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Alimentazione ed età evolutiva – Equipe CPF

Alimentazione ed età evolutiva in un approccio psicologico dal punto di vista della norma e della deviazione.

L’alimentazione quale soddisfacimento della fame e della sete di cui, fin dalla nascita, necessita la vita dell’organismo è un bisogno fisiologico ma è anche una condizione che ha delle conseguenze psicologiche.

L’alimentazione è carica di valenze psicologiche fin dai primi giorni di vita dove si è riscontrata la rilevanza delle modalità dell’allattamento per quando riguarda l’atteggiarsi ed anche il successivo comportarsi del bambino verso il mondo che lo ospita.

L’atto di nutrirsi, oltre che soddisfazione di un bisogno è quindi anche il modo con il quale il bambino, specie il lattante, entra in relazione con l’ambiente.

Un bambino piccolo, un neonato quando piange, strilla perché ha fame, ad un certo punto viene preso in braccio da sua madre per essere nutrito.

Il bambino smette allora di piangere, certamente perché la fame è stata sedata ma oltre al cibo, il bambino ha ricevuto dall’altro: vicinanza fisica, calore, si è sentito accarezzare da una voce… L’allattamento è quindi un momento di comunicazione e di reciproco scambio del neonato con la madre durante il quale, attraverso tutta una serie di sensazioni, egli vive esperienze che, se gratificanti, si traducono in uno stati di benessere fisico e psicologico.

Nella questione dell’alimentazione e delle problematiche connesse vediamo l’intrecciarsi in varia misura di numerose variabili: disposizioni metaboliche, spinte psicologiche, condizionamenti economici e culturali.

Per questo anche nell’indagine eziologia dei disturbi dell’alimentazione è fondamentale tanto prendere in esame la psicopatologia individuale, quanto ugualmente importante è l’individuazione dei fattori storici, culturali e metabolici che, concorrendo tra loro sono veri e propri fattori di rischio, favoriscono l’espressione dei disturbi e della crescente diffusione.

E’ necessario esaminare tutto quanto riguarda l’alimentazione e in senso lato i fattori nutrizionali alla luce di un contesto complesso.
Tale contesto è costituito dall’ambiente totale in cui l’individuo è immerso e per la specie umana l’ambiente totale comprende la natura, la società, la famiglia, le tradizioni, l’economia e altro ancora Riteniamo importante sottolineare che l’alimentazione costituisce un fatto in primo luogo culturale. Disponibilità e utilizzazione delle risorse contribuiscono a fare si che gli adattamenti siano diversi per le differenti popolazioni del mondo sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo.

Mangiare non si riduce al solo soddisfacimento di un bisogno fisiologico, lo sfamarsi, ma è anche e soprattutto l’acquisizione di regole della convivialità, dello stare insieme, del gusto, della tradizione familiare e culturale.

L’esistenza stessa di una “cucina”, di una cultura gastronomica, mostra bene come l’elemento alimentare devi strutturalmente dal solco della natura. C’è tutto un sapere (basti pensare alle ricette e ai trattati sul gusto) che investe l’alimento e lo stacca irrimediabilmente dalla sua radice naturale, rendendo il cibo è fatto di cultura.

La civiltà occidentale nel corso del tempo ha modificato i modelli di bellezza e di eleganza della figura umana. Tali modificazioni sono riscontrabili nel cambiamento del concetto di “linea ideale”.

Senza addentrarci nell’analisi delle cause di tale modificazioni, possiamo cogliere il risultato considerando quando sia cambiato nei maschi e nelle femmine il concetto di “linea ideale” e come queste convinzioni influenzino il nostro stile di vita.

Trattare questo tema dal punto di vista della norma e della devianza ci porta da un lato a parlare di salute e di malattia, di sviluppo normale e sviluppo patologico e dall’altra a considerare come modificazioni culturali abbiano determinato concezioni differenti circa le abitudini alimentari .

La pratica del digiuno, non era assente in altre epoche ma era originariamente una pratica etica, per principio contraria ad ogni estremismo patologico.

Era una pratica che puntava, alle origini della medicina occidentale, alla salute del corpo e, nondimeno alle origini della morale occidentale, alla salute dell’anima.

Alle soglie del cristianesimo la pratica del digiuno iniziò connotandosi, nella prospettiva del dualismo oppositivo tra anima e corpo come uno strumento essenziale nella lotta del soggetto contro le forze diaboliche, nel segno di un’esigenza morale di purificazione di ascesi, di liberazione dello spirito dalle catene infette della carne.

