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Omosessualità e eterosessualità, alla pari

 Sarantis Thanopulos

 Michele Macfarlane è una donna di 46 anni che vive in Sudafrica. È stata intervistata da “The Guardian” in occasione di una visita a Londra per la promozione di un libro in cui racconta la sua singolare esperienza. Nove anni fa, quando viveva con il marito e con i loro tre figli (due maschi e una femmina), assunse come ragazza alla pari Marizette, una giovane donna “alta con spalle ampie, pancia piatta e braccia forti”, di cui si accorse che fosse gay. Avvertì un’attrazione non definita ma intensa che pensò di poter controllare senza grosse difficoltà. Quando disse a sua madre che la sua ragazza alla pari le sembrava gay, lei rispose: “Così non rischi che tuo marito scappi con lei”. Suo malgrado Michele scivolò in una relazione erotica “senza confini” con Marizette  e lasciò il marito. Nel 2009 le due donne si sposarono per separarsi due anni dopo. Oggi Michele vive insieme ai suoi figli con una nuova compagna, con la figlia di lei e con la bambina che ha adottato con Marizette.

Quando Michele, madre a tempo pieno, assunse Marizette  era in difficoltà nella cura dei figli a causa di un deterioramento forte della sua vista e aveva bisogno che qualcuno guidasse per lei e le porgesse il braccio per aiutarla a camminare. A suo dire fino a quel momento era stata un’eterosessuale pura e solo dopo ha scoperto la sua condizione omosessuale, un fatto precedentemente inconcepibile. Questa scissione temporale totale tra omosessualità e eterosessualità è poco credibile: la percezione di una propria inclinazione  omosessuale è presente fin dall’adolescenza. In realtà nella pretesa di un’incompatibilità perfetta tra le due declinazioni fondamentali della sessualità, trova espressione un antagonismo latente ma potente tra il bisogno di sicurezza e il lasciarsi andare senza riserve nella soddisfazione erotica.

La ridefinizione dei legami sentimentali e familiari, a partire dalla parità  tra l’omosessualità e l’eterosessualità nel campo della relazione coniugale e della genitorialità, deve fare i conti con la presenza di stereotipi relazionali che travalicano la riformulazione  legislativa e culturale dei legami affettivi ed erotici. La forza di questi stereotipi (il cui potere normativo deriva dalla consuetudine e non dall’ordinamento giuridico vigente) sta nella loro capacità di contrastare lo sconvolgimento della nostra posizione nel mondo di cui è foriera la passione amorosa.

Nel vissuto di Michele confliggono l’esigenza di fidarsi ciecamente dell’altro (accentuata dal suo problema alla vista) e il desiderio di lasciarsi andare in un’esperienza amorosa senza confini. Questo conflitto -che ha trovato una transitoria composizione nell’attrazione per le “forti braccia” di Marizette-  è presente nella coniugazione difficile della sua insistente vocazione materna con il desiderio nei confronti del suo partner erotico (l’uomo prima, la donna dopo). Nei genitori, l’accudimento dei figli -dove è sempre presente la proiezione di un bisogno personale di cura- entra spesso in competizione con la profondità e la compiutezza della propria esperienza erotica. La difficoltà di prenderci reciprocamente cura all’interno della relazione di desiderio ci spinge a ripiegare nel bisogno di stabilità inseguendo obiettivi rassicuranti e consolatori -che possono trovare nell’impegno nei confronti dei figli un terreno molto favorevole. Ci affidiamo così a canoni comportamentali secolari -che si oppongono all’apertura all’imprevisto e ad una esposizione unilaterale all’alterità- di fronte ai quali la scelta omosessuale e quella eterosessuale sono parimenti vulnerabili.

Lo sguardo pornografico degli adulti

Sarantis Thanopulos

Mall Galleries è la sede di una organizzazione benefica di artisti britannici che promuove l’interesse per le arti visuali. In questi giorni ospita la mostra di un’associazione di pittrici donne. Tra i quadri esposti c’era anche uno intitolato “Ms Ruby May, in piedi”, di Leena McCall, che è stato rimosso perché giudicato “pornografico” e “disgustoso”. La rimozione è stata motivata con la necessità di proteggere i bambini che frequentano le esposizioni.

