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GIORNATE STUDIO FIDA VERONA GIUGNO-NOVEMBRE 2016

CRISI EVOLUTIVE :

LA SOFFERENZA FAMILIARE, DI COPPIA E INDIVIDUALE

Obiettivo delle giornate di studio è offrire ai partecipanti elementi teorico-clinici che aiutino a superare le crisi individuali e relazionali che si presentano nei diversi momenti di vita.

Il corso, rivolto a medici, psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, pediatri, dietologi, operatori sanitari, educatori, insegnanti è strutturato in quattro giornate. E’ possibile partecipare a tutti gli incontri o alle singole giornate pensate come moduli autonomi. Ciascun modulo è suddiviso in un momento di inquadramento teorico e in un momento dedicato ad esemplificazioni cliniche, proposte all’interno di un lavoro di gruppo, secondo la metodologia dei gruppi Balint modificata.
Nel pomeriggio è previsto un gruppo di supervisione clinica.

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FIDA VERONA – IL CORPO SPECCHIO
Giugno – Novembre 2016
Via Giardino Giusti, 4 – Verona

La genitorialità e la sua “legge” di Sarantis Thanopulos

La genitorialità e la sua “legge”

Sarantis Thanopulos

 

Nello scontro sulla genitorialità allargata ai single e alle coppie omosessuali e, di fatto, sul superamento delle modalità di procreazione “naturali”, si dimentica l’essenziale: non sono questioni di pertinenza legale. Il potere legislativo non dispone di strumenti obiettivi per stabilire chi è adatto alla funzione genitoriale o come si deve procreare. Gli “esperti della psiche” non sono in grado di soccorrerlo. Non possono chiudere il futuro delle persone nella loro sfera di cristallo: questa è la condizione perché riescano a pensare e a conoscere. La legge può intervenire in modo normativo, arbitrario (l’ha fatto nel passato e continua a farlo), ma col rischio di creare, a lungo andare, problemi peggiori di quelli che, si suppone, voglia risolvere. Un suo intervento limitativo della possibilità di diventare genitori può essere necessario in caso di sofferenza psichica o intellettiva grave, ma anche in questo caso l’arbitrio è grande.

L’assunzione della funzione genitoriale e le modalità di procreazione non possono essere preventivamente regolate senza cadere nel pregiudizio. La possibilità di essere genitori non dipende primariamente dal buon carattere, la sensibilità, l’attenzione, l’accoglienza, il buon senso, la fermezza, il rigore (qualità in parte necessarie, ma non sufficienti), la serenità della vita sentimentale, la presenza stabile di un partner (condizioni facilitanti, ma non strettamente necessarie) e neppure dal carattere eterosessuale o omosessuale del legame d’amore in cui si è impegnati. La cosa che davvero conta, è essere vivi sul piano del desiderio: capaci, in potenza, di perdersi e di ritrovarsi nell’incontro erotico. Questo implica un senso di responsabilità nei confronti dell’altro desiderato, il suo rispetto come soggetto desiderante, la partecipazione alla comune regolazione dell’intensità e della profondità dell’incontro.

La funzione genitoriale non ha a che fare con l’appagamento dei bisogni materiali dei figli (che può avvenire anche in modo impersonale, senza un riconoscimento reciproco). È fondata sulla possibilità iniziale di relazionarsi con i loro desiderio erotico: la ricerca di un rapporto sensuale con la vita, non la sessualità vera e propria (che si sviluppa a partire dall’adolescenza), ma l’esplorazione del mondo -che è anche sperimentazione- mediante l’immaginare, il sognare e pensare che nascono dai sensi (la “meraviglia” di cui è capace la sensorialità). La capacità dei genitori di andare incontro alla crescita erotica dei figli (decisiva per quella affettiva e intellettiva) non è racchiusa nella “radiografia” del loro profilo psicologico. Il desiderio di essere genitori è coabitato dal desiderio dei figli, si legittima nella relazione con loro. Questa relazione, non è fatta solo di comportamenti effettivi, ma anche di potenzialità e di intuizioni, che attraversano i conflitti e le inibizioni e sfidano la prevedibilità.

