari ma convergenti: diseduca a vedere (a cogliere le relazioni); ottunde la sensibilità della percezione (la capacità di farsi “pungere”, destabilizzare da ciò che si vede -secondo la felice espressione di Barthes); disgiunge il visibile dall’invisibile che lo sorregge e lo anima. L’eccesso di visibilità che toglie profondità al pensiero opacizzando la lettura dell’immagine, non approda al silenzio (troppo vicino al sentimento di futilità) ma crea un eccesso simmetrico di parole che distoglie dalla sensazione del vuoto. Più la comunicazione si fa spettacolo meno comunica. Chi ci resta impigliato sa nel suo intimo che alloggia in un mondo di finzione dove le parole e le immagini perdono la loro forza comunicativa.

Lo statuto della comunicazione umana è antinomico: la nostra capacità di comunicare intenzionalmente mediante i gesti e le parole con soggetti altri da noi è fondata su una modalità di comunicazione primaria “silenziosa” (Winnicott), che rigorosamente parlando non potrebbe essere definita come comunicazione vera e propria ma come suo opposto, perché non è altro che il semplice, non intenzionale esistere in relazione spontanea con il mondo. Nessuna comunicazione è autentica se al livello più profondo dello scambio emotivo e mentale che avviene in una relazione erotica, d’amicizia, di parentela, di lavoro non è presente la nostra capacità di essere in un mondo privo di confini, senza altro desiderio che il fluire della relazione stessa. Soltanto se parte da questo luogo di piena presenza in sé all’interno del mondo il nostro gesto (che costruisce l’immagine o ne afferra creativamente il senso) può incontrare veramente la realtà e diventare parola che riconosce nell’altro a cui si rivolge non un oggetto da manipolare ma un soggetto autonomo dalla nostra volontà con cui dialogare.

Vivere all’interno di una grande platea mediatica spersonalizzante -non tanto per la sua vastità quanto perché sostituisce la fascinazione al coinvolgimento- indebolisce il senso della propria esistenza e la consistenza del proprio discorso. I “grandi comunicatori” dicono poco in realtà perché nel loro sforzo di catturare l’attenzione perdono il contatto con se stessi e si appiattiscono sul bisogno del consenso. Vorrebbero ritrovare il senso personale del loro pensiero e aprirsi alla comunità e alla realtà, ma sono prigionieri della messinscena che ha preso il posto del loro sogno.

La negazione del corpo

Sarantis Thanopulos

Agli inizi di Aprile l’Alta Corte australiana ha riconosciuto a una persona il diritto di dichiararsi di “genere non specifico”. La persona interessata, di sesso biologico maschile alla nascita, aveva fatto ricorso nel 1989 a un intervento chirurgico per costruirsi un sesso femminile ma poi aveva rigettato anche questa nuova identità. Fatto salvo il principio dell’autodeterminazione, per cui una persona non può essere prigioniera di un’identità in cui non si riconosce, bisogna ammettere che la definizione giuridica dei nostri modi di sentire e di essere fa prevalere la norma sulla soggettività, per quanto utile possa essere nella difesa dei diritti umani.

La mutilazione dei propri genitali è una soluzione violentemente normativa di un conflitto (che in apparenza si vorrebbe sottrarre alle convenzioni sociali) tra la realtà del proprio corpo e la sua percezione psichica perché sostituisce al piacere erotico (con tutte le sue ambiguità, contraddizioni e incertezze) un’illusoria pacificazione del soggetto sul piano identitario ottenuta con la contraffazione dell’anatomia. La richiesta di appartenere a un sesso non specifico catturata dal linguaggio della logica giuridica, di cui diventa appannaggio, resta anch’essa nel registro dell’esperienza disincarnata perché non ci dice nulla sulle forze interiori che l’hanno determinata. Dichiararsi di sesso non specifico perché ci si sente sia uomo sia donna, e incerti tra una condizione e l’altra, è diverso da rinunciare alla specificità perché non ci si sente né l’una né l’altra cosa. Nel primo caso il desiderio sopravvive nella sua lacerazione, nel secondo caso evapora.