Il quadro, rintracciabile in internet, ritrae Ruby May, una donna che conduce workshop erotici, mentre fuma la pipa. Ruby porta un gilet corto, a cui è appesa una catena d’acciaio, e pantaloni alla zuava aperti davanti in modo da mettere in evidenza il triangolo pelvico. Nel quadro non si vede nulla di disgustoso e l’opacità della raffigurazione sul piano erotico non concede spazio alla pornografia. L’assenza di una ragione plausibile non rende la censura sorprendente: essa non si preoccupa di come il suo oggetto veramente è bensì del proprio modo di vederlo. I censori colpiscono il loro stesso sguardo, si difendono dalla deformazione della loro visuale che proiettano su di noi.

Nel suo vero significato la pornografia è la rappresentazione (per immagini e/o per parole) che mira a produrre eccitazione erotica nell’ambito di un assoggettamento del desiderio a una logica di compravendita. Introducendo un elemento estraneo al coinvolgimento profondo (l’interesse economico) la pornografia trattiene il desiderio in superficie e contraddice la sua reale soddisfazione. Inserisce in questo modo l’erotismo in un’alternanza di stati eccitatori e di effetti calmanti e sostituisce con il piacere che nasce dal sollievo (la scarica della tensione) il godimento vero e proprio.

Il significato della pornografia è distorto dalla sua confusione con la descrizione o la raffigurazione di immagini di esplicito contenuto sessuale. Questo sposta l’attenzione dall’impostazione della nostra visuale all’oggetto che vediamo. Tuttavia la pornografia non è nella rappresentazione in se stessa ma nello sguardo di chi la vede o la costruisce. Proteggere i bambini dall’esposizione a immagini sessuali ha senso quando le immagini possono creare in loro uno stato di eccitazione che sopraffà la loro capacità di contenimento: non potendo reggere la tensione la risolverebbero alterando profondamente la gestione del loro desiderio. In realtà i bambini sono più esposti a un’invasione indiretta della loro esperienza da un’interpretazione inconsciamente “pornografica” della sessualità da parte dei loro genitori. Può capitare allora che un’immagine di per sé non erotica possa incastrarsi simbolicamente con la sessualità invasiva dei genitori e diventare, a posteriori, più traumatica di un’immagine sessuale.

Nel quadro di McCall si può cogliere una dimensione non vitale (non si sa quanto intenzionale): la peluria pubica, tratteggiata come un’ombra, evoca una dimensione cadaverica che non ha niente dell’immagine rigogliosa (l’incontro dell’eros con l’enigma della vita) che Courbet ha messo in primo piano ne “L’origine del mondo”. Il disgusto dei censori di Mall Galeries maschera la loro inconscia fascinazione nei confronti di un oggetto inerte sul piano del coinvolgimento la cui atarassia è interpretata come potenza suprema. Eccitarlo, per mantenerlo vitale in superficie, compensa la percezione della sua immobilità interna e sposta il desiderio dagli oggetti vivi alla pretesa di far vivere quelli morti. Spesso la censura proietta sui bambini un’eccitazione necrofila e cercando di proteggerli da essa finisce per sancirla come ineludibile.

Il lato oscuro del consenso informato

 Sarantis Thanopulos

Facebook ha rivelato i risultati di una sperimentazione svolta per suo conto nel 2012 che ha coinvolto 689.000 dei suoi utenti. Nella sperimentazione, condotta da docenti dell’Università Cornell di New York e dell’Università di California, è stato alterato il flusso dei post degli amici nelle home pages degli utenti usati come cavie a loro insaputa. Gli utenti sono stati divisi in due gruppi: coloro che (a causa del filtro introdotto da Facebook) hanno ricevuto meno post dal contenuto emotivo positivo hanno ridotto del 0,1%  l’uso di parole positive e aumentato del 0,04% l’uso di parole negative nei post pubblicati da loro stessi; coloro, invece, che hanno ricevuto meno post dal contenuto emotivo negativo hanno aumentato il loro uso di parole positive del 0,06% e ridotto l’uso di parole negative del 0,07%. Sulla base di questo risultato minimo, ma statisticamente significativo, i promotori della ricerca ritengono che i social network possono influenzare i sentimenti dei loro utenti in senso positivo o negativo attraverso un processo di “contagio emotivo”.

La rivelazione dello studio ha suscitato grande allarme: autorevoli giuristi hanno considerato la sperimentazione eticamente inammissibile e dannosa. La protesta è stata forte ma l’argomentazione che l’ha sostenuta debole e deviante: mettere l’accento (come hanno fatto tutti) sull’assenza di “consenso informato” asseconda una concezione dell’etica devitalizzata, appiattita sulle buone regole sociali, una cosmesi morale che lascia senza cura il danno vero.