Se la legge non può impedire l’accesso diretto o indiretto alla genitorialità, senza recar danno pregiudiziale alla libertà, a maggior ragione non può garantirne la buona riuscita. Ciò che non può essere deciso dalla legge, né tantomeno dalle convenzioni morali, che puntualmente cercano di erigersi a legalità, è affidato al nostro senso di responsabilità.

La responsabilità dei genitori nei confronti dei figli nasce nell’ambito della co-costituzione delle loro soggettività desideranti. L’autorità legislativa non la può determinare, né definire. La può solo favorire con leggi che difendono il rispetto delle differenze e la parità dei soggetti desideranti in tutte le relazioni di scambio.

Interrogare la reverie.

Interrogare la rêverie.
S. Thanopolus  discute con R. Panettoni e G. De Giorgio.

Il Centro di Ricerca Tiresia.
Filosofia e Psicoanalisi del Dipartimento di Filosofia Pedagogia e Psicologia dell’Università di Verona

invita

Sarantis Thanopulos (membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana con funzione di Training) a tenere una relazione dal titolo: Interrogare la rêverie.
Discuteranno con Thanopulos sul tema Riccardo Panattoni Professore Ordinario di Filosofia Morale e Responsabile del Centro di Ricerca Tiresia e Graziano De Giorgio membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana e full member dell’International
Psychoanalytical Association.

L’incontro si terrà sabato 13 febbraio alle ore 10.00 presso la sede universitaria di via San Francesco n.22 nell’aula 1.6
al primo piano.

La partecipazione è gratuita. Il numero di posti limitato.
Vi invitiamo ad inviarci via e-mail la vostra iscrizione.

scarica la locandina

Atene e la supremazia occidentale di Sarantis Thanopulos

Atene e la supremazia occidentale

Sarantis Thanopulos

La decisione del governo di Danimarca, condivisa dalla maggioranza dei danesi, di confiscare ai rifugiati i loro beni superiori al valore di circa 1350 euro, come contributo alle spese del loro mantenimento, qualche senso di colpa l’avrà provocato anche tra i suoi sostenitori. Tuttavia, i sensi di colpa si inchinano sempre alla “forza maggiore” (le reazioni impulsive alle difficoltà) e sono assai utili nell’arredo dell’auto-assoluzione: se si diventa inumani per “necessità”, si torna umani con un po’ di dolore. Se le ferite che infliggiamo ai più deboli, sfociassero dentro di noi in un senso di vergogna, invece che di colpa, le cose nel mondo andrebbero meglio. La vergogna è la trasformazione della ferita dell’altro in ferita del nostro amor proprio: ci umilia la sua umiliazione.

L’incapacità di vergognarsi, di cui diamo prova ampia, è coperta con un principio considerato di buon senso: si deve rispettare la casa di cui si è ospiti perché l’ospitalità possa essere offerta. Questo non è chiaro come possa valere quando le relazioni di scambio e di buon vicinato sono sconvolte e mentre la casa gli uni la mantengono, gli altri l’hanno perduta. Le regole della buona educazione e del rispetto reciproco non valgono, quando le loro premesse sono sconvolte.

Gran parte dell’Occidente è tentata a far sentire la voce del padrone con i suoi ospiti: “A casa mia comando io”. Sennonché, le regole di gestione della propria casa non sono più valide, se cambia rapidamente la composizione di chi la abita e diventa anche confusa la distinzione tra interno e esterno. In queste condizioni, l’unica alternativa al caos e all’arbitrio è il principio della fraternità universale: tutte le persone sono pari sul piano del desiderio, indipendentemente dalla loro differenza sul piano dei bisogni, delle capacità fisiche e mentali, del sesso, delle scelte sessuali, della cultura, della religione e della concezione del mondo. Ogni conflitto, derivante dalla differenza, può essere realmente risolto solo all’interno di questa prospettiva, che vede la differenza come condizione della persistenza e dell’appagamento del desiderio.