Complicano il nostro modo di vedere la questione dei sessi alcuni errori di prospettiva nati dalla migliore delle intenzioni: liberare la sessualità, quella femminile e quella omosessuale in particolare, dalle sue molteplici sovradeterminazioni socioculturali. Seguendo questa strada si è arrivati alla sostituzione del concetto di “sesso”, connesso all’anatomia, con quello di “genere”, connesso all’orientamento psicosessuale. L’idea di fondo è che il collegamento con l’anatomia porta a una definizione “binaria” dell’identità fondata sullo stereotipo eterosessuale mentre bisognerebbe ammettere una libertà psichica nella determinazione della sessualità che meglio si adatta alla molteplicità delle sue espressioni. L’idea in sé non sarebbe sbagliata ma se l’anatomia non può essere il destino della sessualità non può neppure essere dissociata da essa. L’adozione acritica del concetto di “genere” tende a disincarnare le relazioni umane assoggettandole a una loro definizione linguistica, grammaticale.

Il rispetto dell’anatomia non impone uno schema eterosessuale: sottolinea una differenza/complementarità erotica tra la donna e l’uomo che non è una norma di comportamento universale ma una relazione naturale dalla quale non prescinde nessuna declinazione della sessualità o percezione della propria identità. Ogni corpo è femminile e maschile, omosessuale e eterosessuale al tempo stesso ma se è vero che sono le combinazioni psichiche di queste sue declinazioni naturali che determinano la sua “plasticità”, libertà sessuale è pure vero che la sua tensione, intensità erotica (omosessuale o eterosessuale che essa sia) è legata al fatto anatomico che ne fa un corpo di donna o di uomo e alla specifica mancanza di un corpo complementare che questo comporta. Non sentirsi in sintonia con il proprio corpo è prima di ogni altra cosa questione di libertà ma perché questa libertà non diventi autoreferenzialità, questo corpo che imbarazza non può essere negato, ignorato.

Il nodo è gordiano ma non si può tagliare

Sarantis Thanopulos

 

Una coppia ha fatto ricorso alla fecondazione assistita omologa e la donna è rimasta incinta di due gemelli. Dai test successivi i due genitori in attesa hanno saputo che il loro patrimonio genetico non corrispondeva a quello dei due feti ospitati nell’utero della donna: uno scambio di provette, gli embrioni appartenevano a un’altra coppia.

Lo scambio ha creato diversi problemi, il più evidente dei quali è quello legale. Dal punto di vista giuridico infatti chi saranno i genitori? Quelli biologici (a cui appartengono gli embrioni e la cui identità è o sta per essere scoperta) o quelli inconsapevolmente adottivi (con la complicazione ulteriore che è la madre adottiva ad ospitare nel suo grembo i futuri bambini)? Teoricamente nessuna soluzione è esclusa in partenza neppure quella salomonica (i problemi della modernità rispetto al desiderio di essere genitori hanno radici molto antiche): un bambino agli uni e uno agli altri.

Visto dal punto di vista psicologico e privilegiando l’interesse dei futuri bambini a scapito di quello degli aspiranti genitori, il problema legale può essere risolto/tagliato come nodo gordiano: è la donna incinta a definire chi sono i genitori. La permanenza nell’utero di una donna, lo stabilirsi in lei delle condizioni psicocorporee adatte per questa permanenza e la prossimità con il suo corpo e le sue emozioni subito dopo il parto sono le condizioni che danno forma e senso all’essere “madre” dal punto di vista di un bambino che si affaccia al mondo. Le cure materne devono posizionarsi all’interno di questa contiguità psicofisica tra madre e figlio — affinché la cesura della nascita sia ricucita — e nella misura che la contiguità è ferita le cure sostitutive devono tenerne conto e offrire una riparazione.