Si teme che Facebook possa usare il contagio emotivo per influenzare in modo occulto le scelte dei suoi utenti a partire dai consumi per finire al consenso politico. Il pericolo esiste ma il problema vero è altrove. Il contagio emotivo è un fenomeno ben conosciuto di cui Freud ha dato la spiegazione più concisa e rigorosa: è la propagazione di un sintomo patologico attraverso identificazioni inconsce collettive che riattivano nodi irrisolti e non adeguatamente rimossi che restano in agguato dentro di noi. Il contagio emotivo in quanto propagazione di un sintomo -un’impasse del desiderio che deforma la sua espressione e la sua soddisfazione deviandole verso la scarica compulsiva- lavora in superficie e il suo significato negativo sta proprio in questo: allontana coloro che coinvolge dal sentire e dal pensare ciò che vivono e li spinge ad agire senza far sedimentare e elaborare la loro esperienza.

La manipolazione dei sentimenti collettivi non insegue una loro trasformazione nella direzione di un’adesione sentita alla causa dei manipolatori bensì il loro ovattarsi che favorisce un atteggiamento acritico, conformista. La cosa più inquietante nella ricerca promossa da Facebook è lo scopo dichiarato di sperimentare tecniche che stimolino i suoi utenti a “impegnarsi”. Il contagio emotivo favorisce un impegno nelle relazioni sociali senza profondità, privo di reale partecipazione e reciprocità che è difficile sciogliere e rinnovare. Niente è più coattivamente legante dell’impegno che non impegna veramente, che resta sterile e produce immobilità.

Il consenso informato se da una parte protegge dalla manipolazione più evidente e maldestra (che è la meno preoccupante), dall’altra parte oscura la manipolazione vera e propria che non è l’induzione a sentire in un certo modo ma la neutralizzazione dei sentimenti. Essere informati non significa essere consapevoli (spesso l’alterazione della realtà è a monte dell’informazione) per cui quando apponiamo la nostra firma sul uno dei lati di un foglio non sappiamo cosa nasconde il suo lato oscuro.

L’autismo e l’ipocrisia

 Sarantis Thanopulos

Nel corso di uno scontro politico Corradino Mineo ha dato dell’autistico a Matteo Renzi. Il premier ha trasformato un’offesa rivolta a lui in un’offesa rivolta ai bambini autistici costringendo il suo oppositore a scuse immediate. È un consolidato artificio retorico spostare un contenzioso dal suo terreno reale, in cui la sua gestione è scomoda, a un terreno improprio che tuttavia consente un vantaggio nei confronti del proprio contendente dovuto alle reazioni emotive che lo spostamento ha causato. Il vantaggio sul piano emotivo ha preventivamente la meglio su un eventuale svantaggio sul piano della ragione perché la scarica emotiva può produrre effetti immediati mentre il ragionamento richiede un tempo di sedimentazione dei vissuti che è più lungo.

Se Renzi si fosse limitato a denunciare il giudizio di Mineo su di lui come offensivo sarebbe stato costretto ad entrare nel merito della critica subita al di là della sua forma eccessiva. Denunciando, invece, il suo oppositore come uomo di pregiudizi che discrimina perfino i bambini, l’ha incastrato nel ruolo di un interlocutore violento che agisce impulsivamente spinto dalla propria intolleranza e rende ogni sforzo di confronto vano.
L’ansia dei risultati immediati, di cui il premier è vittima e promotore al tempo stesso, favorisce i colpi ad effetto il cui successo ha un’influenza diseducativa sul pensiero collettivo perché scoraggia il ragionamento lucido, ponderato. Tolto il loro impatto emotivo, le deduzioni di Renzi sul giudizio di Mineo sono prive di fondamento.

Dire di un adulto che si comporta come se fosse un bambino autistico non comporta di per sé un giudizio discriminatorio nei confronti dei bambini che non comunicano con il loro ambiente, come dire che uno ha un rapporto geometrico con i propri sentimenti non implica un disprezzo verso Euclide. In entrambi i casi le critiche hanno valore metaforico e tendono a mettere in evidenza un funzionamento psichico ingiustificato oltre che improprio. A voler essere precisi, è Renzi che, involontariamente, offende i bambini autistici spostando su di loro un giudizio sprezzante rivolto a lui. “Autistico” è definito chi si chiude in sé stesso e vive isolato dal mondo.