La differenza ci fa confliggere ma ci fa anche sentire desideranti e vivi. A due condizioni: a) che la differenza non sia confusa con l’estraneità, quando il più forte annienta il più debole che gli attraversa la strada; b) che la differenza identitaria dell’uno non domini quella dell’altro, trasformando la loro coesistenza in annessione e sfruttamento. In entrambi i casi, la differenza di fatto svanisce: essa non ama la supremazia dell’uno sull’altro; cresce nell’eguaglianza.

L’occidente è convinto della supremazia dei suoi valori. La sua autoreferenzialità è contraddetta dal fatto che i valori fondamentali, dai quali emanano tutti gli altri (se non sono funzioni normative, strumentali), sono espressione della materia viva dell’umanità, non sono fabbricati da una cultura che li possiede. Coloro a cui condizioni storico-culturali hanno consentito un miglior riconoscimento e inquadramento di questi valori, dovrebbero spogliarsi di ogni senso di superiorità e diffonderli con umiltà, rispettandoli nelle loro relazioni con gli altri.

La supremazia occidentale poggia su un potere economico, politico e militare che dei valori etici fa tranquillamente a meno. È la grande contraddizione storica della democrazia: con l’esercizio del potere nelle sue relazioni esterne viola palesemente i principi della sua costituzione. Manifestazione di un’ambiguità del suo funzionamento interno, incompiutezza che l’Atene di Pericle ha compensato con l’arroganza. Non è andata bene.

Uccidere i genitori di Sarantis Thanopulos

Uccidere i genitori

 

Sarantis Thanopulos

 

Un ragazzo ha ucciso la madre e ferito gravemente il padre della sua fidanzatina, con la complicità di lei. Le vittime si opponevano al loro legame. Una ragazza ha ucciso la madre che le aveva proibito l’uso di internet, a causa del suo cattivo rendimento a scuola. In occasione di queste catastrofi affettive ci si interroga sempre sui motivi. Regolarmente le cause scatenanti appaiono del tutto sproporzionate all’enormità dell’azione in cui trovano sbocco.

Nel primo interrogarsi sull’uccisione dei genitori, nell’ambito della tragedia greca, lo sguardo si muove tra l’omicidio preterintenzionale del padre (Laio) da parte di Edipo e l’omicidio intenzionale della madre (Clitemnestra) da parte di Oreste -istigato dalla sorella Elettra. Edipo cancella dalla sua strada un padre di cui ignora l’identità, un estraneo che non l’ha riconosciuto come figlio. La responsabilità è di Giocasta: estorcendo un figlio da Laio, che ne era contrario, l’ha espulso dalla sua vita di donna/madre. Oreste elimina intenzionalmente Clitemnestra, perché lei, uccidendo Agamennone, l’ha privato del padre, delegittimandolo come uomo. Il parricidio di Edipo certifica la non esistenza del padre, il matricidio di Oreste afferma la necessità della sua permanenza.

In entrambi i casi, l’eliminazione del padre da parte della madre è un atto intenzionale che rescinde il legame di lui con il figlio. Mentre Edipo fa propria l’intenzione materna, inconsapevole del suo significato e delle sue implicazioni, Oreste afferma la propria opposta intenzionalità e elimina la madre uxoricida. Il primo precipita nel baratro della cecità, il secondo si avvia a un doloroso riscatto.

La prospettiva tragica lega l’uccisione dei genitori alla dissoluzione del legame coniugale. La dissoluzione fa diventare la madre una figura autocentrata che, ignorando la figlia, usa il figlio per annientare il padre. Per i figli -fratello e sorella- l’unica salvezza possibile è di sconfiggere la volontà autocratica che la madre/Sfinge incarna. Senza cadere nella tentazione di risposare la sua causa, restaurandola nella sua potenza (la contraddizione in cui si è perso Edipo).