La gravidanza dà diritto di “prelazione” alla donna incinta e alla coppia di cui lei è parte, perché l’eredità del patrimonio genetico non è significativa per un soddisfacente sviluppo psicocorporeo dell’essere umano — a condizione ovviamente che la natura non l’abbia eccessivamente discriminato. Tutto quello di cui abbiamo bisogno all’inizio della nostra vita è una madre che ci tiene e ci sogna dentro di sé, che una volta che ci partorisce ci è devota nel prendere cura di noi e ci desidera senza condizioni. Non sarebbe capace di farlo nel modo giusto se non fosse legata (almeno potenzialmente) a un uomo che la ama ed è amato da lei ma di questo in origine poco sappiamo e poco vogliamo saperne.
Tuttavia per quanto la condivisione del patrimonio genetico non è in sé stessa determinante per l’assunzione della funzione genitoriale, la sua assunzione psico-culturale come “legame di sangue” ha una sua importanza. Rivedersi nei figli, scorgere in loro somiglianze fisiche e attribuire a una co-appartenenza naturale quelle caratteriali, fa parte del “riconoscimento”: la conferma della continuità nella discontinuità, del consueto nell’inconsueto.

Il riconoscimento nei figli non dipende solo dal legame di sangue (sono molto più significative le identificazioni reciproche che si creano nella relazione reale con loro) ma l’assenza di questo legame può interferire con la funzione genitoriale in presenza di incertezze dei genitori sulla legittimità del loro ruolo. Si deve tener conto del fatto che già il ricorso alla fecondazione assistita comporta una certa tristezza e amarezza: la rinuncia all’esigenza che il figlio nasca dalla relazione di desiderio. Il seme dell’uomo che attecchisce nel corpo della donna ha un importante significato simbolico che alimenta potenti fantasie erotiche che pur indipendenti dalla procreazione effettiva ne costituiscono il fondamento psichico più solido.

Il più esposto alla delusione è l’uomo perché la gravidanza lo esclude dalla più totale delle unioni e lo priva, al tempo stesso, della sua compagna. Nel caso di una fecondazione eterologa in particolare, la rinuncia non solo alla fantasia di occupare, ingravidare lo spazio interiore della sua donna con il proprio desiderio ma anche alla possibilità di partecipare con materia che viene dal proprio corpo alla creazione che prende forma nel corpo di lei, tende a farlo sentire più lontano e più estraneo. La difficoltà è più grande se l’aspirante padre deve affrontare una fecondazione eterologa che è avvenuta a sua insaputa e quindi senza una sua adeguata preparazione psicologica. Il rischio è che assegni il figlio alla sola madre ritirandosi inconsciamente nel ruolo del “principe consorte”. Nella donna dal canto suo l’idea di un embrione che non si è impiantato dentro di lei come conseguenza diretta del suo desiderio erotico e, proveniente da un’altra, non ha nessuna correlazione con il suo patrimonio genetico, favorisce l’emergere della fantasia di ospitare un essere alieno che è presente, allo stato latente, in ogni gravidanza.

La gravidanza riattiva nella donna l’esperienza narcisistica di unione con la propria madre e quindi anche il desiderio di essere l’oggetto ideale di lei, il complemento che la rende autosufficiente, autarchica. La sua antica e rimossa aspirazione torna nelle sembianze immaginarie di un essere non ancora definito e non ancora nato che può essere investito in modo messianico. Nella gravida convivono l’idea di un bambino ideale, che esalta le sue premure e la sua devozione, e di un bambino reale, che proviene dal legame erotico tra lei e il suo uomo e la cui differenza si prepara di accogliere. Tutte le volte che il legame ideale prevale sul legame reale, la preoccupazione prevalentemente inconscia della madre che qualcosa di estraneo al suo desiderio per la vita vera invade il suo mondo psichico, la costringe a riposizionarsi in un rapporto appropriato con la realtà.