Ci sono dei bambini che vivono in queste condizioni non per loro libera scelta e decisione ma per complessi, e in parte ignoti, motivi che li costringono. La loro definizione diagnostica come soggetti autistici non è, apparentemente, discriminatoria ma la fredda obiettività con cui osservandoli dall’esterno li chiudiamo in un recinto (che ignora la loro prospettiva) intensifica il loro isolamento. Dire che un adulto non disabile è autistico, che si comporta come un bambino isolato dal mondo senza esserci stato, quindi con una sua autodeterminazione di cui dovrebbe assumere la responsabilità, ha tutt’altro significato: è un’accusa di disumanità.

L’espressione usata da Mineo è ingiusta e controproducente: rientra nell’eccesso di passione, tipico delle relazioni private (soprattutto coniugali), che nel dibattito pubblico raddoppia il suo potenziale logorante e alza un muro di reciproca incomunicabilità. La reazione retorica di Renzi è la risposta peggiore. All’eccesso di passione si risponde accogliendo (come e dove è possibile) il desiderio di confronto sottostante e non annullando la profondità del coinvolgimento con la superficialità delle facili impressioni. La condizione di disabilità e le lacerazioni inevitabili delle nostre relazioni pubbliche e private hanno una cosa in comune: l’incompatibilità con l’ipocrisia con cui cerchiamo di camuffarle trasformandole in questioni di correttezza formale.

Il corpo tra oneri e onori. Sovrappeso ed obesità in adolescenza.

Dott.ssa L. ChiesaPsicoterapeuta

La Federazione Italiana Disturbi Alimentari ricorda che l’obesità è una patologia cronica determinata da un insieme di fattori, anche psicologici (caratteristiche di personalità) e ambientali (società, famiglia, rapporti affettivi). Per molto tempo è stata curata come patologia prettamente medica, tuttavia dietologi e medici di base evidenziano spesso una significativa difficoltà delle persone con problemi di sovrappeso ed obesità a chiedere aiuto ed a seguire diete e stili di vita adeguati; nell’obesità grave vengono addirittura richieste valutazioni psicologiche per accedere ad interventi chirurgici, che senza un adeguato trattamento psicologico rischiano di essere inefficaci o addirittura dannosi.

L’aumento di peso spesso è causato da uno stile alimentare scorretto, in molti casi basato su una dieta ipercalorica (iperfagia) ed associato ad una vita sedentaria. Nel 30% dei casi l’aumento di peso è dovuto ad un vero e proprio Disturbo da Alimentazione Incontrollata: ricorso a frequenti abbuffate, senza condotte compensatorie, nelle quali si ha la sensazione di perdere il controllo. È una ricerca di cibo senza freni, ingurgitato voracemente, in quantità eccessiva, spesso anche in assenza di fame e in un contesto di segretezza. L’abbuffata tendenzialmente si accompagna a stati di non pensiero, ma poi getta in una situazione di sconforto e di autocritica.

In un lavoro di psicoterapia che funziona, le persone prendono il coraggio di provare a capire il senso del loro sintomo alimentare e molto spesso si rendono conto che il meccanismo che innesca la ricerca compulsiva di cibo è un meccanismo emotivo: inizialmente infatti l’abbuffata dà l’illusione di eliminare emozioni spiacevoli (ansia, inadeguatezza, dipendenza emotiva intollerabile, senso di vuoto…). Ciò che spesso emerge nei disturbi alimentari è la traccia di un rapporto affettivo conflittuale nelle esperienze di dipendenza: la vicinanza affettiva è molto spesso ricercata, con la sensazione di una vicinanza infantile poco goduta, con la sensazione di avere un bisogno troppo grande, impossibile da soddisfare, che non è degno nemmeno di essere considerato, ma contemporaneamente questa vicinanza così intensamente desiderata è terribilmente temuta, il bisogno affettivo viene percepito come un punto di vulnerabilità personale intollerabile, che espone ai capricci, alle invadenze ed alle bizzarrie di un Altro poco rispettoso dell’individualità.