La tragedia colloca il parricidio e il matricidio al centro del conflitto psichico dell’essere umano: la sua oscillazione tra l’uccisione interiore preterintenzionale del padre, che lo lascia indefinito nella sua identità, e l’uccisione intenzionale della madre autocratica, che gli consente di definirsi. L’uccisione concreta della madre e/o del padre, denuncia l’impossibilità del conflitto (il cui esito decide il grado di sanità psichica del soggetto). La sostituzione della sponda genitoriale allo sviluppo di una vera conflittualità con regole astratte, al tempo stesso restrittive e indefinite, preclude ai figli lo sviluppo di una vera intenzionalità e responsabilità. L’eliminazione fisica del genitore rende manifesto il vuoto nel luogo psichico che dovrebbe ospitarlo come autorità interna. L’esplicitazione del vuoto interno invoca l’intervento di un’autorità normativa esterna, cerca nella punizione l’argine all’indeterminatezza della propria vita.

La lezione da trarre dal matricidio e dal parricidio, è che la relazione tra genitori e figli non è naturale, né sacra, ma un riconoscimento reciproco tra soggetti desideranti. La genitorialità non è una funzione che si eredita: i genitori se la devono conquistare. Quando i genitori non riescono a impegnarsi in modo personale e si affidano a un’anonima interpretazione normativa della loro funzione, i figli possono cercare nella norma il genitore “vero” e materializzarlo nell’intervento repressivo della legge.

Il “Mercato delle Leucemie” di Sarantis Thanopulos

Il “Mercato delle Leucemie”

Sarantis Thanopulos

 

Che la riunione dei responsabili delle vendite di una casa farmaceutica inizi con la frase “Come va oggi il mercato delle leucemie?”, è pura routine, niente affatto una trovata da film sul cinismo dei mercanti della salute. I venditori parlano direttamente di malattie e non di farmaci, per quella mancanza di etica che è frutto dell’obiettività: le malattie muovono le vendite più dell’efficacia dei farmaci che dovrebbero curarle. Più ci si ammala, più si vendono farmaci, perché chi si ammala ne fa necessariamente richiesta, nella speranza (a volte fondata, a volte no) o nell’illusione (che non ha bisogno di essere fondata) che possano servire.

Il paradosso di cui il mercante farmaceutico si fa, dal suo punto di vista, carico, è che più i farmaci funzionano più le malattie diminuiscono, così si vende e si guadagna di meno. Di fatto il mercato della salute deve evitare che i pazienti muoiano o guariscano presto. Sempre più malati in vita, o malati a vita, è il sogno, per nulla proibito, di ogni imprenditore della salute. La prevenzione delle malattie, se non richiede l’uso di sostanze, è controproducente. Dove è possibile (spesso nel campo psichiatrico), la malattia si inventa e se ci sono condizioni che la favoriscono è meglio non stracciarsi le vesti (per l’industria farmaceutica i mali non vengono mai per nuocere).

Essere malati (di qualsiasi cosa, “basta che funzioni”) sta diventando, nostro malgrado, cosa a sé dissociata dalla condizione di sanità. Una preoccupazione permanente che rappresenta una delle chiavi del nostro inserimento impersonale nel registro dei rapporti di scambio mercificanti. La malattia si sta imponendo come fattore di stabilità e questo fa delle cure/non cure mediche un organizzatore potentissimo della vita sociale.

Le implicazioni per la medicina, non ancora in primo piano ma in piena evoluzione, potrebbero essere devastanti: la spersonalizzazione estrema del rapporto con il paziente, la sostituzione della cura con la fornitura di assistenza pura (l’equiparazione culturale/psicologica delle persone con gli elettrodomestici della loro casa), la sostituzione dei medici stessi con dispositivi informatici altamente specializzati (sono già in progettazione applicazioni da smartphone che dovrebbero mandare in pensione il medico personale). La possibilità di profitti esponenziali gioca un ruolo nella trasformazione della medicina in strumento di conservazione tendenziale dello stato di malattia, che sposta silenziosamente gli investimenti verso le terapie di mantenimento. Tuttavia, i profitti non sono sufficienti da soli a spiegare la perversione generalizzata del rapporto con la salute e la riduzione tendenziale dei dispositivi terapeutici in strumento compiuto di potere puro.