La presenza dentro di sé di un embrione non originato dal proprio desiderio e dal proprio corpo tende a rinforzare nella gravida il versante persecutorio del bambino messianico, ideale che se perde il suo legame con il bambino reale (il giusto equilibrio tra narcisismo e amore per l’altro) assume un significato inquietante perché si rivela morto, artefatto di fronte al desiderio. Questo può favorire la percezione del feto come ibrido mostruoso (come mescolanza ripugnante di parti vive e di parti morte), un fantasma che in alcune donne di fragile identità femminile (colonizzate dalle aspettative di una madre molto ingombrante) può portare all’aborto spontaneo o alla sterilità psicogena. Se sul piano psicologico la cosa più sensata e appropriata è di aiutare la coppia malcapitata di portare avanti la genitorialità complicata che un errore umano (o il caso) le ha assegnato, è necessario pure riflettere sulla complessità delle situazioni che comporta la fecondazione assistita che non può essere affidata a valutazioni di tipo solamente tecnico.

Un sostegno emotivo adeguato è indispensabile soprattutto nel caso di fecondazione eterologa (voluta o subita) dove la combinazione tra la delegittimazione che l’uomo può provare, rompendo senza saperlo il patto erotico coniugale, e l’isolamento in cui la donna si può trovare, sostituendo la sua condizione femminile con una maternità ideale, astratta (priva di desiderio), può sottrarre al figlio fortemente voluto del suo destino, negargli il pieno diritto alla vita.

Vivere in superficie

Sarantis Thanopulos

L’allarme è lanciato dal “Guardian”: in Gran Bretagna ogni anno si fanno più di 50 milioni di prescrizioni di antidepressivi. Gli esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sono preoccupati per la perdita di distinzione tra la normale tristezza e la depressione clinica. È un fenomeno in forte espansione che la pressione delle industrie farmaceutiche non basta a spiegare. La domanda di un impegno lavorativo sempre più impersonale e astratto dai sentimenti rende il dolore privato disfunzionale sul piano dell’inserimento sociale. Il dolore deve essere rapidamente represso ma ciò avviene solo in parte con i medicinali. Se da una parte è aumentato a dismisura l’uso degli antidepressivi contro le fisiologiche manifestazioni di lutto, dall’altra sta sparendo la tristezza, la capacità di sentire la mancanza degli oggetti amati.

Dietro la spersonalizzazione del lavoro e della vita sociale, che sta trasformando la vita privata in un regime di norme chiamato “privacy”, c’è un’imponente, e prevalentemente invisibile, distruzione della relazione con l’altro e lo sviluppo di una moltitudine di solitudini isolate, connesse tra di loro ma non comunicanti. La relazione con l’altro è faticosa fino a diventare insostenibile senza una reale esperienza di scambio, senza una reciproca possibilità di coinvolgimento e di soddisfazione profonda. La presenza dell’altro stimola il desiderio, coinvolge (sconvolge), espone: questo è altamente rischioso, intollerabile se la reciprocità è assente. La trasformazione della relazione di scambio in relazione di dominio danneggia enormemente il coinvolgimento (più nel dominante, che lo reprime attivamente, che nel dominato che è costretto a difendersi da esso) ma finché c’è conflitto, finché la resistenza alla sopraffazione è viva, il desiderio sopravvive. Per quanto assurdo possa sembrare la lotta degli oppressi mantiene nel campo della condizione umana gli oppressori.

L’assenza di conflitto, il congelamento dei rapporti di scambio in un assetto disastrosamente ineguale come quello a cui ci stiamo rassegnando, trasforma il desiderio vero in pericolo mortale da cui difendersi a oltranza. La negazione del desiderio è la malattia della nostra epoca: un’anoressia di vita molto diffusa che pretende di ridurre il piacere del vivere al minimo indispensabile per la sopravvivenza fisica e emotiva. È una posizione centrata sul narcisismo dell’autarchia che è vulnerabile perché ciò che del desiderio resta vivo in profondità tende a riemergere e deve confrontarsi col deserto che si trova. Parafrasando Freud, l’ombra del deserto cade sul desiderio e sulla vita psichica del soggetto.