Chiaramente in adolescenza il corpo incontra dei fisiologici cambiamenti, che possono causare transitori stati di sovrappeso, inoltre i cambiamenti corporei impongono ai ragazzi nuove identità che potrebbero non sentirsi pronti ad assumere, o non sentirsi in grado di gestire…talvolta in ambito psicoanalitico si sente dire che il grasso copre e nasconde il corpo sessuato. Il corpo adulto rischia di demolire in modo potenzialmente dirompente l’equilibrio dei legami affettivi costruito nell’infanzia: “sono in grado di allentare il legame di dipendenza con i miei genitori? Se mi allontano loro spariscono o mi abbandonano? Rimane un vuoto? È un vuoto che mi schiaccia? Rimango con le spalle scoperte? Mi sento sguarnito e incapace di affrontare i coetanei, è colpa dei miei genitori che non mi hanno attrezzato come gli altri? È pericoloso se sento la loro mancanza? Significa che non riuscirò mai a diventare autonomo? I coetanei mi trovano interessante? Sono una persona che può piacere? Per essere amato come mi devo comportare? Devo assecondare tutte le aspettative degli altri?…” E a seguire milioni di altre domande, che accompagnano una sfida, quella del cambiamento.

Non è certamente facile per chi, da adulto, affianca la crescita dell’adolescente, capire il peso di quei chili di troppo; il rischio è di rendere trasparente la situazione, bloccati dal timore e dall’angoscia nascosti sotto quel peso: un adolescente invitato a chiedere una consulenza psicologica potrebbe anche reagire con rabbia, se la proposta muove angosce significative. Una paura (erronea) che molte volte può impedire di chiedere una consulenza specialistica, è legata all’idea che lo psicologo possa creare una relazione di dipendenza inutile e negativa, dalla quale non sì è sicuri di poter uscire, se non con delle rotture o delle fughe. Un’altra paura è legata all’idea di essere giudicati male, delle brutte persone incapaci di controllarsi o, nei panni dell’adulto, dei genitori colpevoli. O ancora ci può essere il timore che chi suggerisce una consulenza, si voglia intromettere nello spazio privato del ragazzo, attribuendogli un’identità malata, che ovviamente non vuole avere.

La consulenza specialistica invece è fondamentale: è lo strumento che permette di effettuare diagnosi precoci che porteranno a trattamenti più rapidi ed efficaci (il disturbo alimentare non curato ha un elevato rischio di cronicizzarsi). Consulenza specialistica non significa automaticamente inizio di una psicoterapia, in situazioni transitorie possono essere sufficienti pochi colloqui per assecondare o favorire un processo evolutivo già in atto, che non ha bisogno di interventi esterni. L’intervento psicologico ha sempre come fine la libertà personale, non solo libertà da (cibo, corpo sofferente, rapporti soffocanti o insoddisfacenti,…) ma soprattutto libertà per, per esprimersi e godere di ciò che si è.

Lo specchio e la morte

Sarantis Thanopulos

Athena Orchard, una tredicenne inglese, è morta di tumore qualche mese fa. Recentemente i genitori hanno scoperto una sua lettera d’addio scritta sul retro del suo specchio. La lettera resa pubblica ha avuto una grande risonanza. All’inizio della lettera Athena invita a vivere ogni giorno come se fosse speciale perché “domattina potrebbe capitarvi una malattia mortale, come è accaduto a me”. Il suo testo a “memoria futura” è ingenuo ma la sua intensità lo rende commovente e alcune annotazioni sulla felicità sono sorprendentemente acute.

La felicità, scrive Athena echeggiando inconsapevolmente Kavafis, “forse non è il lieto fine, forse è la storia”. E in un altro punto ribadisce: “la felicità è una direzione, non una destinazione”. Non è facile scrivere queste parole quando il triste fine è alle porte, interrompendo anzitempo la storia, e la direzione porta dritto alla morte come sua unica destinazione. Tuttavia si può comprendere meglio la fiducia nella vita di questa fanciulla destinata a non fiorire se si assume che una storia è nella sua essenza sempre incompiuta, senza fine, aperta alla buona e alla cattiva sorte. E la direzione non ha mai destinazione, la elude. Per Athena la felicità è l’intenso vivere, non esattamente quello dell'”attimo fuggente” ma l’eternità del semplice gesto spontaneo che crea il nostro legame con il mondo senza altra aspirazione che il fluire della nostra esperienza. Questo gesto che ignora la morte e non ha una meta definita, è la materia prima da cui prende forma il senso della vita.