Esiste in ognuno di noi una dimensione psichica in cui lo stato di malattia (reale, potenziale o immaginario che esso sia) è dissociato dal suo decorso e sospeso nel suo esito. Investito narcisisticamente, produce un senso segreto di soddisfazione perché crea la fantasia di una separazione dal mondo reale e le sue frustrazioni, favorendo l’illusione di un mondo centrato su di sé. Il narcisismo è rinforzato dal masochismo che ogni malattia implica: la sfida al dolore e al pericolo di morte o di menomazione che, investita libidicamente, contrasta il desiderio di guarigione e il piacere di vivere.

La sinergia tra una società che produce profitti e una società di invalidi, nella quale essere sani non si distingue in nulla dal sopravvivere, è in cammino e i “governi dei cittadini” dormono tranquilli, fino a quando a suonare la sveglia non sarà l’incubo.

 

L’oscuro oggetto del desiderio e l’analista di Sarantis Thanopulos

L’oscuro oggetto del desiderio e l’analista

 

Sarantis Thanopulos

 

Può l’analista gestire il proprio lavoro senza mai sentirsi toccato nel suo modo più personale di essere e entrare in crisi? La domanda è stata posta al “Colloquio” organizzato il weekend scorso dal Centro di Psicoanalisi di Palermo e avente come tema il “controtransfert”.

Il controtransfert è la reazione dell’analista al “ transfert” del paziente. Il transfert è la tendenza universale a trasferire nelle relazioni significative della vita aspetti conflittuali rimossi della propria infanzia nella speranza che possano essere risolti. Anche il controtransfert ha carattere universale: ci relazioniamo con le persone a cui siamo affettivamente legate, accettando, inconsciamente, di abitare, in parte, la scena della loro storia obliata.

L’analisi è impostata in modo da facilitare lo sviluppo di entrambe le correnti, che sono fatte della stessa materia del sogno, il luogo in cui i vissuti rimossi tornano alla vita. Attraverso la comprensione del posto che inconsciamente occupa, di volta in volta, nella storia del paziente, che torna al presente, l’analista può accedere alla natura più profonda della domanda che gli è rivolta. Ciò gli consente anche la riparazione delle aree di una propria cecità nei confronti della relazione, l’elaborazione della riluttanza ad affrontare questioni che attivano i propri conflitti inconsci.

L’analista è impegnato in modo più diretto quando incontra il paziente a partire dal proprio desiderio e mette in discussione il proprio modo di essere nel mondo. L’analisi riceve dalla madre del paziente in eredità il modo in cui lei l’ha accolto. La madre accoglie il bambino in due modi opposti. Per certi aspetti proietta su di lui parti irrisolte di sé e, affidandogli un ruolo messianico, rimanda al futuro, in modo consolatorio, l’incontro con l’inconsueto. Nella direzione opposta, il nuovo arrivato attiva in lei il desiderio di rimettersi in gioco, accettando le perturbazioni necessarie di cui è foriero il cambiamento. Più la madre (sostenuta dal padre) riesce a mantenersi nella seconda prospettiva, più il bambino è vivo e desiderabile e la madre gode della riapertura dei propri confini con la vita.