Quindi il mistico, attraverso a rinuncia progressiva all’avere, e perché no, anche col digiuno, poteva cosi realizzare di svezzare l’anima.
Di qui il diffondersi, soprattutto nel tardo medioevo, delle esperienze mistiche di giovani santi che facevano ruotare le loro aspirazioni trascendente proprio sul rifiuto del cibo.

La “santa anoressica” si nutriva solo dell’ostia consacrata, riusciva all’avere per condurre una vita autenticamente religiosa.
Cercheremo ora di collocare quanto detto fino ad ora relativamente all’alimentazione in relazione allo sviluppo evolutivo, ponendo particolare attenzione ad alcuni momenti dello sviluppo quali: l’allattamento, lo svezzamento, la pubertà (la scolarità) e l’adolescenza
L’allattamento ha subito nel corso dei secoli vari accomodamenti e regolazioni, legate ai costumi, ai valori sociali ed economici del tempo.

Nell’Europa agli inizi dell’età moderna, l’allattamento al seno durava da un anno a diciotto mesi: un impegno così gravoso da essere ceduto con regolare contratto economico. La balia aveva avuto anche nei tempi antichi il ruolo di nutrire i figli dei ricchi ma dal 1600 al 1800 fu adottata dai ceti medio alti, non appena fosse stato possibile insieme il modesto corredo che le povere contadine richiedevano come compenso.

La medicina ufficiale, però per tutto il 1700, si batté contro il baliatico: si pubblicavano statistiche sull’alta mortalità dei neonati allontanati dalle madri, sull’infelicità dei piccoli e sul pericolo della disaffezione tra genitori e figli.

Nel XII sec., fu celebre la campagna condotta in Inghilterra a favore dell’allattamento al seno. Veniva citato Plutarco, che nei Moralia aveva già commentato come l’allattamento al seno fosse la condizione primaria per un buon attaccamento tra madre e figlio.

Intorno alla metà dell’‘800, le donne delle classi agiate allattavano ormai personalmente i figli, almeno nei primi tre mesi.

Da allora i criteri dell’economia e della moda hanno regalato le sorti di questo comportamento. L’allattamento presenta un percorso discontinuo, da rimedio alle separazioni dovute al lavoro materno, a scelta di classe per l’estetica del seno femminile, a ultima risorsa della pediatria moderna che ha riscoperto il valore del latte materno: per ragioni immunologiche, di regolazione del rapporto, di igiene e altro ancora.

L’alimentazione dal neonato all’adolescente rappresenta un aspetto essenziale di acquisizione di abitudini che avranno maggiori probabilità di essere mantenute in maniera naturale per il resto della vita.

Relativamente all’allattamento, attualmente è avvallata in tutto il mondo anche tecnologicamente più avanzato la superiorità del latte di donna rispetto a quelli artificiali: infatti il latte di donna oltre ad assicurare un migliore accrescimento, assicura la migliore (il che non vuol dire assoluta) protezione dalle infezioni, oltre agli aspetti psicologici, affettivi ed emozionali collegati.

Il comportamento di allattamento è molto complesso, consiste in atti di tipo adattivo, altri di aggiustamento posturale reciproco, altri di regolazione e costruzione dell’interazione ed è interessante rilevare, come evidenziato da recenti ricerche, che la competenza precedentemente acquisita dalle multipare non è sufficiente a soddisfare le esigenze di un piccolo del tutto nuovo.

La considerazione del rapporto madre-neonato come processo, diadico all’interno del quale entrambi i partner sono impegnati ad integrare reciprocamente le risposte in un flusso significativo, ha messo in evidenza i fattori derivanti dall’interazione e dalla mutualità della relazione.

Nel giro di due settimane il comportamento reciproco assume il ritmo di una relazione di interazione complessa, con scambi, turni, pause e risposte.

L’adulto che è il membro più competente della diade, si adegua ai ritmi e ai tempi del neonato, che è parte attiva e vincolante del rapporto.

Fin dai primi giorni di vita il neonato è perfettamente in grado di regolarsi da solo sia riguardo al numero di poppate da effettuare in un giorno, sia rispetto alla quantità di latte da introdurre a ogni pasto. Qualunque sia il tipo di allattamento, al seno o artificiale, offerto al lattante è importante ricordare che la limitazione della quantità di latte da offrire al lattante può essere individuata nella limitazione costituita dalla voglia di assumere cibo da parte dell’infante.

Si deve cercare di individuare e rispettare il più possibile le esigenze del singolo lattante che non deve essere forzato a terminare la quantità prefissa nel biberon, nel caso, ovviamente, dell’allattamento artificiale, ma mangerà di più in uno dei successivi pasti, ne deve essere staccato dal poppatoio se vi è ancora del latte, raggiunta la “dose”, qualora mostri ancora appetito; assumerà meno latte nel pasto successivo.