Essere psichicamente vivi quando moriamo è la migliore sorte che ci può capitare ma ciò che la ostacola non è l’incombente morte fisica bensì la morte che ci abita interiormente fin dal momento che il nostro legame con lo specchio (reale o metaforico) ci insedia nelle condizioni oggettive della nostra esistenza. L’esistenza spontanea, libera di un ordine predefinito, del bambino che costituisce il nucleo originario della nostra soggettività, si struttura riflettendosi in un ordine sociale (simbolico) che le preesiste, in maniera meno ortopedica di quanto supponeva Lacan (che è stato il primo a intuire questo dramma iniziale della vita) ma comunque traumatica, (auto)alienante. La strutturazione se ci predispone alla socialità, limita, al tempo stesso, la nostra libertà di vivere un disordine creativo e di goderne. La nostra nascita sociale fa “morire” una parte della nostra spontaneità, una parte della capacità di godimento puro, privo di altre finalità, che determina l’intima sensazione di essere vivi.

Questa perdita (la radice più profonda della dimensione melanconica della vita) è riparata con l’investimento narcisistico della nostra immagine riflessa: il Narciso che alberga in noi si aggrappa al suo specchio per non sprofondare nella fascinazione della propria immagine che lo cattura dall’esterno. In “Attraverso lo specchio” di Lewis Carroll, Alice scopre in un diario un poemetto (Jabberwocky) fatto di parole senza senso e leggibile solo se riflesso nello specchio. Ogni notte è necessario attraversare lo specchio con Alice per entrare nel mondo del sogno, riscoprire un nostro personale disordine e ritrovare l’incomprensibile (nel mondo ordinato in senso logico) poema del nostro idioma soggettivo libero da una sua lettura allo specchio che lo raddrizza pregiudicando il suo dispiegamento creativo. In vicinanza della morte lo specchio può riattivare l’interruzione del flusso spontaneo della vita che si oppone allo sgomento.

Scrivendo sul retro del suo specchio Athena lo ha attraversato metaforicamente. Ha guardato la vita dal lato del sogno.

Psicoanalisi e neuroscienze

Sarantis Thanopulos

Nel suo apprezzato intervento al Congresso Nazionale della Società Psicoanalitica Italiana, che si è tenuto recentemente a Milano, Vittorio Gallese ha delineato la prospettiva di un dialogo tra psicoanalisi e neuroscienze. L’interesse di Gallese nei confronti della psicoanalisi nasce dalla necessità di superamento della concezione solipsistica della mente propria del cognitivismo classico ed è centrato sul concetto di “simulazione incarnata”: la comprensione delle emozioni, delle sensazioni e delle azioni dell’altro è ottenuta direttamente, senza la necessità di meta-rappresentarle, attraverso il riutilizzo degli stessi circuiti neurali su cui si fondano le nostre emozioni, sensazioni e azioni come se le vivessimo e le eseguissimo noi in prima persona.

La concezione di se stessi come un sé è ancorata in una “matrice intersoggettiva condivisa, noi-centrica”. Questa matrice intersoggettiva è strettamente legata alla consapevolezza del sé corporeo ed in particolare al sistema motorio che “ben prima della nascita manifesta già quelle proprietà funzionali che rendono possibili le interazioni sociali”. Sono visuali che sostanzialmente gli psicoanalisti condividono, ma ci sono due punti problematici che andrebbero dibattuti e approfonditi.

Il primo punto è la natura diversa dei fenomeni osservati. Le neuroscienze studiano i circuiti neurali: il substrato dell’esperienza intersoggettiva, la sua materialità priva di “carne viva” che può essere misurata. La psicoanalisi studia l’esperienza nella sua immaterialità incarnata: la trasformazione della “nuda vita” (il puro fatto biologico) in carne del desiderio dotata di senso, di significato personale, la qualità che non può essere misurata oggettivamente. Sono due aree di ricerca contigue e complementari (e reciprocamente condizionanti) ma non sovrapponibili tra di loro. Il luogo di passaggio da un’area all’altra, dove l’oggetto conoscitivo dell’una si trasforma nell’oggetto conoscitivo dell’altra e viceversa, è il movimento corporeo in cui la materia misurabile incontra il desiderio e diventa gesto. Il gesto non è solo un linguaggio corporeo di comunicazione intenzionale ma è anche, e in primo luogo, spinta verso il fuori da sé che il desiderio imprime al soggetto, esposizione desiderante al mondo.