L’analista deve farsi carico di situazioni in cui la madre non è riuscita a far sentire il figlio pienamente autorizzato a essere vivo per conto suo. Nelle condizioni più drammatiche il paziente lotta per evadere dalla prigionia di uno sguardo esterno alla sua soggettività, che ha preconfezionato la sua posizione nel mondo. Non può farlo se non destabilizza l’assetto dell’analista, obbligandolo a uscire dal suo centro di gravità, a esporsi, rischiare. L’analista è in difficoltà: la persona che cura si è posta fuori dall’obnubilamento della propria esistenza e non vuole essere interpretata, ma vista come se fosse arrivata al mondo per la prima volta. La domanda del paziente, inevitabilmente contraddittoria e confusa, disorienta. L’analista rischia una crisi perturbante d’identità, la confusione dei propri interessi con quelli dell’altro (il caso di Jung con la Spielrein). Tuttavia, questa è per lui l’opportunità di andare oltre la paura che oscura il nostro oggetto di desiderio, al punto di fare dell’oscurità la cosa desiderata. Scoprire che l’irriducibile differenza dell’altro, percepita come minaccia di destabilizzazione della propria identità (il fondamento della paura), è per costui l’unica possibilità di sentirsi vivo. Chi è veramente vivo non ci minaccia, il pericolo viene dalla non vita che invade la vita. Liberare la vita dalla morte, attraversando una crisi delle proprie vedute, è la vocazione di fondo dell’analista.

L’obesità e l’educazione sentimentale di Sarantis Thanopulos

L’obesità e l’educazione sentimentale

Sarantis Thanopulos

La cattiva alimentazione accorcia di molto la vita. L’obesità è sotto accusa e il mercato delle diete è più florido che mai, in sinergia fruttuosa con l’industria alimentare che lo nutre.
Il rapporto con il cibo ha le sue radici nell’esperienza dell’allattamento. Con un allattamento buono il bambino ottiene tre cose: si sfama; gusta il piacere del latte; gode sensualmente del seno materno. Il godimento del seno è la cosa più significativa che sovradetermina le altre due. Crea un coinvolgimento profondo e apre il bambino al mondo.
Se la madre non riesce a farsi coinvolgere (perché ha paura di perdere la gestione di sé a partire dal suo corpo) il bambino si sente ingannato. Si è sfamato e forse ha avuto una buona esperienza “culinaria”, ma il suo desiderio erotico è rimasto frustrato. Tuttavia, deve rimangiare la sua rabbia perché il distacco della madre, che superata una soglia di coinvolgimento si ritrae sul più bello, è da lui vissuto come eclissi irreparabile che gli fa temere di averla distrutta.
Il bambino può puntare tutto sulla poppata per compensare l’assenza di piacere erotico. Investe la piacevolezza del latte e il sollievo che gli procura l’appagamento del bisogno fisico. Ottiene così un effetto calmante che appaga anche il bisogno psichico di stabilità e sicurezza. La compulsione della poppata (in cui sopravvive, in negativo, la domanda, caduta nel vuoto, del desiderio) è al servizio della fantasia di un seno potente e florido, che argina l’ansia del bambino di averlo svuotato di vita. Spesso il compromesso con cui il lattante si inganna, per non sentirsi ingannato, si incastra con l’esigenza della madre di mantenersi eccitata (invece di sciogliersi) per sfuggire al proprio senso di vuoto che il suo mancato coinvolgimento determina. A un certo punto il bambino succhia il capezzolo non per poppare, ma per pompare, erigere il seno.
Quando il rapporto del bambino con il seno prende questa strada la probabilità che l’obesità si affacci nel suo destino è molto alta. Nelle famiglie dei bambini obesi le relazioni sono inconsciamente influenzate dal fantasma narcisistico di un corpo sferico, perfettamente a sé stante, che sottende un modello di funzionamento familiare centrato sulla sicurezza e la stabilità e restio agli scambi con l’esterno. Dove il fantasma prevale la famiglia vive in uno stato di gravidanza permanente che trattiene i sentimenti e la creatività e rifiuta i cambiamenti. I figli non sono veramente partoriti alla vita e la loro crescita (vissuta come rottura di un equilibrio) è costantemente dilazionata.
Questa è una situazione estrema, ma il bambino obeso è sempre il sintomo di una difficoltà nella circolazione libera dei sentimenti (che implica un difetto di intimità e di compenetrazione). I sentimenti tendono a dissociarsi dal desiderio e legarsi prevalentemente ai bisogni. La gestione omeostatica dei sentimenti, che esclude l’imprevisto dell’eros, si sposa con un’alimentazione centrata sull’eccitazione della piacevolezza superficiale (che crea dipendenza) e/o l’effetto calmante, stordente dell’abboffarsi.
Le diete restrittive creano illusioni effimere. Tendono a mantenere l’ideale di stabilità nell’immobilità sotto forma di canone estetico o di prescrizione morale della normalità. La cosa davvero utile è l’educazione sentimentale: imparare a sentire il gusto delle cose, a cogliere le sfumature che le differenziano, a lasciarsi prendere dal loro profumo per sostare nel loro godimento profondo. Un godimento che rifugge il consumo compulsivo, il piacere di superficie che seduce il palato e lascia l’anima fredda.