Così anche non deve essere svegliato perché è scattata l’ora, ne si deve lasciarlo piangere come un disperato perché l’ora non è scoccata.
Fondamentale è l’esperienza che una madre attenta acquisisce giorno per giorno osservando il suo bambino.

Sia per l’allattamento al seno sia per quello artificiale di fondamentale importanza è l’influenza dei fattori ambientali per un buon accrescimento fisico e psico – intellettuale.

È importante, per la madre – nutrice durante l’allattamento, assumere un’alimentazione equilibrata ed essere attorniata da un ambiente sereno e supportivo che le consenta di giudicare i segni della richiesta di cibo del bambino, distinguendoli sia pure genericamente da altre cause di pianto e agitazione. L’allattamento risulterà tanto più efficace quanto più sereno sarà l’ambiente familiare e sociale.

Non possiamo dimenticare la realtà del bambino trascurato, negletto fino ai gradi estremi del lattante maltrattato e come questa situazione incida sulla frequenza della malnutrizione più spesso di quanto si sospetti. Infatti la malnutrizione è 3 – 4 volte più frequente nei lattanti abused rispetto ai non abused. Stabilito il principio attualmente condiviso in maniera diffuso che almeno per i primi 4 mesi di vita il latte, possibilmente materno o diversamente artificiale adattato, rappresenta l’unico alimento per il lattante, interviene, compiuti i 4 mesi, l’opportunità di diversificare l’alimentazione del bambino. In realtà il mantenere l’allattamento al seno fino ai 6 mesi e probabilmente anche oltre non è da considerarsi errato.

Questo momento di diversificazione viene indicato come “divezzamento”; quale passaggio graduale o brusco da un’alimentazione esclusivamente lattea ad una mista.

Lo svezzamento è una tappa di crescita e autonomia.

Durante e dopo lo svezzamento sarebbe auspicabile che la mamma rispettasse la stessa regola valida per il periodo di allattamento: il bambino sa perfettamente di quanto cibo il suo organismo ha bisogno, per cui se cresce regolarmente è inutile costringerlo a mangiare quantità di pappa maggiori di quelle richieste.

È consigliabile non forzare il bambino a mangiare, se lo si lascia libero di mangiare quando ha fame e solo ciò che gli piace i suoi gusti muteranno naturalmente e finirà per amare ciò che ora rifiuta. Vorremmo altresì sottolineare che il bambino in questo periodo di vita non solo inizia a modificare in maniera sostanziale la sua abitudine alimentare ma vive altresì un intenso periodo affettivo ed emozionale e la modificazione dell’alimentazione fa parte di queste esperienze, sicché globalmente le varie componenti di evoluzione psichica e motoria, di alimentazione di attività fisica, devono essere indirizzate nella maniera più armonica possibile.

L’abituarsi al cucchiaino e il porre fine al biberon fa parte di questo complesso di esperienze e aumenta la possibilità da parte del bambino di dimostrare il rifiuto di un alimento, di allontanare dalla bocca, ruotando il capo o con la mano, ciò che non gradisce.

Il momento del pasto quindi non deve diventare un’occasione di scontro tra mamma e bambino, l’ansia che il piccolo percepisce può gettare le basi per un cattivo rapporto con il cibo. Se il bambino avverte che la mamma ha fiducia in lui e non si sente forzato, avrà le basi per affrontare serenamente anche gli altri momenti della sua vita e la mamma avrà imparato che amare il suo bambino significa anche lasciare che cominci a fare scelte da solo.

La madre che offre il nutrimento in base alle richieste del bambino, lo aiuta a sviluppare, progressivamente la nozione di “fame” come una sensazione distinta da altri bisogni e tensioni fisiche. Questa acquisizione consentirà al bambino e, in seguito, all’adolescente, a non ricorrere al cibo di fronte a tutte le tensioni.

Con l’inizio della scuola elementare la popolazione infantile, anche quella che precedentemente non aveva frequentato asili nido o scuole materne, si trova a trascorrere parte della giornata fuori casa con la conseguente assunzione di cibo al di fuori della famiglia.
Questa nuova esperienza di separazione può determinare situazioni di ansia, che possono riflettersi sull’alimentazione e sul peso corporeo.

L’ansia è normale nell’infanzia.

Spesso l’ansia può riflettersi nel rapporto con il cibo.

Un effetto fisico dell’ansia è la tendenza a dimagrire. Ciò può essere, in parte, dovuto a un aumento del metabolismo e, certamente, i bambini ansiosi possono, a volte, mangiare in modo esagerato e ossessivo pur rimanendo magri. Ma può anche capitare che i bambini ansiosi non godano dei normali pasti e vengano condotti dal medico per la loro mancanza di appetito.