Il secondo punto problematico è l'”intersoggetività”, concetto filosofico per certi aspetti irrinunciabile, per altri, invece, generico e passibile di fraintendimenti. La psicoanalisi potrebbe interrogarlo criticamente ma molti analisti preferiscono importarlo così com’è in contraddizione con la loro esperienza di lavoro. Rigorosamente parlando, i fenomeni intersoggetivi sono fenomeni che accadono tra due (o più) soggettività differenziate e sono tra di loro condivisi. Tuttavia la cosa più interessante che accade tra due (o più) soggettività è l’abolizione o lo sfumare dei loro confini. L’altro (l’uno o i molti) è parte della nostra soggettività e in questo modo la estende anche: il senso della nostra esistenza è a doppia serratura e una delle due chiavi non è in mano nostra. Come si concilia questa dimensione (la psiche è estesa e di questo nulla sa, per dirla con Freud), che sarebbe più esatto chiamare “intra-soggettività”, con il nostro bisogno di differenza? In realtà l’altro oscilla sempre, nella nostra concezione, tra la condizione di fenomeno soggettivo e lo status di cosa a sé stante.

Il perno di questa oscillazione è l’identificazione isterica: il luogo psichico in cui l’altro è identico e, al tempo stesso, diverso da noi. Il dialogo tra neuroscienze e psicoanalisi sull’alterità che ci abita può diventare fecondo.

L’ossimoro del capitalismo

Sarantis Thanopulos

In una conferenza sul “capitalismo inclusivo”, tenuta a Londra, Christine Lagarde direttrice del FMI ha affermato che il capitalismo è stato “sfregiato” da eccessi che hanno condotto a una massiva distruzione di valori, a una disoccupazione molto alta e a crescenti tensioni sociali accompagnate da disillusione politica. Secondo Lagarde per restaurare la fiducia perduta occorre cambiare le regole del gioco in modo da favorire i più e non i pochi. Si è chiesta quale fosse il fine della finanza, rispondendo: “Evidentemente non è la ricchezza il bene che inseguiamo; perché questa è utile solamente per qualcosa altro”. Citando Wilde ha aggiunto: “La vera perfezione dell’uomo non sta in quello che l’uomo ha ma in quello che l’uomo è”.

Nella stessa conferenza Mark Carney, governatore della Banca d’Inghilterra, ha ammonito che il capitalismo rischia di distruggere se stesso se i banchieri non comprendono il loro obbligo di creare una società più giusta. I banchieri, ha detto, hanno operato perseguendo solo il loro guadagno personale attraverso un sistema “testa vinco io, croce perdi tu”. In mancanza di standard etici aumenta la sensazione “che il basilare contratto sociale che sta nel cuore del capitalismo stia crollando in mezzo a una crescente ineguaglianza”. Sono affermazioni tardive ma comunque sorprendenti: il FMI e la Banca d’Inghilterra sono santuari del capitalismo e Lagarde e Carney sono membri importanti dell’establishment economico-politico internazionale.

Le loro prese di posizione sono espressione della preoccupazione che si stiano creando le condizioni per l’avverarsi della profezia di Carlo Marx: il capitalismo contiene i semi della propria distruzione. Lagarde si è domandata esplicitamente se il “capitalismo inclusivo” sia un ossimoro o un antidoto alla profezia di Marx, propendendo ovviamente per la seconda opzione. La cosa più importante nel suo discorso è il riconoscimento indiretto (la negazione che è ammissione) della natura vera del “capitalismo inclusivo”: un ossimoro vero e proprio destinato prima o poi a scoppiare. Lagarde ha citato uno studio di Oxfam (la confederazione di organizzazioni non governative con sede a Oxford che combatte la fame e l’ingiustizia): le 85 persone più ricche del mondo possiedono un patrimonio uguale a quello della metà più povera della popolazione mondiale.

Come farà il capitalismo a includere nel suo sistema le sterminate masse degli esclusi che la sua stessa natura ha determinato? Il capitalismo non è solo un sistema di produzione storicamente determinato o un’ideologia di organizzazione sociale: è anche una psicologia, un modo di sentire e di vivere i propri desideri e emozioni. Senza il tipo di psicologia di massa che promuove, il capitalismo avrebbe da tempo perso il consenso. Si regge sulla mercificazione progressiva di ogni legame e sentimento che trasforma ogni aspetto qualitativo, affettivo in quantità astratte dalla vita vera. Più se ne trae vantaggio più si resta impigliati nei suoi ingranaggi che producono il possesso puro che svuota il suo oggetto.