L’esistenza anoressica, l’isteria melanconica in cui la paura dell’altro slitta in una sua perdita incolmabile, vive nelle vicinanze della depressione dalla quale deve costantemente difendersi. Quando non si seguono le strade estreme di un attacco al proprio corpo -il rifiuto del cibo, la folle determinazione a eliminare l’ultima resistenza naturale del desiderio- si segue la strategia della deviazione del piacere dalla soddisfazione compiuta (che impegna la psiche nella sua interezza) verso esperienze “psicostimolanti”: un’espressione involontariamente ironica per definire un’esistenza psichica inerte in profondità che vive nell’eccitazione di superficie e alla ricerca di canali immediati e ripetitivi di scarica continua della tensione. L’uso eccessivo degli antidepressivi è solo un sintomo, per quanto molto allarmante, di una perdita della capacità di usare il lutto per capire il valore delle relazioni che rischiamo di perdere e a cui non possiamo rinunciare.

Il tradimento e il lutto

 Sarantis Thanopulos

Due libri di psicoanalisti si interrogano sul tradimento: “La Potente” di Paola Camassa e “Non è più come prima” di Massimo Recalcati. Il primo è un romanzo di grande eleganza e tensione narrativa; il secondo è un bel saggio sul tradimento e sul perdono nella vita amorosa che si conclude con un breve ma intenso racconto.

Tradire è l’atto costitutivo della nostra libertà ed è strettamente intrecciato con la perdita. La rinuncia alla madre vissuta come protesi onnipotente di sé non è solo il momento critico della necessaria separazione da lei: è anche un reciproco tradimento fortemente voluto che consente alla madre di ritrovare il suo posto di donna nella vita e al figlio di affermare la propria differenza da lei, la propria distinta esistenza. Questo tradimento che fonda la presenza dell’altro come oggetto separato da sé e l’amore stesso come riparazione della perdita, è strettamente legato al riconoscimento del fatto che nessuna relazione erotica può essere satura e autosufficiente. L’altro non esiste senza un altro ulteriore che lo definisce e lo trascende e ciò crea una concatenazione potenziale di oggetti amati infiniti il cui inseguimento farebbe del tradimento una regola assoluta. L’amore ha due nemici che si sostengono a vicenda: il legame ideale, la pretesa di tornare nel prima della relazione amorosa (nell’illusione di un’appropriazione narcisistica del mondo), e la promiscuità, la sostituibilità disinvolta degli oggetti amati. L’amore trova il suo senso nell’esclusività del suo oggetto che non è una condizione a priori ma il prodotto di una scelta di relazione che se da una parte trae dal confronto con gli altri potenziali oggetti  l’ispirazione di un suo costante rinnovamento, dall’altra realizza attraverso la propria autolimitazione, che evita la dispersione, il massimo del coinvolgimento.

Amare è libertà, e questo implica l’infedeltà, ma anche ricerca della profondità che richiede un’intesa che esclude il tradimento. Legarsi e liberarsi è il destino degli amanti che convivono con la perdita e aggiornano di continuo il loro accordo. Il lutto è loro congeniale perché se, come giustamente Recalcati osserva, l’amore non è la ricerca frenetica del nuovo, è vero anche che la riproposizione del medesimo lo svuota. Amare l’altro ancora e ancora, nel modo di sempre, richiede anche la capacità di accettare di perderlo per ritrovarlo in forme inconsuete, scoperte per la prima volta. Il lutto che fa parte del discorso amoroso consente di mantenere una costante tensione tra la conservazione nostalgica dentro di sé dell’altro come identico a se stesso e l’esigenza di vederlo trasformarsi nella sua esistenza esterna secondo declinazioni nuove che non saturano il desiderio nei suoi confronti. L’amore vive finché questa tensione tra l’identico e il nuovo (che rinnova la percezione del passato e rende riconoscibile il futuro) si mantiene viva.