L’inconscio e la rete di Sarantis Thanopulos

L’inconscio e la rete

Sarantis Thanopulos

Esiste un inconscio digitale? La questione è stata affrontata nell’ambito dell’Internet Festival a Pisa in un dibattito tra psicoanalisti intitolato: “Il buio oltre la rete”. L’inconscio digitale, il cui teorico è Derrick de Kerckhove, sociologo canadese, sarebbe l’enorme massa di dati sulla nostra vita presenti nella rete e potenzialmente estraibili.
Kerckhove sovrappone due cose diverse. La prima è l’inconscio come modalità di funzionamento mentale, che produce dati inaccessibili a una loro conoscenza diretta. La seconda è il processo di accumulazione di dati di cui non si è consapevoli, perché fanno parte della “spazzatura” di uno scambio informativo che consuma i suoi dati molto in fretta o perché si producono come informazioni potenziali che restano in attesa di una loro estrazione e uso. Questi dati sono direttamente conoscibili a condizione che si adoperino procedure di recupero appropriate. Non sono dati inconsci, ma caso mai “preconsci”: sono ai margini della nostra coscienza ma possono essere richiamati in essa e usati.
L’approssimazione con cui i teorici della tecnologia digitale trattano il “fattore umano” è in relazione con una concezione ideologica del pensiero che lo configura come rete di connessioni neuronali assimilabile al linguaggio computazionale. È una prospettiva fuorviante: il pensiero umano è indissociabile dalla corporeità/gestualità e dall’affettività. La sua creatività è direttamente proporzionale all’estroversione (apertura all’inconsueto) della soggettività desiderante.
Non esiste un pensiero esclusivamente fondato sul calcolo matematico (che sorregge l’intelligenza artificiale), totalmente forgiato dal principio logico della non contraddizione. Pensiamo in modo logicamente insaturo, pieno di lacune e incoerenze che sono colmate da pensieri contraddittori, liberamente associati tra di loro. Questa componente illogica del pensiero conscio è di natura metaforica: trasporta una rappresentazione mentale da un campo di esperienza all’altro, crea connessioni per analogia e ignora la coerenza.
La qualità metaforica del pensiero ha la sua vera dimora nel sogno: crea ponti tra il puramente soggettivo (la realtà secondo il desiderio), che è in sé inconoscibile, e l’oggettivo (la cosa esistente indipendentemente dal nostro desiderio), che può essere conoscibile solo se accessibile (trasformabile) al (dal) soggettivo. Nella sua più intima essenza il pensiero metaforico non può essere che inconscio; penetra, tuttavia, nel campo del pensiero conscio e gli imprime la sua spinta creativa, trasformativa, allontanandolo dal versante del puro adattamento alla realtà.
Il sogno, la metafora estendono la mente oltre i confini individuali. L’intelligenza artificiale è una sua protesi nel campo del calcolo. Sfrutta la realtà oggettiva come supporto “logistico” dell’esistenza, ma non la trasforma. La coerenza e la perfezione matematica del suo funzionamento, messa a confronto con la contraddittorietà del funzionamento della nostra mente, può sedurre quest’ultima. La più sottile e insidiosa forma di questa seduzione sta diventando un fenomeno di massa in internet. La “connettività” prevale spesso sulla comunicazione, a cui dovrebbe fare da supporto, e svuota di senso la collettività: lo spazio comune del nostro desiderare, sentire e pensare. Più la connessione ci distrae da noi, più siamo inconsapevoli della nostra posizione nella rete, perché diventiamo preda di parametri oggettivi, frutto del caso e della necessità, che hanno un effetto spersonalizzante. Questo è l’opposto dell’inconscio, la fonte della soggettivazione della nostra esperienza.