Cosa dà, sul piano della reale soddisfazione, ai “più ricchi del mondo” il loro essere re Mida che trasforma gli oggetti vivi in materiale inerte? Il capitalismo come sistema produttivo non è il male ma lo contiene come seme nel suo grado più elevato: la banalità assoluta descritta da Arendt, la ragioneria della distruzione fredda, anaffettiva che ha già colpito mortalmente senza che se ne traesse una lezione duratura. Se il capitalismo sarà lasciato proseguire nella sua folle corsa distruggendo se stesso distruggerà anche la nostra vita.

Né soli né in compagnia

 Sarantis Thanopulos

Un cittadino spagnolo ha chiesto a Google la rimozione di una notizia che lo riguardava pubblicata sul sito di un giornale e rimasta in rete per dieci anni. Avendo ricevuto un rifiuto si è rivolto alla Corte Europea. La Corte ha considerato il gestore del motore di ricerca  responsabile “dei dati personali che appaiono su pagine web pubblicate da terzi” e ha accolto la richiesta del ricorrente spagnolo. La violazione del diritto del singolo cittadino di essere protetto dalla diffusione dei suoi dati personali può essere giustificata solo nel caso di notizie di interesse generale che rendono preponderante il diritto d’informazione dell’opinione pubblica. La sentenza cerca di definire un confine tra il cittadino comune e colui che svolge una funzione di rilievo nella vita pubblica, come gli stessi giudici esplicitano, con tutte le aree di incertezza e di arbitrio che ogni definizione di confini comporta.

La posta in gioco in realtà è più ampia e riguarda il problema della definizione del confine tra vita pubblica e vita privata che, conviene sottolinearlo, non potrebbe avere soluzioni puramente giuridiche. La questione è più che mai complicata per l’evidente estroversione della vita privata in quella pubblica. Si può pensare ai tanti spazi e occasioni che la società attuale offre per lavare i panni sporchi in piazza ma il luogo in cui questa estroversione assume un valore paradigmatico sono gli incontri in streaming.

Lo spazio pubblico richiede che i desideri, i sentimenti e i pensieri privati restino un po’ arretrati in modo da ispirare ma non invadere con la particolarità dei vissuti soggettivi lo spazio della condivisione in cui prende forma la percezione e la definizione degli interessi comuni. Il sentimento del pudore è il prodotto della moderazione reciproca tra le emozioni personali e le emozioni collettive, l’espressione di un’intimità “sociale” che unisce e al tempo stesso separa il pubblico dal privato. Nello streaming, che sta diventando il modello dominante delle relazioni sociali ben al di là della sua concreta applicazione, sparisce l’intimità, il pudore che è condizione necessaria della socialità. L’eccesso di visibilità e di presenza scenica, che non lascia spazio alla sedimentazione dell’esperienza, favorisce l’impulsività.  L’irruzione del “personale” nella relazione con gli altri se estroverte i sentimenti privati li svuota anche perché li scarica prima che abbiano il tempo di prendere forma e sostanza. Il privato che irrompe nello spazio pubblico e lo spazio pubblico che invade il privato sono in realtà due illusioni ottiche complementari che nascondono il fatto che perduto il senso sia del privato sia del pubblico si vive in una zona grigia dell’esistenza che non è né personale né condivisa.

Non ha nessuna importanza dove stiamo e cosa facciamo: ogni momento siamo in scena, in rete. Non ha nessuna importanza se siamo visti o no, guardati o meno: ci comportiamo, senza rendercene conto, come se lo fossimo. C’è un momento fondamentale dell’infanzia, che costituisce in seguito una dimensione permanente del nostro psichismo, in cui il bambino è solo in compagnia di sua madre: è preso dai suoi giochi e dalle sue esplorazioni e non la vuole tra i piedi ma sa che lei c’è e che resta in relazione con lui. Essere soli, immersi in un mondo di esperienza personale non comunicabile, mentre, al tempo stesso siamo presenti e comunicanti nel legame con l’altro, è il fondamento della possibilità delle relazioni pubbliche come di quelle private. Alloggiare nella rete, invece, è una condizione impersonale: né soli né in compagnia degli altri.

Convegno – Vite a digiuno

  Il Dipartimento di Psicoanalisi Applicata alla Coppia e alla Famiglia (dpcf)

Area Disturbi Alimentari (A.D.A.) del dpcf

organizza il Convegno

Vite a digiuno

Napoli, 7 Giugno 2014

presso ISPPREF, via A.Manzoni, 26/B

 

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