Il tradimento può essere parte del lutto amoroso (l’ultimo appello a rinnovare un legame che ha perso la sua tensione tra intesa e libertà, tra consuetudine e rinnovamento) o del lutto che segnala la fine dell’amore. Il perdono -come dono rinnovato di sé- ha un senso solo nel primo caso.  Perdoniamo chi ci ha tradito se continuiamo ad amarlo e ci è possibile  riconquistarlo: perché lo ritroviamo vivo dentro di noi e ancora disponibile ad amarci nell’inalienabile esteriorità del suo desiderio. A seguire con attenzione il libro della Camassa, non si tratterebbe in realtà di perdono ma di capacità di ritrovamento del traditore e del tradito in quelle comuni ragioni d’amore che hanno determinato il tradimento.

L’amore dei nostri sogni

Sarantis Thanopulos

Una giovane americana ha conosciuto durante un lungo volo dagli Stati Uniti al Canada un italiano che le è apparso come l’uomo dei suoi sogni. Forse presa dall’emozione, forse dai suoi affari (è un’imprenditrice) alla fine del viaggio ha dimenticato di chiedergli il numero di telefono. Resasi conto della sua distrazione la sera stessa è corsa ai rimedi: ha inviato via Twitter un messaggio alla compagnia aerea del suo volo per rintracciare l’uomo trovato e perso. Ha fornito come indizi il numero del volo e le uniche informazioni che aveva su di lui: il nome di battesimo e la città di nascita. “È il mio futuro marito” ha annunciato alla compagnia che le è venuta incontro. Mobilitando amici e volontari di vario tipo la donna è riuscita a coronare il suo sogno: l’uomo e stato rintracciato e si è posta fine alla sua inconsapevole fuga.

Potenza congiunta del Twitter, della caparbietà femminile e dell’amore (che non si riconosce nella prudenza e non conosce ostacoli). Statisticamente queste favole a lieto fine non hanno un grande futuro ma le statistiche sono fatte per essere ignorate: né i sentimenti né gli impulsi le seguono. Certo la sposa autoproclamata (una volta ci voleva il consenso preventivo del partner) sembra un po’ sbrigativa oltre che molto determinata. Per il colpo di fulmine non si può che tifare ma la sua trasformazione in una caccia organizzata, trasmessa in diretta, qualche dubbio lo solleva. L’amore è stato violato in quattro sue condizioni fondamentali: l’indeterminazione, l’immaginazione, il lutto, il sogno.

Mai si può determinare l’amore: le strade che prende, le sue divagazioni, le sue dilazioni e le sue accelerazioni. L’amore determina non è determinato, ama gli imprevisti, le incertezze, le improvvisazioni; non regge il calcolo.

L’immaginazione è il suo miglior servitore: chi ama non vede e non tocca con mano ma immagina, intravvede. Immaginare non è fantasticare ma intuire dove la realtà può svelarsi ai nostri desideri schiudendosi a loro, dove le nostre emozioni e i nostri pensieri possono diventare sensibilità, comprensione sentita del mondo. L’immaginazione amorosa rifugge la prigionia dell’oggetto amato perché preferisce anelarla, crea nodi metaforici che mentre annodano trasportano anche i sentimenti altrove, irradiandoli verso la vita.

Don Chisciotte trasporta il suo desiderio in un mondo privo di immaginazione, vaga in un deserto in cui la concretezza delle cose schiaccia la possibilità di sentirle e di viverle, perché si sostituisce al senso di mancanza, al lutto, che le rende reali e desiderabili: le cose che non si perdono non esistono veramente. In un modo che non è malato di pragmatismo Dulcinea è un oggetto che trasforma la perdita in capacità di sognare, come accade nell’incontro con la donna o l’uomo del nostro destino, che mai vedremo più, in treno, in un bar o in una passeggiata vicino al mare.

La dimensione onirica del nostro rapporto con la realtà (il sogno della veglia e del sonno), che ispira l’immaginazione, è la vera dimora dell’amore perché è il luogo in cui ciò che è perduto riappare insieme identico e in trasformazione in modo da eludere ogni nostra velleità di costituirlo secondo le nostre intenzioni. Amiamo sempre ciò che abbiamo perduto come lo ritroviamo in termini di potenzialità tra ciò che è stato e ciò che potrebbe diventare, tra la sua familiarità e la sua estraneità (che ci apre all’alterità), cioè per come lo possiamo sognare. La donna che ha sequestrato l’amore dei suoi sogni nel Twitter è come Sancho: vorrebbe tanto sognare, per amare, la realtà ma non ce la fa.