La follia sociale di Sarantis Thanopulos

La follia sociale

Sarantis Thanopulos

Dell’autore dell’ennesima strage avvenuta in un college americano, si sa poco. Si presentava come un conservatore repubblicano, spirituale ma non religioso, criticava il consumismo, aveva un rapporto morboso con la madre separata dal marito e non aveva mai avuto una ragazza. Nessuno di questi fatti, preso in considerazione in precedenza, avrebbe permesso di prevedere e prevenire il suo gesto, anche se l’aver indicato tra i suoi hobby l’uccidere gli “zombi”, getta un po’ di luce, a posteriori, sul meccanismo della sua azione.

I repubblicani si sono aggrappati alla malattia mentale, protestando per i pazzi lasciati girare liberamente tra la gente normale. Pensano che gli autori di queste stragi siano malati mentali geneticamente predeterminati, per nulla collegati al disagio sociale. Il loro agire sarebbe facilitato dall’eccesso di tolleranza nei confronti della devianza e solo insegnanti addestrati all’uso delle armi potrebbero fermarli.

In contrasto, Obama ha riproposto il bando alla diffusione incontrollata delle armi. La ragione è dalla sua parte (l’opinione pubblica in gran parte no). La libera vendita delle armi non determina direttamente le stragi, ma facilita palesemente il loro compimento. Fatto ben più grave: è l’ideologia sottostante alla vendita il “mandante morale” degli assassini.

È grave circoscrivere le cause dei raptus di follia omicida nell’ambito della malattia mentale individuale. Non per capirne la natura, ma per decretarne l’inaccessibilità, per chiuderle nel recinto di un’insondabile mostruosità da isolare e reprimere. Per quanto sia molto difficile accettarlo, le stragi compiute da una singola persona, senza un movente definito, non sono azioni individuali. Individuale può essere l’atto folle compiuto sotto l’effetto di un’alterazione della percezione della realtà di tipo delirante e/o allucinatorio, in cui l’alterazione stessa è il tentativo disperato di individuazione, attraverso la personalizzazione della propria esperienza, in un mondo altrimenti privo di senso. Tuttavia, questo atto non sfocia mai in una strage indiscriminata e raramente arriva all’omicidio.

Il pluriomicida di Oregon non appartiene alla categoria delle persone che impazziscono per soggettivarsi, che si “rompono” per non disumanizzarsi. Ha da tempo pagato il prezzo di una spersonalizzazione estrema della sua esistenza per non andare in pezzi. Si è mantenuto compatto aderendo a stereotipi (la cui incoerenza non fa che rinforzare l’indifferenza del vivere che promuovono). La sua azione di morte è stato un gesto estremo di dis-individuazione.

Quando il vivere soggettivo tende a ridursi a un fatto oggettivo e si diventa zombi, ciò che resta vivo prende le sembianze di fantasmi che ossessionano. Si uccide per far sparire questi fantasmi. Per nascondere al proprio sguardo lo zombi in cui si è trasformati. Si proietta questo zombi (in cui sopravvive ancora qualcosa di sé) negli altri e lo si elimina.

La follia (non lo stato alterato di coscienza che può avere cause organiche) non alloggia primariamente nelle persone e nelle relazioni familiari, anche se è lì che si estrinseca e può assumere una forma privata, personale, o anonima. Abita le relazioni sociali, i luoghi della loro oggettivazione in rapporti di potere puri, totalmente astratti dal desiderio.

Cosa significa la compulsione ad essere armati, se ciò non protegge dalla violenza ma espone maggiormente ad essa? La volontà di schermarsi, di annullare l’apertura alla vita: far a meno dell’altro, la forma assoluta del potere. Questa volontà fabbrica da sola, nel silenzio, i suoi “mostri”. Non li importa da Marte.