Inoltre occorre sottolineare che l’alimentazione scolare o prescolare risente di un definito elemento storico, essendo stata concepita per sopperire a situazioni di indigenza con l’assunto che l’apporto a domicilio fosse scarso di alimenti di elevato significato nutrizionale.
Pur essendosi la situazione molto modificata, è rimasta da un lato questa impostazione e dall’altro la diffidenza delle madri preoccupate di un’insufficiente assunzione di elementi del proprio figlio nel pasto o nei pasti consumati nella struttura.

Le madri tendono quindi a sopperire in maniera incongrua e per eccesso a quelle deficienze di alimentazione che il più delle volte in realtà non esistono e il bambino finisce con l’essere iper-nutrito. È importante quindi che i genitori possano stabilire il miglior rapporto fiduciario possibile con chi si occupa dell’alimentazione e dell’educazione del loro figlio al di fuori della famiglia.

L’adolescenza si caratterizza per una serie di eventi biologici e psicologici di cui l’accrescimento, la maturazione psichica costituiscono il risultato finale. L’inizio di questo periodo della vita con i primissimi segni morfologici e funzionali e/o psicologici di maturazione puberale.

Anche nell’adolescenza possono comparire conflitti tra figlio/a e genitori per quanto concerne l’alimentazione: l’adolescente, alla ricerca di una sua identità e autonomia, rivendica di volersi alimentare secondo criteri strettamente personali in opposizione a quelli stabiliti dai genitori.

In questo periodo l’alimentazione diventa, anche nella scelta dei cibi, iniziativa individuale del soggetto. A quanto gli viene preparato in famiglia, egli tende sempre più ad aggiungere alimenti assunti fuori casa, sotto l’influsso di suggestioni di mode, azioni pubblicitarie, richiami psico-sociali.

Alcuni adolescenti di fronte a qualunque stato di tensione indifferenziata, sia che si tratti di fame, ma anche di noia, di solitudine o di malessere fisico, hanno la tendenza ad assumere cibo, con la possibilità di diventare obesi, allo stesso modo di quando da bambini ricevevano dalle loro madri del cibo indiscriminatamente qualunque fossero state le loro manifestazioni.

I problemi di individuazione, di separazione e di contatto che sottendono la crisi adolescenziale si manifestano con vari sintomi tra cui, oggi richiamano l’attenzione per la loro diffusione, quelli rappresentati dai disturbi della condotta alimentare, quali l’anoressia, la bulimia, l’alimentazione incontrollata e l’obesità. La condotta alimentare che all’inizio della vita in modo privilegiato aveva consentito al neonato uscito dal grembo materno di ristabilire un contatto tra il proprio mondo e quello della mamma ora avviandosi a concludere l’età evolutiva può essere di nuovo privilegiata con le manifestazioni anoressiche e bulimiche.

I disturbi della condotta alimentare alcune volte hanno un significato simbolico (esprimono, cioè, desideri e conflitti su di un piano psicologico che si ritiene abbia raggiunto una certa evoluzione); altre volte hanno invece lo scopo di riavviare tappe evolutive non adeguatamente superate, come quelle che segnano il passaggio dal somatico al mentale. Esse iniziano più tipicamente nell’adolescenza in quanto le trasformazioni somatiche (sessualizzazione) ed emotive (distacco dai modelli genitoriali) rappresentano un momento critico per la loro emergenza. Esse fanno si che il corpo diventi, inconsciamente, il banco di prova delle capacità di separarsi. È l’uso del corpo con finalità mentali che è centrale.

Infine vorremmo sottolineare come l’esistenza e la salute di un bambino dipendano, possiamo dire completamente, dall’amore di chi lo circonda.

È importante che chi vive a contatto con l’infanzia, genitori, educatori, insegnanti, non trascurino le anomalie del comportamento alimentare che un bambino può mostrare durante i pasti consumati a scuola o a casa.

L’alterazione dei ritmi, degli orari, delle quantità, dei gusti e dei luoghi legati al consumo del cibo sono fatti che non si producono senza ragione.

Il bambino può usare il cibo come le lettere dell’alfabeto ma al posto di usare il linguaggio per parlare, inizia a “mangiare” diversamente dal suo modo abituale.

Quando ci si trova alle prese con un bambino che non mangia più, o che mangia tutto ciò che trova fuori pasto, è consigliabile non tentare di correggere il suo rapporto con il cibo, non cercare di imporsi a tutti i costi: il problema non è alimentare.
Gli si può chiedere ad esempio se e perché è triste.