Il bambino preferito

Sarantis Thanopulos

Le scoperte dell’evidenza godono sempre di più degli onori della cronaca. Fa comodo trasformare le banalità comuni in sapienza in cui tutti possono riconoscersi. Un anno fa due docenti dell’Università di Nantes, Catherine Sellenet e Claudine Paque, hanno pubblicato “Il bambino preferito: chance o fardello?” Il libro ha avuto tanto successo da attirare l’attenzione mediatica. Nella settimana scorsa Sellenet è stata intervistata da “Le Monde” e in Italia il “Corriere della Sera” ha dedicato di rimbalzo alla questione ampio spazio. Nell’intervista la studiosa afferma che la preferenza accordata a uno dei figli è un non detto, un tabù familiare la cui esplicitazione è incompatibile con il modello di famiglia ideale che è descritta nei libri per bambini.

Contro un tabù invincibile basta ovviamente la buona volontà e la pazienza: l’80% per cento dei genitori intervistati da parte delle autrici nei 55 colloqui che fanno da base al libro ammettono dopo un’iniziale difficoltà che preferiscono uno dei loro bambini. È stato sufficiente convincerli che non si intendesse colpevolizzarli, che tutto questo facesse parte della complessità delle relazioni umane. Quanto è rasserenante la complessità quando la sua comprensione è elementare.

In realtà la predilezione dei genitori per uno dei figli è un segreto di Pulcinella: tutti lo sanno e tutti ne parlano. Non ne parlano volentieri i genitori stessi che spesso negano o sono riluttanti ad accettare ciò che tutti gli altri (a partire dai figli) vedono. La negazione o la riluttanza hanno due motivi: uno piuttosto scontato, l’altro molto più insidioso. È risaputo, fa parte dell’esperienza comune, che i genitori possano preferire il bambino che nasce nel culmine del loro amore, quello che più somiglia a loro, quello attraverso cui pensano di veder realizzate le loro aspettative mancate, il primo figlio (il loro primo investimento) o l’ultimo (che ferma il declino della loro funzione), il figlio in cui per vari motivi rivedono una persona cara perduta. Rivendicare la preferenza non ha molto senso: sia perché non è un fatto immutabile né definito sia perché esprime un amore narcisistico vitale che convive con l’amore oggettuale (che tiene conto della differenza dell’oggetto amato) e non annulla il senso di giustizia nei confronti degli altri figli.

Diverso è il caso in cui un oggetto narcisistico del genitore che è privo di vita reale (esiste solo sul piano dell’idealità e della consolazione) è proiettato in uno dei figli che gode del privilegio, che è la sua rovina, di incarnarlo per farlo apparire vivo (prestandogli la sua carne e il suo sangue). Qui il non detto -che non è fasullo ma vero, sia che i genitori neghino con determinazione il privilegio accordato al figlio sia che lo rivendichino sfacciatamente- è legato all’unico tabù familiare reale: l’incesto. L’incestuosità familiare deriva dalla persistenza da parte dei genitori in un forte investimento inconscio dei loro oggetti erotici infantili che loro idealizzano per garantirsi una sessualità autoerotica, autoreferenziale che li protegge dalle incognite della relazione coniugale. La sessualità dei genitori si allontana dal reciproco coinvolgimento ed è rivolta silenziosamente, sotto forma di eccitazione non riconosciuta, a un figlio preferito (di sesso maschile per la madre, di sesso femminile per il padre) che deve far rivivere un passato morto (in questa cornice non essere preferiti è una fortuna che lascia l’amaro in bocca). Il bambino preferito può essere un paravento che nasconde, con la complicità di un sapere di superficie, la contaminazione della vita dalla morte.